di Falco
Passioni d’inverno arrivano grigie.
E l’alba e il tramonto confondono agli occhi.
Di ore, minuti. Momenti veloci.
Di giorni più corti, di soli già spenti.
Aspetta nervosa di sangue vissuto,
l’esplodere dentro e fuori di sé.
E s’alza e cammina, attraversa la notte,
esamina, scruta, controlla e misura
le stelle che passano, le lune che mancano.
E conta e riconta le strisce, le righe, le macchie.
E vede di visi, di nasi, di bocche
il ricordo tracciato su ogni più piccolo pezzo di marmo.
Accarezza di ruvido muro come di parete in velluto.
E di rosso tiziano, di oro barocco, di specchio offuscato.
In una vecchia poltrona il posacenere cade
e muto d’un tonfo incontra la notte.
E cenere e cicche, e fumo invisibile,
sollevano piano il sogno del giorno.
Lo guarda da cieca e segue il suo corso,
al timido ritmo, dal silenzio invasato.
Nei mondi passati ritorna curiosa,
nelle vite presenti si trascina scomposta.
Invano lo tocca, invano lo tiene.
Fuori e dentro di sé, di vita finita si espande.
E scivola fuori come fiume in letargo.
Di rosso fumante ormai caldo alle dita.
E secca di fango, e macchia di vino.
Di femmina è certo la prima avvisaglia.
Di madre mancata.
Di vita passata.
Si strappa dal cuore anche l’ultimo dono.
L’inutile, del ventottesimo giorno.
Caffè
amaro
di Silvia Mineo
Erano i posti affollati degli angusti angoli metropolitani
il luogo in cui, meglio di ogni altro luogo… cercava, non
trovava…
il punto di congiunzione con la sua parte buia.
Quello che appariva… era solo quello che
sembrava,
quello che lei voleva che sembrasse…
dolci sinuosità che occhi indiscreti maliziosamente carezzavano,
fra le quali pensieri erotici si risvegliavano
per trovare oblio…
Le sue vesti erano un sipario, sul palcoscenico
i suoi seni recitavano la parte,
un perizoma divideva le due metà della luna…
una linea tra il visibile e l’invisibile…
Tutto questo funzionava meglio dei semafori pedonali…
meglio di un pass per le code alla cassa del bar…
La donna sorrideva, ed era tutto così terribilmente
prevedibile! Come
un film visto per la decima volta…
Uomini con le pupille in caduta libera, come le
dita furtive di chi
ruba la marmellata…
Uomini come bambini,
uomini come marionette, ed era solo lei a muoverne i fili.
Il bianco dei colletti si rifletteva sulle tazze
del caffè…
Quasi tutti lo prendevano troppo dolce, ma c’era chi si
preparava con
cura all’evento,
mescolondolo accuratamente.
Chi lo beveva tutto di un fiato, e chi lo assaporava lentamente,
fino
all’ultima goccia…
Era come tanti modi diversi di fare l’amore… nessuno
che lo preferisse
amaro…
La storia
dell'uomo-bambino
di Miriam Brondani
Guarda: le vedi?
Parole di fiabe, parole – neve
scendono a terra sul buio piu' nero.
Parole – cristalli di storie e poesie
sui tetti – coperchi, su uomini – gatti.
Piume di vento portate dal cielo:
dal bianco prato del sole - sovrano.
Riesci a vedere i castelli incantati
dipinti a colori da fari intonati?
E pietre d’amore chiamate per nome,
giochi d’incastro, raggianti sorprese,
vele spiegate dal mago – indovino?
Riempi lo zaino di neve – alfabeto,
prendi le piume e fanne cuscino:
ancora una storia per l’uomo - bambino.
Veleno
di Rael
Con uno spiedino
mi trapassasti il cuore,
lo cuocesti a puntino
sul fuoco dell'Amore.
Facesti uno spuntino.
"Croccante! Ha un buon sapore."
Bevemmo un po' di vino
e poi chiamai il dottore.
Luce
di Barbara
Luce che torna a brillare nel vicolo dell'anima dove scorre una
fonte di speranze uccise, corda che si tende e poi si torce e
poi allenta la sua stretta per ritornare a torcersi e mai spezzarsi.
Mare che bagna, complice di salsedine che secca brandelli della
mia pelle e ancora deserto di paure, di dubbi... di bugie. Vento
di insicurezze e folla di sensazioni e verità e brezza
di solidi abbracci. Giorno di desideri e notte di addii. Pane
di baci e carezze, fame di solitudini. Lacrime senza sapore, senza
sapone.. incapaci di lavare il dolore. Risata che appaga e benessere
che appartiene al nostro tempo, grotta sicura, buia e asciutta
che nessuno può riconoscere se non il letargo dei nostri
corpi. Male che consuma e sorriso che riempie coppe di vuoti.
Vita tra le tue braccia e morte lontano da te e nulla più.....
forse......
Puzzle
di Silvia Mineo
Straripando,
scivoliamo
nell'immagine perfetta
di un puzzle.
Calma Piatta
( o "Sangue solo")
di Falco
Ho visto calma piatta.
Mare in luglio. A onde dolci.
A morire nelle linee quasi rette d'orizzonte.
E sotto vortice di melma.
Nebbie sporche di profondità.
Spento vulcano eruttava acque buie a spire.
Mare in luglio.
Calava a basso.
Calava a basso. Separato a cielo e sole.
Calava a basso.
Calava a basso. Fino a perdere il suo fondo.
Consumava.
Calma piatta.
Un velo. Solo. Rilucente.
Ancorato al fondo degli abissi.
E pulsa sangue. Sangue solo,
questa sola porzione meccanica di cuore.
IMOLA
SBK 2002
di Mario Robusti
Mi addormento fra mille dubbi per la gara.
Prima però butto un occhio sugli appennini, sulle nuvole
che si addensano minacciose sopra al Santerno. Ho bisogno di sognare…
Sette e mezza, che orario da schifo per
alzarsi di domenica. Simonne sta ancora dormendo, con il libro
di poesie sommerso dai capelli ramati, con le spalle bianche,
nude, seminascoste dalle lenzuola. I suoi occhi castani sognano
sotto le palpebre, forse una casa bianca in mezzo ai campi verdi,
con la vista sulle dune della spiaggia australiana dov’è
nata. Non ho potuto che amarla quando è arrivata sulla
pit lane accompagnata da Neil, augurandomi un “in bocca
al lupo” che non mi ha fatto arrivare nemmeno alla seconda
curva.
Mi alzo e vado a preparare la colazione. Sul piccolo tavolo del
motor home appoggio la sua tazza, una rosa e il solito biglietto:”
Sto provando, quando vieni a darmi il bacio portafortuna? Ti amo”.
La caffettiera la sveglierà fra cinque minuti. Intanto
indosso il completo ufficiale, mi faccio la barba e preparo la
borsa con il casco, lucidato ieri sera, e la tuta. Appena esco
dal bagno la caffettiera inizia a fischiare. Mi bevo una tazza
di caffè amaro ed esco, senza vedere i suoi occhi appena
aperti che mi augurano buona fortuna. So che sono lì, puntati
su di me, aspettando un mio sguardo che non arriva mai quando
c’è la gara. Faccio solo in tempo a sentire il suo
“in bocca al lupo”, che sembra arrivare dal mondo
dei sogni, prima di uscire e venire svegliato dal freddo e dal
rombo che proviene dalla strada che costeggia il circuito. Amo
la musica e il profumo dei motori, e sentirli alle otto di mattina
mi fa impazzire, come il sapore dei gas di scarico, anche se preferisco
quello dell'aria pura, che si respira davanti al gruppo.
Le otto: c'è già gente a bordo pista, chissà
che freddo avranno preso per arrivare qui Arrivo di fronte ai
box, dove trovo I miei meccanici:
"Troy, di buon ora! Sei pronto a battere quella scoreggia
di texano? Ti vedo cattivo: Simonne stanotte ha scioperato?"
Sempre fine Marco, il gommista, ma evidentemente la mia faccia
non promette niente di buono.
"Tu pensa a tua moglie che sta a casa, mentre tu sei qua
a lavorare. Voglio vincere, non mi interessa Colin”
“Si, come no! Comunque interessa alla Ducati. Fatti valere.”
Si, mi farò valere, perchè non ci sono alternative.
Forse è meglio che mi rilassi un pò prima di iniziare
l’ultima gara del campionato.
Inforco la bici e inizio a pedalare giù per il Santerno.
Un solo giro di pista. Mi fermo alla tosa a chiacchierare con
un commissario sulle condizioni della pista. Vedo già quelli
che non si sono lasciati intimidire dalla pioggia e dal freddo.
Alcuni si stanno coprendo con uno striscione su cui hanno scritto:”
Troy, nel dubbio…tien giù!”. Vorrei andare
là, dirgli di non preoccuparsi, che darò il massimo.
Forse però, per loro è più gustoso non sapere
nulla ed aspettare la gara nella trepidazione assoluta. Intanto
si accorgono di me:
"OHOH, quello là era Troy!!!"
"Si, e cosa fa? Sta corrompendo un commissario per mettere
una bandiera fra le ruote di Colin?"
"No, scarica dell'olio per farlo scivolare con Haga"
"Ma va, tanto Haga cade da solo, non serve l'olio"
Voglio bene ai tifosi. Questa gente ci ama. Siamo qua per dare
vita ai loro sogni, sulle "loro" moto. Siamo qua per
far godere migliaia di persone che vedono uomini su mostri derivati
dalla serie. Siamo...spettacolo.
Almeno non fanno cori da stadio...come in motogp...non ci devo
pensare, devo concentrarmi...devo vincere. Vincere!
La pista è bagnata, e le nuvole non promettono niente di
buono. Sarà dura metter giù duecento cavalli con
l'acqua. Non so se fidarmi della sensibilità o dell’elettronica.
Vorrà dire che, tra un’ora, nella sessione di prova,
userò due moto diverse.
Sento ancora gente fuori dalle porte, le loro urla, le loro risa.
Si tengono caldo attaccati ai loro sogni ed ai loro biglietti.
I rumori delle macchine sono nascosti sotto ai rombi delle moto,
che si moltiplicano sotto gli sguardi sicuramente ammirevoli degli
appassionati.
Finito il giro di pista ritorno ai box ed aspetto che Mimmo, il
mio capomeccanico, abbia finito di settare le centraline delle
moto, poi ci scambiamo qualche opinione. Siamo daccordo sul provare
due set diversi, e gli lascio iniziare il lavoro sulla moto di
riserva. Intanto mi siedo nel mio angolo, cercando con gli occhi
qualcosa nel cielo, fra le nuvole, magari qualche idea per capire
come colmare quel gap di cavalli che passa tra me e Colin. Ma
alla fine chiudo gli occhi…e sono in carena. Snocciolo marce
per tutto il rettilineo, in semicurva sinistra. Qualche foglia
che cade a bordopista, il segno che anche quest’anno tutto
sta finendo. Una stagione in giro per il mondo vivendo emozioni
e accumulando adrenalina. Non c’è tempo per altro:
stacco in derapata per entrare nella chicane...sono a metà
curva ed inizio a dar gas, di più di più... si intraversa
il posteriore sul cordolo. Attento, è bagnato! Via, allungo
fino alla seconda chicane, uscita cieca, non si vede la corda...
solo grigio, azzurro e vento gelido. Aumenta il battito ma la
mano si muove al momento giusto, come se sapesse che non c’è
pericolo. Una marcia, un'altra, poi via tre ed ingresso, trattenendo
il fiato, nel tornantino in discesa...le urla che trapassano il
silezio fatto dal rombo dei motori, e si dimenticano in una manciata
di secondi. Ora l’istinto mi porta sulla traiettoria giusta,
col gas in mano fino all'"uncino", la esse in salita.
L'uscita, è da brividi, su una striscia d'asfalto viscido:
sfioro ancora il cordolo e sento lei che si scompone...ma non
devo mollare, so che sta arrivando un’altra curva. Ancora
non si vede il punto di ingresso, e mi sembra di volare sotto
le nubi. Mi porto sulla sinistra senza vedere altro che il cielo
e gli appennini. Le nuvole si muovono veloci, anche loro in corsa
verso una meta lontana, con il sorriso sulle labbra. Anche loro
in cerca, forse, di qualche cosa che valga la pena di essere vissuta.
Discesa, staccata, curva secca a destra, arrivo al limitatore
e poi, ancora, una curva a sinistra...terza,quarta,quinta, con
i contraccolpi della moto quando entrano le marce. Lei vuole andare
caparbia alla meta, non ne vuole sapere di stare ferma...staccata
alla esse in cima alla collina del Santerno, con l'asfalto che
se ne va sotto le ruote, che scivola via senza lasciare traccia.
L'apice della difficoltà…dentro in piega, a destra,
con le saponette che ormai protestano e lasciano passare il calore
sulle ginocchia. E giù, ancora, senza paura. Due muri che
circondano il mio nastro d'asfalto, seguiti da due ali di folla
che cercano di entrarmi nel casco. Una telecamera che mi riprende,
proprio di fronte, che cerca di sapere cosa passa per i miei occhi.
Poi di colpo compare una curva di 90 gradi a sinistra...una staccata
al limite della fisica, in cinquanta metri ti passa di fronte
tutta la vita e decidi che in fondo mollare i freni non è
la decisione sbagliata. La moto, in uscita, vibra fino allo spasimo,
sembra spaccarsi da un momento all'altro. Poi ancora sinistra,
ancora gas, discesa leggermente a destra, manca poco. Ultima esse,
la mia voglia di vincere decide per me, ribellandosi con rabbia
alla natura che spinge la moto fuori, sul muretto. Migliaia di
sguardi dagli spalti che sfilano via, sotto ad una bandiera...
Una dolce pressione, calorosa e sfuggente sulle mie labbra, mi
sveglia. I suoi occhi castani nei miei, la sua bellezza infreddolita,
il suo sorriso che mi sta dicendo…
“Hey amore, svegliati. Stanno arrivando, li senti?”
“Scusa Simonne, mi sono solo appisolato. Non hai freddo?”
“Si, tantissimo. Immagino loro…” La stringo
fra le braccia, mentre Troy passa con la sua rossa numero 1.
La
pioggia rossa
di Rael
Ero sulla moto quando una prima goccia mi bagnò il naso.
Qualcosa non andava: indossavo il casco. Allora frenai, girai
la chiavetta e spensi il motore. Slacciai la cinghia dell'elmetto,
liberai la testa, alzai lo sguardo e mi stupii del cielo, terso
e pulito. Nessuna nuvola, eppure pioveva. Un'altra goccia cadde,
sul dorso della mano. La sentii calda, scivolare verso l'indice.
Provai paura quando di colpo ricordai... che era l'inverno ed
io indossavo i guanti. Allora, veloce, tolsi l'indumento, certo
che si trattasse d'una qualche sensazione dovuta, forse, al troppo
freddo. Guardai la pelle, vidi una riga rosso scuro. Ancora umida...
Leccai... e riconobbi un sapore metallico, agrodolce... inconfondibile,
sapete, ma non riuscivo a capire. Non c'era alcuna spiegazione.
Nemmeno feci in tempo a controllare che della stessa natura fosse
la goccia sul naso che... Altre due caddero, bagnandomi la fronte
e addirittura l'alluce del piede destro. E dire che calzavo stivali
in gore-tex! Stivali "guaranteed to keep you dry." Abbassai
il cavalletto, scesi dalla Suzuki e, ancora non consapevole di
ciò che stava accadendo, cercai riparo sotto un balcone.
La pioggia iniziava a farsi più intensa, anche altra gente
se n'era accorta. Vidi pedoni correre dentro ai negozi, uomini
e donne uscire dalle auto (alcuni gridavano) e rifugiarsi nei
caffè. E vidi persone che, dalle abitazioni, si affacciavano
alle finestre per capire cos'era... quella sostanza che le raggiungeva,
persino dentro alle case. Non era servito lasciare la moto...
correre qui sotto, mi dicevo. Intanto, senza farci caso, quasi
per esorcizzare il terrore che provavo, - come quando, da bambini,
si ripete all'infinito la filastrocca che caccia il Babau, il
temporale o la scuola – contavo le gocce che, dall'alto,
una dopo l'altra toccavano il mio corpo. Ed ogni goccia era una
domanda assurda. Come poteva, quello strano acquazzone, trapassare
il metallo delle auto, il cemento dei palazzi e perfino il gore-tex?
Come mai non bagnava gli alberi, i marciapiedi e le aiuole ma
solamente gli uomini? Non la sentivo battere, sempre più
forte, sulle grondaie, sui vetri e l'asfalto... ma questo era:
la pioggia aumentava. Ammutoliti, occhi sbarrati, ce ne stavamo
zitti zitti ad osservare il volto di chi ci stava accanto e si
tingeva di rosso. Lucido, untuoso... un rosso appiccicoso che
ricopriva tutti, soprattutto me. Un repellente, osceno, sangue
di nessuno... che mi colava addosso, maledizione! Sarebbe stato
inutile asciugarsi, il liquido impregnava soltanto una cosa. Profumo
dolce... familiare... di pane caldo e tiepido miele, sentii nell'aria
ad un certo punto. Le spalle al muro, ciascuno chiuso nel proprio
inconfessabile imbarazzo, si contemplava tutti la nudità
che ci accomuna... e che la pioggia rossa, all'improvviso, rivelava.
Potrebbe sul serio trattarsi di sangue ma ancora, a tre giorni
dall'inizio, nessuno ha trovato il coraggio di appurarlo. Continua
a scendere, sulla nostra pelle, in tutto il mondo, la pioggia
rossa. Nessuno ne parla, nemmeno io. Lo scrivo sul diario per
non impazzire. E intanto speriamo che finisca. Intanto lavoriamo,
come sempre. Guardiamo la tele, come sempre... ed io non so se
ridere di questi volti allucinati che non riconosco, sporchi di
sangue come sono. Ma noi evitiamo, assolutamente, d'incrociare
sguardi che non siano assenti. Proviamo ad illuderci che nulla
sia cambiato. Staranno cercando una soluzione. Magari anche alla
pioggia ci abitueremo... alla pioggia rossa che rende viscidi...
anche se gli scienziati diranno che è sangue e che non
esiste legge della fisica che spieghi un fenomeno così
aberrante. Magari anche a lei ci abitueremo e, meno sperduti di
quanto siamo adesso, in essa sguazzeremo come maiali nel fango.
Riprenderemo a fare le nostre cose... le nostre solite, piccole,
cose. Grazie a Dio.
COSA
GUARDANO I GATTI?
di Enriquez
L’altro sabato notte
osai parcheggiare l’auto nel garage sotterraneo. Dico che
osai poiché ero leggermente bevuto. Anzi, a dirla tutta
ero proprio bevuto. Whisky, soprattutto; ma quell’ultimo
martini che avevo buttato giù, per concludere degnamente
la serata, si era affezionato al mio stomaco, tanto da non volerne
sapere di lasciarsi digerire. Senza contare che lo spicchio di
lime, che il buon Roby mi aveva aggiunto in uno scatto di generosità,
mi aveva lasciato in bocca un fiato a prova di Vigorsol.
Quindi, portai giù la macchina nel box interrato. Il box
era aperto, meglio così. Feci tutte le manovre e notai,
con una punta d’orgoglio, di non aver fatto nessun danno.
Solo nel chinarmi per chiudere la basculante, lo stomaco suonò
l’allarme ma, in qualche maniera, riuscii a tenere tutto
al suo posto. Pensai che arrivato a casa mi sarei fatto due litri
di bicarbonato.
Sentii riaprirsi il cancello automatico e vidi scendere nel sotterraneo
una Ford blu, guidata dal solito ragazzo vestito sempre sportivo
con gli occhiali. Mi fece un cenno con la mano; io stavo ancora
litigando con lo stomaco, quindi mi limitai ad una veloce occhiata.
Comunque mi ripresi e, con passo lento e barcollante, mi affrettai
a risalire lo scivolo prima che il cancello si richiudesse, per
doverlo poi riaprire un’altra volta per la felicità
dei condomini che alle quattro di notte di sicuro stavano dormendo.
M’incamminai verso casa, visto che non abito nel palazzo;
lì ci metto solo sotto la macchina. Dove abito non ci sono
box per le auto; ovvero ci sarebbero, ma con rate d’affitto
sconsideratamente alte per uno studente universitario. E poi non
è che stia tanto lontano ed ogni tanto fa bene una bella
e sana passeggiata. Anche se ogni tanto equivale a tutti i giorni.
Neanche il mio vicino di box, il tipo sportivo, abita lì;
sta poco più lontano dal mio quartiere, un po’ più
spostato verso la nuova tangenziale, verso la campagna. Intelligentemente
usa una bicicletta.
A proposito, il ragazzo si stava dilungando nel box ed il cancello
si era nel frattempo richiuso, con un secco suono ferroso. Probabilmente
c’era un bel pezzo alla radio; mi pare che al tipo piaccia
molto la musica; ha un adesivo dei Led Zeppelin sul lunotto della
Ford.
Intanto io avevo già percorso un bel po’ di strada,
attraversato lo stradone statele che taglia in due la città
e tagliato per il giardinetto di un vecchio complesso di case
popolari. Ormai ero nel pieno della piazzetta dietro la mia via,
quando sentii un miagolio: un bel gattone bianco, uno dei tanti
che abitano le cantine ed i tetti delle vecchie case, mi fissava,
seduto, solo come i gatti sanno stare seduti in maniera tanto
elegante ed aristocratica. Se ne stava calmo sopra ad un muretto
che circonda un tratto del perimetro della piazza. Una macchina
scura rombò veloce in mezzo ai nostri sguardi, ma il gatto
bianco non la notò neppure, continuando a fissarmi. Ed
io a fissare lui.
Quindi staccò finalmente gli occhi da me e si girò,
alla sua destra, attratto dal rumore delle forti pedalate di un
ciclista; era il ragazzo sportivo che mulinava sulla bici. Stava
facendo un pezzo di strada in discesa e prendeva velocità
come un Cipollini al traguardo di una tappa. Mountain bike nera,
con scritta verde Snake sulla canna, soprabito grigio svolazzante,
ma che non si prendeva tra i raggi. Un sorriso soddisfatto dello
sforzo e sicuro di sé.
Una Golf bianca sbucò dalla via che da sinistra entra nella
piazza, quella che poi gira a destra e porta a casa mia. Tagliò
netta verso l’interno della piazza, diretta ad uno spazio
vuoto nel piccolo parcheggio. Per un attimo i fari illuminarono
le mie ginocchia, poi qualcosa si frappose tra me e loro. Sentii,
tra i fischi inutili delle gomme, il gatto bianco miagolare secco;
percepii il sospiro nel moto di sorpresa del ciclista, il ragazzo
sportivo che andava dritto verso il muso della Golf. I fari si
spensero quando il pedale ed il piede del ragazzo penetrarono
nella mascherina e rimasero cocciutamente lì, mentre il
resto del tipo sportivo veniva violentemente spinto e fatto rotolare
nel mezzo della piazza. Tanto vicino a me, che gli occhiali del
tipo mi caddero tra i piedi, ancora incredibilmente intatti. Un
ottimo paio di lenti.
Il ragazzo finì di rotolare sbattendo contro un’altra
macchina in sosta, macchiando di sangue la carrozzeria perfettamente
grigia e metallizzata dell’auto, mentre la sua testa ci
si poggiava in una posizione non troppo naturale.
La Golf si girò per metà in mezzo alla piazza, con
i fari spenti ed il muso distrutto che imprigionava un pedale
ed un piede. Il guidatore scese; biondo e perplesso continuava
a far passare gli occhi tra il ragazzo a terra, la sua macchina
e me, che non riuscivo a staccare gli occhi dalle lenti del ragazzo,
sporche di sangue ai miei piedi. E mi chiedevo: perché
non mi sto mettendo a vomitare? Invece il senso di rigurgito che
avevo fino a due minuti prima si era volatilizzato. Alzai lo sguardo
da terra quando udii il biondino che chiamava i soccorsi con il
cellulare.
Mi girai, senza sapere perché, verso il muretto di fronte
alla scena. E lì, ancora seduto, senza essersi scomposto
di un millimetro, stava il gattone bianco. Teneva lo sguardo fisso
sulla scena che, mi dicevo, era finita. Basta, non c’era
più niente da guardare! Ma lui continuava a fissare il
punto esatto dove si erano scontrati il ragazzo sportivo e la
Golf bianca come il suo pelo.
Mi scoprii a chiedermi: ma cosa guarda? Cosa diavolo sta guardando?
Quale diavolo sta fissando, come se fosse vero ciò che
si dice, che i gatti sono in grado di vedere le tremolanti onde
del destino, le sue infinite sfumature di colore.
Magari, mi dissi mentre una vecchia si era messa ad urlare da
una finestra, che lui stava semplicemente assistendo ad un altro
spettacolo, un’altra scena. Un altro spazio ed un altro
tempo per i quali una Golf bianca non sarebbe passata di lì
ed il ragazzo sportivo sarebbe arrivato a casa, canticchiando
“Thank you” degli Zeppelin e pensando al suo vicino
di box e ad un gatto bianco, che lo guardavano pedalare giù
per la piazza.