Gli "Arrembaggi"
Del sangue vissuto

di Falco

Passioni d’inverno arrivano grigie.
E l’alba e il tramonto confondono agli occhi.
Di ore, minuti. Momenti veloci.
Di giorni più corti, di soli già spenti.

Aspetta nervosa di sangue vissuto,
l’esplodere dentro e fuori di sé.
E s’alza e cammina, attraversa la notte,
esamina, scruta, controlla e misura
le stelle che passano, le lune che mancano.

E conta e riconta le strisce, le righe, le macchie.
E vede di visi, di nasi, di bocche
il ricordo tracciato su ogni più piccolo pezzo di marmo.
Accarezza di ruvido muro come di parete in velluto.
E di rosso tiziano, di oro barocco, di specchio offuscato.

In una vecchia poltrona il posacenere cade
e muto d’un tonfo incontra la notte.
E cenere e cicche, e fumo invisibile,
sollevano piano il sogno del giorno.
Lo guarda da cieca e segue il suo corso,
al timido ritmo, dal silenzio invasato.

Nei mondi passati ritorna curiosa,
nelle vite presenti si trascina scomposta.

Invano lo tocca, invano lo tiene.
Fuori e dentro di sé, di vita finita si espande.
E scivola fuori come fiume in letargo.
Di rosso fumante ormai caldo alle dita.
E secca di fango, e macchia di vino.

Di femmina è certo la prima avvisaglia.
Di madre mancata.
Di vita passata.

Si strappa dal cuore anche l’ultimo dono.
L’inutile, del ventottesimo giorno.


Caffè amaro
di Silvia Mineo

Erano i posti affollati degli angusti angoli metropolitani
il luogo in cui, meglio di ogni altro luogo… cercava, non trovava…
il punto di congiunzione con la sua parte buia.

Quello che appariva… era solo quello che sembrava,
quello che lei voleva che sembrasse…
dolci sinuosità che occhi indiscreti maliziosamente carezzavano,
fra le quali pensieri erotici si risvegliavano
per trovare oblio…

Le sue vesti erano un sipario, sul palcoscenico
i suoi seni recitavano la parte,
un perizoma divideva le due metà della luna…
una linea tra il visibile e l’invisibile…

Tutto questo funzionava meglio dei semafori pedonali…
meglio di un pass per le code alla cassa del bar…

La donna sorrideva, ed era tutto così terribilmente prevedibile! Come
un film visto per la decima volta…

Uomini con le pupille in caduta libera, come le dita furtive di chi
ruba la marmellata…
Uomini come bambini,
uomini come marionette, ed era solo lei a muoverne i fili.

Il bianco dei colletti si rifletteva sulle tazze del caffè…
Quasi tutti lo prendevano troppo dolce, ma c’era chi si preparava con
cura all’evento,
mescolondolo accuratamente.
Chi lo beveva tutto di un fiato, e chi lo assaporava lentamente, fino
all’ultima goccia…
Era come tanti modi diversi di fare l’amore… nessuno che lo preferisse
amaro…


La storia dell'uomo-bambino
di Miriam Brondani

Guarda: le vedi?
Parole di fiabe, parole – neve
scendono a terra sul buio piu' nero.
Parole – cristalli di storie e poesie
sui tetti – coperchi, su uomini – gatti.
Piume di vento portate dal cielo:
dal bianco prato del sole - sovrano.
Riesci a vedere i castelli incantati
dipinti a colori da fari intonati?
E pietre d’amore chiamate per nome,
giochi d’incastro, raggianti sorprese,
vele spiegate dal mago – indovino?
Riempi lo zaino di neve – alfabeto,
prendi le piume e fanne cuscino:
ancora una storia per l’uomo - bambino.


Veleno
di Rael

Con uno spiedino
mi trapassasti il cuore,
lo cuocesti a puntino
sul fuoco dell'Amore.

Facesti uno spuntino.
"Croccante! Ha un buon sapore."
Bevemmo un po' di vino
e poi chiamai il dottore.


Luce
di Barbara
Luce che torna a brillare nel vicolo dell'anima dove scorre una fonte di speranze uccise, corda che si tende e poi si torce e poi allenta la sua stretta per ritornare a torcersi e mai spezzarsi. Mare che bagna, complice di salsedine che secca brandelli della mia pelle e ancora deserto di paure, di dubbi... di bugie. Vento di insicurezze e folla di sensazioni e verità e brezza di solidi abbracci. Giorno di desideri e notte di addii. Pane di baci e carezze, fame di solitudini. Lacrime senza sapore, senza sapone.. incapaci di lavare il dolore. Risata che appaga e benessere che appartiene al nostro tempo, grotta sicura, buia e asciutta che nessuno può riconoscere se non il letargo dei nostri corpi. Male che consuma e sorriso che riempie coppe di vuoti. Vita tra le tue braccia e morte lontano da te e nulla più..... forse......


Puzzle
di Silvia Mineo

Straripando,
scivoliamo
nell'immagine perfetta
di un puzzle.


Calma Piatta ( o "Sangue solo")
di Falco

Ho visto calma piatta.
Mare in luglio. A onde dolci.
A morire nelle linee quasi rette d'orizzonte.
E sotto vortice di melma.
Nebbie sporche di profondità.
Spento vulcano eruttava acque buie a spire.
Mare in luglio.
Calava a basso.
Calava a basso. Separato a cielo e sole.
Calava a basso.
Calava a basso. Fino a perdere il suo fondo.
Consumava.
Calma piatta.
Un velo. Solo. Rilucente.
Ancorato al fondo degli abissi.

E pulsa sangue. Sangue solo,
questa sola porzione meccanica di cuore.


IMOLA SBK 2002
di Mario Robusti

Mi addormento fra mille dubbi per la gara. Prima però butto un occhio sugli appennini, sulle nuvole che si addensano minacciose sopra al Santerno. Ho bisogno di sognare…

Sette e mezza, che orario da schifo per alzarsi di domenica. Simonne sta ancora dormendo, con il libro di poesie sommerso dai capelli ramati, con le spalle bianche, nude, seminascoste dalle lenzuola. I suoi occhi castani sognano sotto le palpebre, forse una casa bianca in mezzo ai campi verdi, con la vista sulle dune della spiaggia australiana dov’è nata. Non ho potuto che amarla quando è arrivata sulla pit lane accompagnata da Neil, augurandomi un “in bocca al lupo” che non mi ha fatto arrivare nemmeno alla seconda curva.
Mi alzo e vado a preparare la colazione. Sul piccolo tavolo del motor home appoggio la sua tazza, una rosa e il solito biglietto:” Sto provando, quando vieni a darmi il bacio portafortuna? Ti amo”. La caffettiera la sveglierà fra cinque minuti. Intanto indosso il completo ufficiale, mi faccio la barba e preparo la borsa con il casco, lucidato ieri sera, e la tuta. Appena esco dal bagno la caffettiera inizia a fischiare. Mi bevo una tazza di caffè amaro ed esco, senza vedere i suoi occhi appena aperti che mi augurano buona fortuna. So che sono lì, puntati su di me, aspettando un mio sguardo che non arriva mai quando c’è la gara. Faccio solo in tempo a sentire il suo “in bocca al lupo”, che sembra arrivare dal mondo dei sogni, prima di uscire e venire svegliato dal freddo e dal rombo che proviene dalla strada che costeggia il circuito. Amo la musica e il profumo dei motori, e sentirli alle otto di mattina mi fa impazzire, come il sapore dei gas di scarico, anche se preferisco quello dell'aria pura, che si respira davanti al gruppo.
Le otto: c'è già gente a bordo pista, chissà che freddo avranno preso per arrivare qui Arrivo di fronte ai box, dove trovo I miei meccanici:
"Troy, di buon ora! Sei pronto a battere quella scoreggia di texano? Ti vedo cattivo: Simonne stanotte ha scioperato?" Sempre fine Marco, il gommista, ma evidentemente la mia faccia non promette niente di buono.
"Tu pensa a tua moglie che sta a casa, mentre tu sei qua a lavorare. Voglio vincere, non mi interessa Colin”
“Si, come no! Comunque interessa alla Ducati. Fatti valere.”
Si, mi farò valere, perchè non ci sono alternative. Forse è meglio che mi rilassi un pò prima di iniziare l’ultima gara del campionato.
Inforco la bici e inizio a pedalare giù per il Santerno. Un solo giro di pista. Mi fermo alla tosa a chiacchierare con un commissario sulle condizioni della pista. Vedo già quelli che non si sono lasciati intimidire dalla pioggia e dal freddo. Alcuni si stanno coprendo con uno striscione su cui hanno scritto:” Troy, nel dubbio…tien giù!”. Vorrei andare là, dirgli di non preoccuparsi, che darò il massimo. Forse però, per loro è più gustoso non sapere nulla ed aspettare la gara nella trepidazione assoluta. Intanto si accorgono di me:
"OHOH, quello là era Troy!!!"
"Si, e cosa fa? Sta corrompendo un commissario per mettere una bandiera fra le ruote di Colin?"
"No, scarica dell'olio per farlo scivolare con Haga"
"Ma va, tanto Haga cade da solo, non serve l'olio"
Voglio bene ai tifosi. Questa gente ci ama. Siamo qua per dare vita ai loro sogni, sulle "loro" moto. Siamo qua per far godere migliaia di persone che vedono uomini su mostri derivati dalla serie. Siamo...spettacolo.
Almeno non fanno cori da stadio...come in motogp...non ci devo pensare, devo concentrarmi...devo vincere. Vincere!
La pista è bagnata, e le nuvole non promettono niente di buono. Sarà dura metter giù duecento cavalli con l'acqua. Non so se fidarmi della sensibilità o dell’elettronica. Vorrà dire che, tra un’ora, nella sessione di prova, userò due moto diverse.
Sento ancora gente fuori dalle porte, le loro urla, le loro risa. Si tengono caldo attaccati ai loro sogni ed ai loro biglietti. I rumori delle macchine sono nascosti sotto ai rombi delle moto, che si moltiplicano sotto gli sguardi sicuramente ammirevoli degli appassionati.
Finito il giro di pista ritorno ai box ed aspetto che Mimmo, il mio capomeccanico, abbia finito di settare le centraline delle moto, poi ci scambiamo qualche opinione. Siamo daccordo sul provare due set diversi, e gli lascio iniziare il lavoro sulla moto di riserva. Intanto mi siedo nel mio angolo, cercando con gli occhi qualcosa nel cielo, fra le nuvole, magari qualche idea per capire come colmare quel gap di cavalli che passa tra me e Colin. Ma alla fine chiudo gli occhi…e sono in carena. Snocciolo marce per tutto il rettilineo, in semicurva sinistra. Qualche foglia che cade a bordopista, il segno che anche quest’anno tutto sta finendo. Una stagione in giro per il mondo vivendo emozioni e accumulando adrenalina. Non c’è tempo per altro: stacco in derapata per entrare nella chicane...sono a metà curva ed inizio a dar gas, di più di più... si intraversa il posteriore sul cordolo. Attento, è bagnato! Via, allungo fino alla seconda chicane, uscita cieca, non si vede la corda... solo grigio, azzurro e vento gelido. Aumenta il battito ma la mano si muove al momento giusto, come se sapesse che non c’è pericolo. Una marcia, un'altra, poi via tre ed ingresso, trattenendo il fiato, nel tornantino in discesa...le urla che trapassano il silezio fatto dal rombo dei motori, e si dimenticano in una manciata di secondi. Ora l’istinto mi porta sulla traiettoria giusta, col gas in mano fino all'"uncino", la esse in salita. L'uscita, è da brividi, su una striscia d'asfalto viscido: sfioro ancora il cordolo e sento lei che si scompone...ma non devo mollare, so che sta arrivando un’altra curva. Ancora non si vede il punto di ingresso, e mi sembra di volare sotto le nubi. Mi porto sulla sinistra senza vedere altro che il cielo e gli appennini. Le nuvole si muovono veloci, anche loro in corsa verso una meta lontana, con il sorriso sulle labbra. Anche loro in cerca, forse, di qualche cosa che valga la pena di essere vissuta. Discesa, staccata, curva secca a destra, arrivo al limitatore e poi, ancora, una curva a sinistra...terza,quarta,quinta, con i contraccolpi della moto quando entrano le marce. Lei vuole andare caparbia alla meta, non ne vuole sapere di stare ferma...staccata alla esse in cima alla collina del Santerno, con l'asfalto che se ne va sotto le ruote, che scivola via senza lasciare traccia. L'apice della difficoltà…dentro in piega, a destra, con le saponette che ormai protestano e lasciano passare il calore sulle ginocchia. E giù, ancora, senza paura. Due muri che circondano il mio nastro d'asfalto, seguiti da due ali di folla che cercano di entrarmi nel casco. Una telecamera che mi riprende, proprio di fronte, che cerca di sapere cosa passa per i miei occhi. Poi di colpo compare una curva di 90 gradi a sinistra...una staccata al limite della fisica, in cinquanta metri ti passa di fronte tutta la vita e decidi che in fondo mollare i freni non è la decisione sbagliata. La moto, in uscita, vibra fino allo spasimo, sembra spaccarsi da un momento all'altro. Poi ancora sinistra, ancora gas, discesa leggermente a destra, manca poco. Ultima esse, la mia voglia di vincere decide per me, ribellandosi con rabbia alla natura che spinge la moto fuori, sul muretto. Migliaia di sguardi dagli spalti che sfilano via, sotto ad una bandiera...
Una dolce pressione, calorosa e sfuggente sulle mie labbra, mi sveglia. I suoi occhi castani nei miei, la sua bellezza infreddolita, il suo sorriso che mi sta dicendo…
“Hey amore, svegliati. Stanno arrivando, li senti?”
“Scusa Simonne, mi sono solo appisolato. Non hai freddo?”
“Si, tantissimo. Immagino loro…” La stringo fra le braccia, mentre Troy passa con la sua rossa numero 1.


La pioggia rossa
di Rael
Ero sulla moto quando una prima goccia mi bagnò il naso. Qualcosa non andava: indossavo il casco. Allora frenai, girai la chiavetta e spensi il motore. Slacciai la cinghia dell'elmetto, liberai la testa, alzai lo sguardo e mi stupii del cielo, terso e pulito. Nessuna nuvola, eppure pioveva. Un'altra goccia cadde, sul dorso della mano. La sentii calda, scivolare verso l'indice. Provai paura quando di colpo ricordai... che era l'inverno ed io indossavo i guanti. Allora, veloce, tolsi l'indumento, certo che si trattasse d'una qualche sensazione dovuta, forse, al troppo freddo. Guardai la pelle, vidi una riga rosso scuro. Ancora umida... Leccai... e riconobbi un sapore metallico, agrodolce... inconfondibile, sapete, ma non riuscivo a capire. Non c'era alcuna spiegazione. Nemmeno feci in tempo a controllare che della stessa natura fosse la goccia sul naso che... Altre due caddero, bagnandomi la fronte e addirittura l'alluce del piede destro. E dire che calzavo stivali in gore-tex! Stivali "guaranteed to keep you dry." Abbassai il cavalletto, scesi dalla Suzuki e, ancora non consapevole di ciò che stava accadendo, cercai riparo sotto un balcone. La pioggia iniziava a farsi più intensa, anche altra gente se n'era accorta. Vidi pedoni correre dentro ai negozi, uomini e donne uscire dalle auto (alcuni gridavano) e rifugiarsi nei caffè. E vidi persone che, dalle abitazioni, si affacciavano alle finestre per capire cos'era... quella sostanza che le raggiungeva, persino dentro alle case. Non era servito lasciare la moto... correre qui sotto, mi dicevo. Intanto, senza farci caso, quasi per esorcizzare il terrore che provavo, - come quando, da bambini, si ripete all'infinito la filastrocca che caccia il Babau, il temporale o la scuola – contavo le gocce che, dall'alto, una dopo l'altra toccavano il mio corpo. Ed ogni goccia era una domanda assurda. Come poteva, quello strano acquazzone, trapassare il metallo delle auto, il cemento dei palazzi e perfino il gore-tex? Come mai non bagnava gli alberi, i marciapiedi e le aiuole ma solamente gli uomini? Non la sentivo battere, sempre più forte, sulle grondaie, sui vetri e l'asfalto... ma questo era: la pioggia aumentava. Ammutoliti, occhi sbarrati, ce ne stavamo zitti zitti ad osservare il volto di chi ci stava accanto e si tingeva di rosso. Lucido, untuoso... un rosso appiccicoso che ricopriva tutti, soprattutto me. Un repellente, osceno, sangue di nessuno... che mi colava addosso, maledizione! Sarebbe stato inutile asciugarsi, il liquido impregnava soltanto una cosa. Profumo dolce... familiare... di pane caldo e tiepido miele, sentii nell'aria ad un certo punto. Le spalle al muro, ciascuno chiuso nel proprio inconfessabile imbarazzo, si contemplava tutti la nudità che ci accomuna... e che la pioggia rossa, all'improvviso, rivelava. Potrebbe sul serio trattarsi di sangue ma ancora, a tre giorni dall'inizio, nessuno ha trovato il coraggio di appurarlo. Continua a scendere, sulla nostra pelle, in tutto il mondo, la pioggia rossa. Nessuno ne parla, nemmeno io. Lo scrivo sul diario per non impazzire. E intanto speriamo che finisca. Intanto lavoriamo, come sempre. Guardiamo la tele, come sempre... ed io non so se ridere di questi volti allucinati che non riconosco, sporchi di sangue come sono. Ma noi evitiamo, assolutamente, d'incrociare sguardi che non siano assenti. Proviamo ad illuderci che nulla sia cambiato. Staranno cercando una soluzione. Magari anche alla pioggia ci abitueremo... alla pioggia rossa che rende viscidi... anche se gli scienziati diranno che è sangue e che non esiste legge della fisica che spieghi un fenomeno così aberrante. Magari anche a lei ci abitueremo e, meno sperduti di quanto siamo adesso, in essa sguazzeremo come maiali nel fango. Riprenderemo a fare le nostre cose... le nostre solite, piccole, cose. Grazie a Dio.


COSA GUARDANO I GATTI?
di Enriquez

L’altro sabato notte osai parcheggiare l’auto nel garage sotterraneo. Dico che osai poiché ero leggermente bevuto. Anzi, a dirla tutta ero proprio bevuto. Whisky, soprattutto; ma quell’ultimo martini che avevo buttato giù, per concludere degnamente la serata, si era affezionato al mio stomaco, tanto da non volerne sapere di lasciarsi digerire. Senza contare che lo spicchio di lime, che il buon Roby mi aveva aggiunto in uno scatto di generosità, mi aveva lasciato in bocca un fiato a prova di Vigorsol.
Quindi, portai giù la macchina nel box interrato. Il box era aperto, meglio così. Feci tutte le manovre e notai, con una punta d’orgoglio, di non aver fatto nessun danno. Solo nel chinarmi per chiudere la basculante, lo stomaco suonò l’allarme ma, in qualche maniera, riuscii a tenere tutto al suo posto. Pensai che arrivato a casa mi sarei fatto due litri di bicarbonato.
Sentii riaprirsi il cancello automatico e vidi scendere nel sotterraneo una Ford blu, guidata dal solito ragazzo vestito sempre sportivo con gli occhiali. Mi fece un cenno con la mano; io stavo ancora litigando con lo stomaco, quindi mi limitai ad una veloce occhiata. Comunque mi ripresi e, con passo lento e barcollante, mi affrettai a risalire lo scivolo prima che il cancello si richiudesse, per doverlo poi riaprire un’altra volta per la felicità dei condomini che alle quattro di notte di sicuro stavano dormendo.
M’incamminai verso casa, visto che non abito nel palazzo; lì ci metto solo sotto la macchina. Dove abito non ci sono box per le auto; ovvero ci sarebbero, ma con rate d’affitto sconsideratamente alte per uno studente universitario. E poi non è che stia tanto lontano ed ogni tanto fa bene una bella e sana passeggiata. Anche se ogni tanto equivale a tutti i giorni. Neanche il mio vicino di box, il tipo sportivo, abita lì; sta poco più lontano dal mio quartiere, un po’ più spostato verso la nuova tangenziale, verso la campagna. Intelligentemente usa una bicicletta.
A proposito, il ragazzo si stava dilungando nel box ed il cancello si era nel frattempo richiuso, con un secco suono ferroso. Probabilmente c’era un bel pezzo alla radio; mi pare che al tipo piaccia molto la musica; ha un adesivo dei Led Zeppelin sul lunotto della Ford.
Intanto io avevo già percorso un bel po’ di strada, attraversato lo stradone statele che taglia in due la città e tagliato per il giardinetto di un vecchio complesso di case popolari. Ormai ero nel pieno della piazzetta dietro la mia via, quando sentii un miagolio: un bel gattone bianco, uno dei tanti che abitano le cantine ed i tetti delle vecchie case, mi fissava, seduto, solo come i gatti sanno stare seduti in maniera tanto elegante ed aristocratica. Se ne stava calmo sopra ad un muretto che circonda un tratto del perimetro della piazza. Una macchina scura rombò veloce in mezzo ai nostri sguardi, ma il gatto bianco non la notò neppure, continuando a fissarmi. Ed io a fissare lui.
Quindi staccò finalmente gli occhi da me e si girò, alla sua destra, attratto dal rumore delle forti pedalate di un ciclista; era il ragazzo sportivo che mulinava sulla bici. Stava facendo un pezzo di strada in discesa e prendeva velocità come un Cipollini al traguardo di una tappa. Mountain bike nera, con scritta verde Snake sulla canna, soprabito grigio svolazzante, ma che non si prendeva tra i raggi. Un sorriso soddisfatto dello sforzo e sicuro di sé.
Una Golf bianca sbucò dalla via che da sinistra entra nella piazza, quella che poi gira a destra e porta a casa mia. Tagliò netta verso l’interno della piazza, diretta ad uno spazio vuoto nel piccolo parcheggio. Per un attimo i fari illuminarono le mie ginocchia, poi qualcosa si frappose tra me e loro. Sentii, tra i fischi inutili delle gomme, il gatto bianco miagolare secco; percepii il sospiro nel moto di sorpresa del ciclista, il ragazzo sportivo che andava dritto verso il muso della Golf. I fari si spensero quando il pedale ed il piede del ragazzo penetrarono nella mascherina e rimasero cocciutamente lì, mentre il resto del tipo sportivo veniva violentemente spinto e fatto rotolare nel mezzo della piazza. Tanto vicino a me, che gli occhiali del tipo mi caddero tra i piedi, ancora incredibilmente intatti. Un ottimo paio di lenti.
Il ragazzo finì di rotolare sbattendo contro un’altra macchina in sosta, macchiando di sangue la carrozzeria perfettamente grigia e metallizzata dell’auto, mentre la sua testa ci si poggiava in una posizione non troppo naturale.
La Golf si girò per metà in mezzo alla piazza, con i fari spenti ed il muso distrutto che imprigionava un pedale ed un piede. Il guidatore scese; biondo e perplesso continuava a far passare gli occhi tra il ragazzo a terra, la sua macchina e me, che non riuscivo a staccare gli occhi dalle lenti del ragazzo, sporche di sangue ai miei piedi. E mi chiedevo: perché non mi sto mettendo a vomitare? Invece il senso di rigurgito che avevo fino a due minuti prima si era volatilizzato. Alzai lo sguardo da terra quando udii il biondino che chiamava i soccorsi con il cellulare.
Mi girai, senza sapere perché, verso il muretto di fronte alla scena. E lì, ancora seduto, senza essersi scomposto di un millimetro, stava il gattone bianco. Teneva lo sguardo fisso sulla scena che, mi dicevo, era finita. Basta, non c’era più niente da guardare! Ma lui continuava a fissare il punto esatto dove si erano scontrati il ragazzo sportivo e la Golf bianca come il suo pelo.
Mi scoprii a chiedermi: ma cosa guarda? Cosa diavolo sta guardando? Quale diavolo sta fissando, come se fosse vero ciò che si dice, che i gatti sono in grado di vedere le tremolanti onde del destino, le sue infinite sfumature di colore.
Magari, mi dissi mentre una vecchia si era messa ad urlare da una finestra, che lui stava semplicemente assistendo ad un altro spettacolo, un’altra scena. Un altro spazio ed un altro tempo per i quali una Golf bianca non sarebbe passata di lì ed il ragazzo sportivo sarebbe arrivato a casa, canticchiando “Thank you” degli Zeppelin e pensando al suo vicino di box e ad un gatto bianco, che lo guardavano pedalare giù per la piazza.