1) Mi buttano su un letto di paglia in due
2) Di sicuro si amavano
3) E per sempre chiederai scusa
4) La tela
5) Analisi in tempo reale
6) Lo sento ancora denso quel boato
7) Quella sola notte del colonnello Tibbets
8) Senso di colpa
9) Uomini sul divano
10) Colpevole di libertà
 
 

 

 

 

"La colpa"

Di sicuro si amavano
di Giorgio Maimone

Di sicuro si amavano. Di più non saprei dirvi. E forse nemmeno loro. Lo avevano capito da poco, da pochissimo. E continuavano a ripeterselo per non dimenticarselo.
“Ora lo so. Ne sono sicuro. Questo è amore!”
“Come lo riconosci?”
“Proprio dal fatto che non lo riconosco. Se lo riconoscessi sarebbe qualcosa già vissuto. Ma so che è nuovo. E per ora unico. E se non è amore gli troverò un nuovo nome che suoni buffo, caldo e accogliente”
“Che ne dici di cioccolato?”
“Pensavo più al caffè … Ma cioccolato non va male”
Telefonate da lontano ricche di niente, di qualche scherzo, di un sorriso, di minuti comunque rubacchiati, ai lavori, agli amici, alle famiglie. Telefonate di chi vive spesso lontano. Ma senza drammi. Nulla vieta di vedersi. Non ci sono impedimenti di età, sesso, casta, religione, stato civile. Adulti e consenzienti. Ma, momentaneamente lontani. E nella lontananza (come diceva Modugno?) gli amori grandi sembrano grandi, ma si spengono i fuochi piccoli. Fuoco? Era più che altro una pira che bruciava e che li consumava. Nel corpo di persona, nell’animo da remoto.
“Che fai stasera?”
“Sono fuori con degli amici. Sai, quelli del cavallo …”
“Un cavallo non ha amici! Lo sanno tutti che è un solitario”
“Quello è il verme. Oppure si fa con le carte.”
“Si, con le cartine, ma dentro, il cavallo, ci mette tanta erba buona!”
“Gli amici del circolo di equitazione. Va meglio così?”
“Meglio. Se mi dai anche i loro nomi poi passa ad ammazzarli tutti, così si pentiranno di avere fatto sogni sconci su di te!”
“Piantala di fare il buffone!”
“Vabbé, a domani allora?”
“Certo. Ti chiamo domattina”
E la notte scendeva sulle esauste linee telefoniche del sud della Francia. E la stessa notte, ma proprio la stessa, scendeva anche sugli stremati pali del telegrafo della Liguria di levante. Solo al mattino dopo la situazione non sarebbe più stata la stessa. Avete mai notato che se non esistessero i “ma” l’intera storia della letteratura sarebbe molto più corta? Il “ma” è l’incipit della svolta; è come se l’autore dicesse: “fin qui abbiamo scherzato, schermaglie preparatorie, ora si entra nella storia vera”. E così ci prepariamo anche noi al nostro “ma”. Loro si amavano,era sicuro “ma” (eccolo qua!) la mattina dopo non ci fu verso di mettersi in contatto. I telefoni suonavano, i piccioni viaggiatori partivano, i postini pedalavano, i telegrafi ticchettavano, ma tutti invano. Non c’era segno di lei. E non era abituale. E, soprattutto, non era abituato.
Il silenzio è una lavagna nera su cui si possono scrivere i peggiori incubi. Soprattutto quando ti accorgi che il gesso che tieni in mano in realtà è carbone. E per giunta quello della calza della befana! Incubi neri con retrogusto dolce. Il retrogusto dolce era quanto restava del sogno d’amore del giorno prima.
Ma stiamo calmi e proviamo a ricapitolare. Si amavano, lo abbiamo già detto. Lui amava lei e lei amava lui. Niente avrebbe potuto scalfire queste certezze…
Niente?
Forse proprio niente no. Tant’è che ora vacillavano. E solo perché un maledetto telefonino non mandava segnale di risposta. Ma cosa poteva essere successo? Lasciamo la parola a lui. Io mi eclisso. La situazione, dopo un “ma”, rischia sempre di farsi troppo calda da gestire.

“Quando una non risponde un motivo ci deve pur essere! Vediamo di analizzare con calma: impegni di lavoro? Chiamo dalle 7! Uno non può iniziare a lavorare prima delle sette. Non mi vuole rispondere. E perché? Ci siamo parlati ieri sera. Le è successo qualcosa? Ma cosa? Non ci sono notizie di incidenti. Oddio, può essere uno di quelli di cui nessuno parla. Chessò … hanno bevuto troppo ieri sera e tornando, su una stradina di compagna … pam! Questo potrebbe essere. Sennò … sennò non PUO’ rispondere perché NON E’ SOLA! E di sicuro non è in compagnia della mamma! La stessa scena di prima: hanno bevuto un po’, lungo una stradina di campagna e… pam! Ma non era un cozzo! Cambio di vocale la chiamano sulla settimana enigmistica. E di colpo mi sento prudere la fronte. Ma non è umanamente possibile! E poi perché? Perché … domanda idiota … perché prima o poi capita. E si vede che a noi è capitata ora! Ma perché non risponde? Cinque ore col telefono staccato sono un’enormità. Altro che anima in libertà. La verità è che non siamo più abituati al silenzio. Il telefonino entra, spia, indaga, cerca di capire, di leggere tra le onde. E’ un occhio puntato dalle stelle verso terra. Un brutto occhio. Se almeno non avessi questa possibilità! Adesso sarei tranquillo. Lei non ci sarebbe ugualmente, ma rientrerebbe nella normalità. Così no. Così un buco di 5 ore diventa una voragine orribile dove fare precipitare tutti i nostri sogni”.




Sette ore. Sono sette ore di silenzio. Hanno avuto tutto il tempo per copulare il copulabile, per stancarsi, smettere e riprendere. E poi persino per pranzare assieme! Adesso basta! Un minimo di decenza. Possibile che non le interessi più niente di me? Eppure noi ci amiamo … ci amavamo? Era l’unica cosa sicura …



“Pronto, pronto!”
“Ciao”
“Come ciao?”
“Allora addio?”
“E’ già più appropriato!”
“Che è successo? Ti ha morso un serpente?”
“Che mi è successo? Mah …. Mah …. Non trovo nemmeno le parole! La sentite? Ricompare dopo un’eternità e mi chiede se mi ha morso un serpente! E’ un peccato che non abbia morso te!”
“Ti trovo veramente acido! E sgradevole. Se vuoi ti richiamo quando ti sarai calmato”
“Hai tempo? No, dico … Hai molto tempo? Ci vorranno una ventina d’anni circa. Non ti sembra davvero il caso di dare una spiegazione?”
“Non finché tieni questo tono sopra le righe!”
“Ok, lo porto sotto il rigo”
“Adesso fingi”
“No! Cerco di essere calmo quanto tu cercherai di essere convincente. E’ possibile trovare una mediazione così?”
“Scusa, ma avevo mal di testa. E non mi andava di essere disturbata mentre guidavo. Così ho spento”
“Cosa?”
“Ieri sera abbiamo bevuto troppo, poi all’uscita, su una stradina di campagna … Pam!”
“Pam!!!”
“Si… Pam! Perché”
“In che senso PAM?”
“PAM! Mi è scoppiato un mal di testa folgorante. Sono anche un po’ preoccupata. Poi sono arrivata a casa, sono andata a lavorare e ho lavorato fino a poco fa. Poi ho pranzato e lì mi sono accorta che avevo ancora il cellulare spento”.
“Ah! Tutto qui?”
“Tutto”
“Non che quel PAM sia stato un altro tipo di PAM? E poi tu che non ricevi telefonate per quasi tutta una giornata e non ti turbi? Nemmeno di lavoro? Niente di niente? Come è possibile?”
“E non lo so come è possibile, ma è andata così”
“E se non ci credessi?”
“E perché non dovresti crederci?”
”Ammetterai che non è realistico”
“Non lo so. E’ andata così, punto. E adesso devo andare”
“Che fai, spegni ancora?”
“No, riattacco! Ciao”.

Ha riattaccato! La stronza! E neanche a dire che si senta in colpa. Al massimo l’avrà trovata in “polpa” lui! Già ma lui chi? Non ho neanche idea di con chi sia uscita. L’amico del cavallo … e chi è? L’alfiere? Non che abbia importanza. Quella che importa è lei. Ma è possibile? Mah …


….

“Pronto”
“Sei ancora arrabbiato?”
“No. Sono furioso!”
“Allora s-furiati che non c’è nessun motivo”
“Va bene, ma allora spiegami. Cosa è successo?”
“Niente, solo il mal di testa”
“E dagli ma prenditi una pillola!”
“L’ho presa”
“Un momento! Quale pillola?”
“Tutte e due. Quella per il mal di testa e l’altra”
“Allora c’era rischio di restare incinta?”
“Idiota! Quella la piglio per stare con te!”
“Eh già, dicono tutte così!”
“Tutte chi? Ma con quante stai?”
“Adesso non incominciamo che stiamo parlando di te!”
“Ma forse diventa più interessante parlare di te”
“Stai girando la frittata”
“Ma da grande cuoca! Sei tu che la giri facendola cadere”
“Insomma, adesso basta! O mi dici cosa è successo ….”
“o …?”
“O me lo dici e basta”
“Mmmm l’ometto mostra i muscoli?”
“Non è questione: cosa è successo? Sette-otto ore di silenzio sono un’enormità da parte tua”
“Doveva pure esserci una prima volta”
“Questo vuol dire che …?”
“Vuol dire solo che ci sono state sette ore di silenzio”
“Otto”
“Otto, va bene”
“Va bene, anzi va male, Claudia. Ma ti rendi conto che non ci stiamo capendo per niente? Tu non vuoi capire che io sono stato in ansia per te e non vuoi dirmi nulla di più e io … io non so cosa pensare di te”
“Hai ragione. Adesso arrivo e ne parliamo”
“No, aspett … Ha riattaccato! Ma ci ha il vizio? Non conosce il diritto di replica … la par condicio.Viene qui? Come “viene qui”?Ma è già sera! Le conviene? Non potevamo parlarne per telefono. Che si faceva anche prima. E poi domani sarò lì anch’io. Tra un po’ la richiamo. Però mi fa piacere che venga. Di persona è diverso. Anche le peggiori ipotesi viste dal vivo, faccia a faccia possono sfumare. La aspetto. Tra due ore sarà qui. E’ anche una bella serata. Possiamo uscire a bere qualcosa. No, vado a prendere una bottiglia di vino bianco, un Pigato, e la metto in fresco. Poi ce la beviamo qui sul terrazzo. Il mare, la luna, un po’ di vino … in fin dei conti potrebbe finire meglio di come è iniziata questa giornata”.

….

Sono ormai le cinque di mattina. Il bianco dell’ospedale Galliera è allucinante. Il nero che ho dentro va in conflitto. E’ strano quanto non mi senta. Non mi sento stanco, non mi sento male, non mi sento bene, non sento neanche quanto dicono intorno. Coma? Incidente? Ci vorrebbe un miracolo? Di cosa parlano? Il miracolo non c’è stato. Non ci sono mai i miracoli. Quando non c’è vita si muore. Ogni tanto si muore comunque. E si continua a camminare. Come quel pollo di cui mi raccontava mio nonno. Con la testa mozzata correva qua e là per il cortile spargendo sangue ovunque. Così sono io. Un pollo dalla testa mozzata. Posso ancora camminare. Ma sono sicuro che getterò il mio sangue attorno. Che ci posso fare? Sono amputato. Non si vede. Sono amputato dentro. Di Claudia. Non è mai arrivata da me. La terrazza è rimasta vuota. Il vino in frigo. I discorsi in bocca. Ora non saranno più sette ore di silenzio. Sarà silenzio e basta. Esco dall’ospedale, prendo un taxi fino a Caricamento, risalgo per via Soziglia e mi inoltro fino a Vico Neve, nel cuore della mia città che muore. Mi butto senza neanche accorgermene dentro da Manetta, l’unico posto che conosca aperto tutta la notte. Qualche tavolo più in là gira una chitarra e si canta. Ma cerco il buio e un tavolino d’angolo. Una bottiglia di vino rosso e un tagliere di salame. Mi giro spalle alla porta. E così non mi accorgo di lei finché non si siede al mio fianco.

“Ti vedo stupito”
Lo sono. La donna è di una bellezza clamorosa. Prima di riuscire ad articolare una parola sono costretto a farle il perimetro con gli occhi. Ci impiego parecchio tempo. Tanto da darle modo di parlare ancora.
“Non sai chi io sia, vero?”
“Uh uh” – Il mio lessico normalmente è più brillante di così, ma provate voi a mettervi nei panni di uno a cui muore la ragazza e un secondo dopo essere sceso all’inferno si trova seduto a parlare con un angelo. Nero. Perché la ragazza è tutta nera.. Nei lunghi capelli lisci ala-di-corvo, nella giacca di pelle, nei jeans fatti-a-pelle, nella maglietta che sorride. Nera come una Juliette Greco cinquant’anni fuori tempo massimo. Tanto erano chiari i colori di Claudia, tanto questi sono scuri. Persino gli occhi. Carbone che arde. Rossi? Mannò, neri! Prima che arda!
“Non preoccuparti. Non è importante. Non sono importante. … Però potresti almeno offrirmi da bere!”
Mi alzo travolgendo un paio di sedie, mi precipito a prendere un secondo bicchiere e verso sulla tavola un buon quantitativo di Nero d’Avola, prima di riuscire a centrare il bicchiere. Poi, sopraffatto mi accascio sulla sedia.
“E’ colpa tua”
Colpa? Forse non dovevo rovesciare il vino sulla tavola. Mi affanno ad asciugarlo col tovagliolo di carta, presto zuppo.
“Non il vino. Parlo di Claudia”
Ah, questa poi! Come colpa mia? Ma . soprattutto … cosa ne sa lei di Claudia? E di me? E chi è? Mentre penso che sia ora di finirla di fare la figura dell’idiota e sia ora di aprire bocca, mi cade il coltello. Mi chino per prenderlo e, meraviglia, non vedo le sue gambe sotto il tavolo. Una mezza donna? Mi alzo di scatto, picchio la testa, ma noto con sollievo che non c’è più nemmeno la metà superiore. Resta il bicchiere, ma vuoto. Così vuoto che mi chiedo se sia mai stato usato. Mi avvicino a Manetta per pagare e andarmene.
“Dì … l’hai vista?”
“Chi?”
“La mora che si è seduta al mio tavolo”
“Stessi a guardare tutte le more non lavorerei più. Notevole?”
Notevole? Era dir poco. Era da premio Nobel per la fisica! Non replicai, pagai e me ne andai con lo stesso aplomb dell’uomo del Vecchio frac di Modugno. Mi mancava solo la gardenia nell’occhiello. Tornato in zona Acquario per recuperare l’auto la rivedo. Mi aspetta. Non ci sono dubbi. Riconosco il culo … no, volevo dire … riconosco che sotto il suo culo si sta evidentemente eccitando il cofano della mia macchina.
Riesco appena a indicarmi come dire “cercavi me” che mi guarda e mi sorride con la stessa nonchalanche con cui l’uragano Ivan ha spazzato le coste della Florida. Annuisce e col dito mi invita ad avvicinarmi. Poi fa cenno di lanciarle le chiavi della macchina. Le afferra al volo. Apre col telecomando, si muove languida scendendo dal cofano, mi guarda e dice ancora in un sussurro che capisco solo io: “E’ stata colpa tua”. Poi lascia scivolare le chiavi di fianco alla portiera di sinistra. Le raccolgo e, come previsto, quando mi rialzo non la trovo più. Salgo. Accendo l’autoradio. Musicaccia. Metto Keith Jarrett, il concerto di Colonia, non tradisce mai. Parto. Ho ancora tanta Aurelia da macinare e tante storie da raccontarmi. La bellissima dama nera deve uscire dalla mia storia e dalla mia mente. Asfalto viscido di prima mattina, ma non ha piovuto. Spruzzi di mare, rugiada, pianto, sangue che scorre. E una mattina che non riesce a farsi chiara. Tiro dritto a una curva e volo in mare. Giuro, la dama nera era seduta a fianco a me e rideva. “E’ colpa tua – dice – Claudia era con me. Facevi meglio a crederle”.


Arancia si chiede, ma lei mente o non mente?