Lo
sento ancora dentro quel boato
di Federica "Pikkina" Fortuni
Lo
sento ancora dentro quel boato. Sono passati già due giorni,
quarantotto ore precise tra dieci minuti, alle dieci e quaranta.
È incredibile che nello strazio, nella tragedia, nella
distruzione, la cosa che ancora più mi terrorizza, che
mi fa accapponare la pelle, sia il ricordo di quell’esplosione
infernale, quel fuoco improvviso, l’aria fatta impazzire
che mi investe come un treno.
Un attimo prima inseguivo quel maledetto camion e tutto ciò
che è avvenuto fino a quel momento è un ricordo
ben stampato nella mia mente, con una sua logica, emozioni a cui
riesco a dare un nome, immagini che sono riuscito a fissare nella
memoria con una didascalia sotto a spiegarmele bene. Poi quello
scoppio micidiale, l’atmosfera rovente da fine del mondo,
polvere ovunque, il buio… o forse ho solo chiuso gli occhi.
E da lì tutto prosegue senza senso. Sarà che non
me lo aspettavo… in realtà ce lo aspettavamo tutti,
si sa come funziona da queste parti, ma uno se lo aspetta quasi
per scaramanzia, prefiguri che arrivi il peggio perché
pensi di esorcizzarlo, di farlo scappare. Come se “il peggio”
dicesse “che cavolo ci vado a fare lì che tanto quelli
mi aspettano, neanche fossi una festa comandata?”. Ce lo
dicevamo sempre, “pensa se…”, eppure non sembrava
mai possibile che fosse quello il momento. Non lo sembrava nemmeno
l’altro ieri mattina, poco dopo il cambio, mentre stavo
lì col mitra in mano ed ho visto arrivare quel camion seguito
da una macchina uguale a tutte le macchine dei poveracci di quaggiù.
Figurati se non sappiamo, se ce lo chiedono mentre giochiamo a
carte, mentre beviamo una birra o ci facciamo una doccia, cosa
sta per succedere quando, in questa terra di morte , un camion
ed una macchina arrivano verso di te a tutta velocità!
Neanche serve che ti ci addestrino, basta aver visto un qualsiasi
telegiornale e neanche tanto recente. Ma quando arriva il momento
non lo sai più, non hai la forza di saperlo, mentre il
terrore inventa ipotesi fulminee e ingenue che la lucidità,
amica crudele, inghiotte senza darti spiegazioni provocandoti
quella fitta allo stomaco che ti fa piegare in due e allora speri
di svegliarti, alla fine speri quasi di morire prima, ma prima
di cosa?
Eppure
sembrava ci volessero bene a Nassirya. Oddio, volerci bene forse
no, e comunque non saprei dirlo perché non li so leggere
bene i cuori degli stranieri. Non riconosco le espressioni, non
so se mi guardano negli occhi per rubarmi l’anima o per
capirla. Occhi diversi, bocche diverse, lingue diverse. Ci vuole
tempo per comprendere. A casa uno che mi vuole fregare lo becco
dopo due minuti. Due sorrisetti accattivanti, qualche sguardo
d’intesa, una pacca su una spalla, un paio di “bello”
e altrettanti “caro” ed il presunto volpino si è
già presentato ben oltre il nome e cognome. Parlo cinque
minuti con uno e l’ho già assegnato ad una categoria
catalogata e ben nota al mio istinto empatico. Gli stranieri invece
sono tutti insieme ammassati in una grande categoria con l’etichetta
“non meglio identificato”. Dicono sia perché
non parlo le lingue. Ma io non parlo nemmeno napoletano, eppure
un napoletano lo so inquadrare. È una questione di gesti,
di fisionomia. Di abitudini.
Comunque dicevo, sembrava che non ci volessero male. Abbiamo lavorato
per settimane vicino alle loro case. Stavano ritti in piedi, sulle
soglie delle casette di cartone da presepe, e ci guardavano attenti,
come in attesa di giudicare, con quegli occhi neri e grandi da
arabi. Si guardavano interrogandosi l’un l’altro mentre
ci vedevano scavare, alzare tralicci, passare fili, montare tubi
di metallo ed interrarli. Quando abbiamo ripristinato l’elettricità
e ridato l’acqua potabile avevano finalmente sorriso, sotto
i nasi un po’ lunghi, e sembravano davvero riconoscenti.
Le donne con i loro visi scarni, scoperti quel tanto che basta
per vederli invecchiati dalla terra sottile e dal sole inclemente,
mandavano avanti i marmocchietti a piedi scalzi, con le pistole
giocattolo sulla cintura mezzo scollata, per ringraziarci, “sciucra”
dicevano, o qualcosa del genere, ed offrirci dei dolci.
“Italiani,
brava gente” ripetevano, come uno slogan, come se glielo
avessero appena insegnato e si esercitassero a ripeterlo. All’inizio
un’immagine stupida, senza volerlo, mi veniva alla mente:
mi figuravo un uomo, magro e dinoccolato, con le ginocchia un
po’ storte, un viso duro, l’espressione cinica, armato
di mitra che aiutava a ripetere “Italiani, brava gente”
ad un gruppo di donne ubbidienti e bimbetti distratti. Più
o meno la stessa immagine, ma senza mitra in quel caso, che mi
balena quando vedo quei presunti bosniaci salire sulla metro di
Roma, tutti con gli stessi identici cartelli fatti col cartone
marroncino di qualche scatolone, con gli stessi errori ( ho fame
con due piccolo bambini) e quella stessa voce querula, lagnosa,
le stesse parole dai suoni allungati. E mi dico: poveretti, sfruttati
e privati ancora una volta della loro dignità dai più
furbi tra loro!
Eppure, dopo tanti giorni, su alcuni volti, tra le pieghe della
diffidenza, sono quasi sicuro di aver colto gratitudine.
Poi una mattina ci cade addosso l’inferno. E non ricordo
nulla delle due ore successive. Io quella deflagrazione l’ho
sentita dentro di me, mi sono sentito andare in pezzi, la carne
che si tendeva fino a lacerarsi, perdevo foglie come un albero
ad una folata di vento. Ho vagato incosciente per un tempo ed
in uno spazio indefiniti, credendomi un fantasma, cercando di
raccogliere le parti di me che riuscivo a raggiungere.
Ho riaperto gli occhi su un’ambulanza due ore più
tardi, avevo solo un braccio rotto ed avevo battuto la testa nel
volo provocato dalla bomba. Ho provato a ricordare, ho risentito
il tuono, sono svenuto. Due volte, forse tre.
Poi il mio cervello ha deciso di risvegliarsi.
La
prima cosa che ho visto, appena uscito dall’ambulanza è
stata, cinquanta metri davanti a da me, una voragine gigantesca,
proprio nel piazzale dell’entrata della palazzina dalle
finestre sventrate. Intorno c’era tanta gente che correva,
ma non ero in grado di distinguerne i volti, mi arrivava, attutito
dalla nebbia che ancora avevo nella mente, il rumore degli stivali
sullo sterrato e grida disordinate. Erano quasi tutti raccolti
attorno all’area di quello che ora chiamiamo “il nuovo
ground zero”. Ci sono morti, ho pensato, qualcuno è
morto, e intanto mi sforzavo di inghiottire quel boato che mi
cresceva dentro e mi tagliava ancora le gambe. Poi ho visto un
uomo correre verso di me ed istintivamente sono arretrato. Mi
sono sforzato di guardarlo ed ho riconosciuto Paolo il mio vicino
di letto, quello di Savona. Allora lui non è morto, ho
pensato.
“Guarda che cazzo ci hanno fatto questi porci, guarda che
massacro” gridava, ed io con le mani sulle orecchie “parla
piano Paolo, parla piano che ti sento”. E quello ancora
più forte “due Kamikaze, Giulio, altri due stronzi
che per scoparsi le vergini in paradiso ci ammazzano come cani.
Guarda che hanno fatto, domani li ammazziamo tutti” e piangeva
con rabbia rovesciandomi in faccia senza argini la paura ed il
dolore, e forse la gioia e la colpa di esserci ancora. “Ne
hanno tirati fuori dieci, morti, morti capito?” piangeva
a dirotto. “Non so chi sono, non lo voglio sapere adesso.
Ce ne sono altri sotto quell’inferno, forse qualcuno sta
morendo proprio ora. Forza andiamo a tirarli fuori! Poi domani
li ammazziamo tutti questi maiali!”
Riesce
a scuotermi, non so in che condizioni sono, presumo di avere tutti
i pezzi in ordine, ma non so neanche più se sono capace
di salvare qualcuno. Mi fermo sull’orlo della voragine.
Muovo piano un piede, ho paura di risentire il rombo assordante
delle porte dell’inferno che si aprono. Poi mi scuoto, mi
unisco agli altri, si scava e si cerca, nove dispersi sento dire,
gli altri ci sono tutti. Guardo l’orologio, è mezzogiorno
e tre quarti, tra quindici sarebbe suonata la campana della mensa,
ci saremmo accalcati, affamati, davanti al bancone e poi avremmo
commentato l’ennesima sbobba… le lacrime mi offuscano
gli occhi, da lì precipitano pesanti sulla terra bruciata,
sconvolta, e scavano rughe di disperazione per quelli che quella
campana non la sentiranno più, ma anche e soprattutto perché
tutto è cambiato, perché non ci sarà più
goliardia, spirito, solidarietà, ma solo rabbia, vendetta.
E paura.
Abbiamo estratto
diciannove corpi da quel buco nero che ha inghiottito le speranze,
la normalità, uno dei tanti buchi neri scavati nel mondo
dalla ferocia.
Diciannove volontari per “Antica Babilonia”. Diciannove
ragazzi come me. Diciannove sogni diversi frantumati in un istante.
Diciannove anime in cerca di un paradiso che forse non riescono
più a trovare. Diciannove famiglie distrutte. Diciannove
salme ricomposte in diciannove feretri coperti dalla bandiera
tricolore che saliranno su un aereo, l’ultimo, per tornare
a casa. Diciannove letti vuoti a ricordare che sono stati davvero
con noi, a ricordarci che l’incubo è reale. Diciannove
piccole croci, simbolo di un Dio cui qualcuno ha smesso di credere.
Stamattina
ascoltavo gli altri parlare. Cercavano una colpa. Diciannove di
noi non ci sono più, la nostra palazzina (mi era anche
capitato, in passato, di chiamarla per errore “casa”)
ed il nostro cortile sono stati orribilmente violentati, di qualcuno
la colpa dovrà pur essere!
Paolo voleva ammazzarli tutti l’altra mattina, i maiali
iracheni. Adesso non sa più chi vuole ammazzare. Dice che
ha visto piangere alcuni degli abitanti delle casette di cartone.
Che forse sono rimasti sconvolti anche loro, che magari non ne
sapevano niente. Però adesso quando ci si avvicinano i
bambini li cacciamo via, intimiamo loro di fare silenzio. Ci fanno
paura.
Non ammazzeremo nessuno, questo è chiaro. Alle volte viene
da pensare che sarebbe più comodo far sparire nel nulla
questo pezzo di mondo malato di un male incurabile che si chiama
indifferentemente violenza, morte, debolezza, paura.
Eppure sappiamo che in questa terra devastata c’è
solo bisogno di aiuto.
Si parlava di Al Queda. Di quell’esaltato carnefice con
la barba da capretta di montagna che vuole terrorizzare l’occidente
popolato di “cani infedeli”. C’era anche chi
confondeva il ricco ed annoiato sterminatore Osama con il feroce
dittatore sanguinario Saddam. Non me la sento di definirlo un
errore.
Ma perché noi, ci chiediamo? Per dare un segnale? Chi aiuta
gli iracheni a liberarsi di Saddam verrà barbaramente ucciso?
Ma in nome di chi ci uccidono?
Non in nome di questo popolo. Questo mi sento di dirlo. Questo
popolo forse non sa ancora cosa vuole, forse non si fida degli
americani e di “iraqui freedom” (e chi si fida degli
americani?), forse guarda con sospetto anche noi in missione di
pace. Ma non ucciderebbe ne noi, ne gli Americani. Perché
tornare indietro è l’unica cosa che sono sicuri di
non volere.
Allora la colpa è del telegenico (presenzialista?) Bin
Laden? O del granitico Hussein? (o di entrambi?)
“Lo sai di chi è la colpa?” la voce grassa
di Antonio si alza dal confuso parlottio. “dell’ipocrisia
che hanno di dirci che siamo venuti in missione di pace. Dell’idiozia
che abbiamo noi di crederci. Io non lo so voi, ma quando ho deciso
di indossare la divisa mica pensavo che sarei andato a portare
cibo agli affamati, o luce ed acqua agli iracheni. Certo è
una bella cosa, ma quando scegli di fare questo lavoro, di essere
un militare, te lo stai già dicendo che esiste la guerra,
la violenza, che c’è bisogno di difendersi. Ci hanno
dato queste cazzo di mitragliatrici mica per farci più
fighi! Ce le hanno date per sparare a chi ci vuole ammazzare.
O sbaglio? Però poi ci diciamo che siamo in missione di
pace, che dobbiamo solo aiutare gli iracheni e tornare a casa.
Gli americani hanno costruito muri alti due metri intorno alle
loro postazioni, noi contemplavamo il fiume! Magari quei due kamikaze
del cazzo ci sono pure venuti a trovare qualche volta, insieme
ai nostri ‘amici’ di Nassirya e ci hanno pure ringraziati
‘italiani brava gente’, mentre si studiavano come
farci saltare. Questo posto era un bersaglio fin troppo facile.
Mi sa che le vergini ai nostri kamikaze gliele fanno solo odorare!”
Ha ragione Antonio. Quelle due strade, una che costeggia l’Eufrate,
l’altra che lo attraversa con un ponte, non avevano altra
difesa che un misero pattugliamento. Ma, pensavamo, non siamo
mica a Baghdad o a Falluja. Neanche il ponte avevamo sbarrato,
neanche dopo che ci avevano avvertititi di stare attenti, che
ci avevano presi di mira. Quando ho visto arrivare quel camion
contro di me a tutta velocità la prima cosa che ho provato,
prima ancora del terrore e della voglia di ammazzare, è
stata la certezza che quello che avevo davanti agli occhi, quelle
strade inermi, quei pochi uomini armati erano quanto di più
assurdo avrei dovuto vedere. Ed ho realizzato, in quella frazione
di secondo, di averlo sempre saputo e di aver sempre avuto paura.
Allora forse è vero che è stata colpa dell’ipocrisia,
di chi ci ha guidati in “Antica Babilonia” e di noi
stessi che abbiamo accettato di dimenticare dove siamo: in Iraq
ed in guerra.
Si
commentano le polemiche che ci arrivano dai giornali italiani
e dalle nostre madri. Sappiamo che molti ritengono che “questa
è una guerra degli americani, loro l’hanno voluta,
loro se la devono combattere!”. Stanno proponendo di ritirare
il contingente, di farci tornare a casa, perché “i
nostri uomini non possono morire per colpa delle mire degli statunitensi
al controllo della zona del petrolio” perché gli
Americani bugiardi avevano parlato di una guerra lampo, e parlano
ora di una guerra finita che invece fa ancora vittime innocenti.
Io non amo gli Americani. Li ammiro, per il loro enorme senso
pratico, per la loro capacità di sopperire alla mancanza
di un passato remoto con la continua ricerca di un futuro anteriore
che poi esportano nel resto del mondo al prezzo della supremazia.
Io non amo gli Americani, ma qui ci sono venuto volontario e con
me altre centinaia di italiani. Credevo allora e credo ancora
adesso che questa guerra sia giusta. Insomma, giusta come può
esserlo una guerra: aberrante, ma inevitabile, un’ovvia
barbara conseguenza del desiderio di potere dell’uomo.
Credo che, se con il loro ipocrita fine di liberazione, sebbene
spinti dai loro interessi economici, sicuramente animati dalla
certezza di essere stati bombardati per primi quell’undici
di settembre, riusciranno a ridare a queste persone una civiltà,
se riusciranno, col tempo, a togliere la polvere del terrore dagli
occhi dei sudditi di un re sterminatore, io sono dalla loro parte.
Non potrò mai esserne sicuro. Ma ho fatto una scelta. E
invidio chi non riuscirà a condividerla.
Sono venuto in missione di pace. Se me lo avessero chiesto sarei
venuto in missione di guerra. Dalla parte degli Americani, dalla
parte degli Iracheni, contro Saddam ed i suoi seguaci, contro
Osama e la sua macchina della morte che lavora ancora a pieno
regime.
Qualcuno addita
il Corano, qualcuno il petrolio, altri, più in generale,
il denaro, .
Sono solo cose. Le cose non uccidono.
Le persone uccidono.
C’è
un gatto che gironzola tra i tavoli. Un gatto (arabo), con il
pelo opaco, il mio veterinario dice che succede quando mangiano
male. Lui non sarebbe diffidente, almeno non di più di
quanto sia nella sua natura, se incontrasse sulla sua strada il
mio persiano (italiano) Arturo. Ricordo una frase di un film,
sulla quale mi sono soffermato spesso incredulo: “Lo sai?
L’uomo è l’unico animale che uccide i suoi
simili”. Non solo, aggiungo. L’uomo è l’unico
animale che non uccide per necessità.
Cerchiamo
una colpa? Iraqui Freedom, Nuova Babilonia, l’undici settembre,
Osama Hussein, Saddam Bin Laden, gli Stati Uniti d’America,
i dollari, l’oro nero, il Corano… io assolvo tutto.
Io accuso l’uomo.
Accuso la
sua superbia, la sua inattaccabile convinzione di essere un animale
superiore solo perché dotato di maggiore intelligenza,
senza rendersi conto di aver creato lui sia il termine che la
definizione di intelligenza, ottuso dittatore del mondo che decide
come più gli fa comodo quali siano i parametri per potersi
eleggere re. Accuso la sua pretesa di supremazia sul mondo. La
presunzione di credere di saper giudicare il bene ed il male ed
anche qualora ne fosse capace, l’arroganza di credere di
avere il diritto di punire il male e premiare il bene.
Accuso la sua incapacità di capire quanto ogni sua normale
aspirazione di miglioramento sia degenerata in giochi astratti
di manipolazione della realtà, la deficienza nel capire
che sono appunto solo giochi, l’impegno che profonde nel
costruire imponenti quanto inutili sovrastrutture che, per loro
stessa intrinseca funzione, lo sovrastano e lo dominano.
Accuso lo stravolgimento che ha operato nei millenni sul suo sano
istinto animale, l’incapacità acquisita di capire
i suoi simili senza l’uso esaltato del linguaggio verbale.
La fabbrica di etichette nella torre di Babele, le diversità
identificate, ognuna associata ad un diverso timore, paura o terrore.
Accuso l’uomo ferito che si vendica pur sapendo che la vendetta
non ha alcuna logica, solo per poter placare la sua rabbia atavica
.
Accuso l’uomo che da sempre cerca, nella guerra, negli ordini
di un altro uomo, nella sofferenza, nell’incapacità
di sentirsi felice, una buona motivazione per sterminare, uccidere,
distruggere, perfino se stesso
Accuso l’uomo che nel mondo senza limiti o freni della pazzia
fa fluire violenza e dimentica l’amore.
Io
sono un uomo. Accetto, oggi come mai, di convivere per il resto
della mia vita con la colpa indelebile che condivido con miliardi
di altri esseri umani cercando di relegarla in una soffitta dell’anima,
di riconciliarmi, per necessità, con la responsabilità
di aver creato, sopra il naturale istinto dell’animale,
una struttura intricata e sofisticata che mentre ci eleva ai nostri
occhi, ci allontana da noi stessi.
Se potessi
ancora crederci, presenterei il conto a Dio. Mi arrabbierei con
lui, lo sfiderei a trovarmi una spiegazione per tanto dolore.
Gli chiederei dove sta scritto che per averci dato l’amore
debba darci anche l’odio, che al bene debba essere contrapposto
il male. Lo insulterei per averci creati e poi essersi divertito
a fare esperimenti su di noi.
Darei a lui la colpa di tutto.
E poi andrei a vivere nella cuccia del mio gatto, mangiando dalla
sua ciotola, bevendo con la lingua, camminando a quattro zampe,
senza mai più emettere un solo suono umano, amando i miei
simili (e non) al modo dei gatti, facendo le fusa, andando in
amore, combattendo per sopravvivere, fuggendo da chi non posso
combattere. E così sfiderei Nostro Signore a dimostrarmi
cosa c’ho perso.
Ma adesso,
quarantotto ore dopo che quella massa di tritolo mi ha divelto
l’anima, con la morte chiusa in diciannove casse e riflessa
negli occhi dei compagni che ho attorno, lontano anni luce dal
ricordare l’amore che pure devo aver visto, adesso a questo
Dio che non riesco a trovare, forse perché qui ha un altro
nome, provo a chiedere solo, umilmente, il perdono.