1) Mi buttano su un letto di paglia in due
2) Di sicuro si amavano
3) E per sempre chiederai scusa
4) La tela
5) Analisi in tempo reale
6) Lo sento ancora dentro quel boato
7) Quella sola notte del colonnello Tibbets
8) Senso di colpa
9) Uomini sul divano
10) Colpevole di libertà
 
 

 

 

 

"La colpa"

Lo sento ancora dentro quel boato
di Federica "Pikkina" Fortuni

Lo sento ancora dentro quel boato. Sono passati già due giorni, quarantotto ore precise tra dieci minuti, alle dieci e quaranta. È incredibile che nello strazio, nella tragedia, nella distruzione, la cosa che ancora più mi terrorizza, che mi fa accapponare la pelle, sia il ricordo di quell’esplosione infernale, quel fuoco improvviso, l’aria fatta impazzire che mi investe come un treno.
Un attimo prima inseguivo quel maledetto camion e tutto ciò che è avvenuto fino a quel momento è un ricordo ben stampato nella mia mente, con una sua logica, emozioni a cui riesco a dare un nome, immagini che sono riuscito a fissare nella memoria con una didascalia sotto a spiegarmele bene. Poi quello scoppio micidiale, l’atmosfera rovente da fine del mondo, polvere ovunque, il buio… o forse ho solo chiuso gli occhi. E da lì tutto prosegue senza senso. Sarà che non me lo aspettavo… in realtà ce lo aspettavamo tutti, si sa come funziona da queste parti, ma uno se lo aspetta quasi per scaramanzia, prefiguri che arrivi il peggio perché pensi di esorcizzarlo, di farlo scappare. Come se “il peggio” dicesse “che cavolo ci vado a fare lì che tanto quelli mi aspettano, neanche fossi una festa comandata?”. Ce lo dicevamo sempre, “pensa se…”, eppure non sembrava mai possibile che fosse quello il momento. Non lo sembrava nemmeno l’altro ieri mattina, poco dopo il cambio, mentre stavo lì col mitra in mano ed ho visto arrivare quel camion seguito da una macchina uguale a tutte le macchine dei poveracci di quaggiù. Figurati se non sappiamo, se ce lo chiedono mentre giochiamo a carte, mentre beviamo una birra o ci facciamo una doccia, cosa sta per succedere quando, in questa terra di morte , un camion ed una macchina arrivano verso di te a tutta velocità! Neanche serve che ti ci addestrino, basta aver visto un qualsiasi telegiornale e neanche tanto recente. Ma quando arriva il momento non lo sai più, non hai la forza di saperlo, mentre il terrore inventa ipotesi fulminee e ingenue che la lucidità, amica crudele, inghiotte senza darti spiegazioni provocandoti quella fitta allo stomaco che ti fa piegare in due e allora speri di svegliarti, alla fine speri quasi di morire prima, ma prima di cosa?

Eppure sembrava ci volessero bene a Nassirya. Oddio, volerci bene forse no, e comunque non saprei dirlo perché non li so leggere bene i cuori degli stranieri. Non riconosco le espressioni, non so se mi guardano negli occhi per rubarmi l’anima o per capirla. Occhi diversi, bocche diverse, lingue diverse. Ci vuole tempo per comprendere. A casa uno che mi vuole fregare lo becco dopo due minuti. Due sorrisetti accattivanti, qualche sguardo d’intesa, una pacca su una spalla, un paio di “bello” e altrettanti “caro” ed il presunto volpino si è già presentato ben oltre il nome e cognome. Parlo cinque minuti con uno e l’ho già assegnato ad una categoria catalogata e ben nota al mio istinto empatico. Gli stranieri invece sono tutti insieme ammassati in una grande categoria con l’etichetta “non meglio identificato”. Dicono sia perché non parlo le lingue. Ma io non parlo nemmeno napoletano, eppure un napoletano lo so inquadrare. È una questione di gesti, di fisionomia. Di abitudini.
Comunque dicevo, sembrava che non ci volessero male. Abbiamo lavorato per settimane vicino alle loro case. Stavano ritti in piedi, sulle soglie delle casette di cartone da presepe, e ci guardavano attenti, come in attesa di giudicare, con quegli occhi neri e grandi da arabi. Si guardavano interrogandosi l’un l’altro mentre ci vedevano scavare, alzare tralicci, passare fili, montare tubi di metallo ed interrarli. Quando abbiamo ripristinato l’elettricità e ridato l’acqua potabile avevano finalmente sorriso, sotto i nasi un po’ lunghi, e sembravano davvero riconoscenti. Le donne con i loro visi scarni, scoperti quel tanto che basta per vederli invecchiati dalla terra sottile e dal sole inclemente, mandavano avanti i marmocchietti a piedi scalzi, con le pistole giocattolo sulla cintura mezzo scollata, per ringraziarci, “sciucra” dicevano, o qualcosa del genere, ed offrirci dei dolci.
“Italiani, brava gente” ripetevano, come uno slogan, come se glielo avessero appena insegnato e si esercitassero a ripeterlo. All’inizio un’immagine stupida, senza volerlo, mi veniva alla mente: mi figuravo un uomo, magro e dinoccolato, con le ginocchia un po’ storte, un viso duro, l’espressione cinica, armato di mitra che aiutava a ripetere “Italiani, brava gente” ad un gruppo di donne ubbidienti e bimbetti distratti. Più o meno la stessa immagine, ma senza mitra in quel caso, che mi balena quando vedo quei presunti bosniaci salire sulla metro di Roma, tutti con gli stessi identici cartelli fatti col cartone marroncino di qualche scatolone, con gli stessi errori ( ho fame con due piccolo bambini) e quella stessa voce querula, lagnosa, le stesse parole dai suoni allungati. E mi dico: poveretti, sfruttati e privati ancora una volta della loro dignità dai più furbi tra loro!
Eppure, dopo tanti giorni, su alcuni volti, tra le pieghe della diffidenza, sono quasi sicuro di aver colto gratitudine.
Poi una mattina ci cade addosso l’inferno. E non ricordo nulla delle due ore successive. Io quella deflagrazione l’ho sentita dentro di me, mi sono sentito andare in pezzi, la carne che si tendeva fino a lacerarsi, perdevo foglie come un albero ad una folata di vento. Ho vagato incosciente per un tempo ed in uno spazio indefiniti, credendomi un fantasma, cercando di raccogliere le parti di me che riuscivo a raggiungere.
Ho riaperto gli occhi su un’ambulanza due ore più tardi, avevo solo un braccio rotto ed avevo battuto la testa nel volo provocato dalla bomba. Ho provato a ricordare, ho risentito il tuono, sono svenuto. Due volte, forse tre.
Poi il mio cervello ha deciso di risvegliarsi.

La prima cosa che ho visto, appena uscito dall’ambulanza è stata, cinquanta metri davanti a da me, una voragine gigantesca, proprio nel piazzale dell’entrata della palazzina dalle finestre sventrate. Intorno c’era tanta gente che correva, ma non ero in grado di distinguerne i volti, mi arrivava, attutito dalla nebbia che ancora avevo nella mente, il rumore degli stivali sullo sterrato e grida disordinate. Erano quasi tutti raccolti attorno all’area di quello che ora chiamiamo “il nuovo ground zero”. Ci sono morti, ho pensato, qualcuno è morto, e intanto mi sforzavo di inghiottire quel boato che mi cresceva dentro e mi tagliava ancora le gambe. Poi ho visto un uomo correre verso di me ed istintivamente sono arretrato. Mi sono sforzato di guardarlo ed ho riconosciuto Paolo il mio vicino di letto, quello di Savona. Allora lui non è morto, ho pensato.
“Guarda che cazzo ci hanno fatto questi porci, guarda che massacro” gridava, ed io con le mani sulle orecchie “parla piano Paolo, parla piano che ti sento”. E quello ancora più forte “due Kamikaze, Giulio, altri due stronzi che per scoparsi le vergini in paradiso ci ammazzano come cani. Guarda che hanno fatto, domani li ammazziamo tutti” e piangeva con rabbia rovesciandomi in faccia senza argini la paura ed il dolore, e forse la gioia e la colpa di esserci ancora. “Ne hanno tirati fuori dieci, morti, morti capito?” piangeva a dirotto. “Non so chi sono, non lo voglio sapere adesso. Ce ne sono altri sotto quell’inferno, forse qualcuno sta morendo proprio ora. Forza andiamo a tirarli fuori! Poi domani li ammazziamo tutti questi maiali!”
Riesce a scuotermi, non so in che condizioni sono, presumo di avere tutti i pezzi in ordine, ma non so neanche più se sono capace di salvare qualcuno. Mi fermo sull’orlo della voragine. Muovo piano un piede, ho paura di risentire il rombo assordante delle porte dell’inferno che si aprono. Poi mi scuoto, mi unisco agli altri, si scava e si cerca, nove dispersi sento dire, gli altri ci sono tutti. Guardo l’orologio, è mezzogiorno e tre quarti, tra quindici sarebbe suonata la campana della mensa, ci saremmo accalcati, affamati, davanti al bancone e poi avremmo commentato l’ennesima sbobba… le lacrime mi offuscano gli occhi, da lì precipitano pesanti sulla terra bruciata, sconvolta, e scavano rughe di disperazione per quelli che quella campana non la sentiranno più, ma anche e soprattutto perché tutto è cambiato, perché non ci sarà più goliardia, spirito, solidarietà, ma solo rabbia, vendetta. E paura.

Abbiamo estratto diciannove corpi da quel buco nero che ha inghiottito le speranze, la normalità, uno dei tanti buchi neri scavati nel mondo dalla ferocia.
Diciannove volontari per “Antica Babilonia”. Diciannove ragazzi come me. Diciannove sogni diversi frantumati in un istante. Diciannove anime in cerca di un paradiso che forse non riescono più a trovare. Diciannove famiglie distrutte. Diciannove salme ricomposte in diciannove feretri coperti dalla bandiera tricolore che saliranno su un aereo, l’ultimo, per tornare a casa. Diciannove letti vuoti a ricordare che sono stati davvero con noi, a ricordarci che l’incubo è reale. Diciannove piccole croci, simbolo di un Dio cui qualcuno ha smesso di credere.

Stamattina ascoltavo gli altri parlare. Cercavano una colpa. Diciannove di noi non ci sono più, la nostra palazzina (mi era anche capitato, in passato, di chiamarla per errore “casa”) ed il nostro cortile sono stati orribilmente violentati, di qualcuno la colpa dovrà pur essere!
Paolo voleva ammazzarli tutti l’altra mattina, i maiali iracheni. Adesso non sa più chi vuole ammazzare. Dice che ha visto piangere alcuni degli abitanti delle casette di cartone. Che forse sono rimasti sconvolti anche loro, che magari non ne sapevano niente. Però adesso quando ci si avvicinano i bambini li cacciamo via, intimiamo loro di fare silenzio. Ci fanno paura.
Non ammazzeremo nessuno, questo è chiaro. Alle volte viene da pensare che sarebbe più comodo far sparire nel nulla questo pezzo di mondo malato di un male incurabile che si chiama indifferentemente violenza, morte, debolezza, paura.
Eppure sappiamo che in questa terra devastata c’è solo bisogno di aiuto.
Si parlava di Al Queda. Di quell’esaltato carnefice con la barba da capretta di montagna che vuole terrorizzare l’occidente popolato di “cani infedeli”. C’era anche chi confondeva il ricco ed annoiato sterminatore Osama con il feroce dittatore sanguinario Saddam. Non me la sento di definirlo un errore.
Ma perché noi, ci chiediamo? Per dare un segnale? Chi aiuta gli iracheni a liberarsi di Saddam verrà barbaramente ucciso? Ma in nome di chi ci uccidono?
Non in nome di questo popolo. Questo mi sento di dirlo. Questo popolo forse non sa ancora cosa vuole, forse non si fida degli americani e di “iraqui freedom” (e chi si fida degli americani?), forse guarda con sospetto anche noi in missione di pace. Ma non ucciderebbe ne noi, ne gli Americani. Perché tornare indietro è l’unica cosa che sono sicuri di non volere.
Allora la colpa è del telegenico (presenzialista?) Bin Laden? O del granitico Hussein? (o di entrambi?)
“Lo sai di chi è la colpa?” la voce grassa di Antonio si alza dal confuso parlottio. “dell’ipocrisia che hanno di dirci che siamo venuti in missione di pace. Dell’idiozia che abbiamo noi di crederci. Io non lo so voi, ma quando ho deciso di indossare la divisa mica pensavo che sarei andato a portare cibo agli affamati, o luce ed acqua agli iracheni. Certo è una bella cosa, ma quando scegli di fare questo lavoro, di essere un militare, te lo stai già dicendo che esiste la guerra, la violenza, che c’è bisogno di difendersi. Ci hanno dato queste cazzo di mitragliatrici mica per farci più fighi! Ce le hanno date per sparare a chi ci vuole ammazzare. O sbaglio? Però poi ci diciamo che siamo in missione di pace, che dobbiamo solo aiutare gli iracheni e tornare a casa. Gli americani hanno costruito muri alti due metri intorno alle loro postazioni, noi contemplavamo il fiume! Magari quei due kamikaze del cazzo ci sono pure venuti a trovare qualche volta, insieme ai nostri ‘amici’ di Nassirya e ci hanno pure ringraziati ‘italiani brava gente’, mentre si studiavano come farci saltare. Questo posto era un bersaglio fin troppo facile. Mi sa che le vergini ai nostri kamikaze gliele fanno solo odorare!”
Ha ragione Antonio. Quelle due strade, una che costeggia l’Eufrate, l’altra che lo attraversa con un ponte, non avevano altra difesa che un misero pattugliamento. Ma, pensavamo, non siamo mica a Baghdad o a Falluja. Neanche il ponte avevamo sbarrato, neanche dopo che ci avevano avvertititi di stare attenti, che ci avevano presi di mira. Quando ho visto arrivare quel camion contro di me a tutta velocità la prima cosa che ho provato, prima ancora del terrore e della voglia di ammazzare, è stata la certezza che quello che avevo davanti agli occhi, quelle strade inermi, quei pochi uomini armati erano quanto di più assurdo avrei dovuto vedere. Ed ho realizzato, in quella frazione di secondo, di averlo sempre saputo e di aver sempre avuto paura.
Allora forse è vero che è stata colpa dell’ipocrisia, di chi ci ha guidati in “Antica Babilonia” e di noi stessi che abbiamo accettato di dimenticare dove siamo: in Iraq ed in guerra.
Si commentano le polemiche che ci arrivano dai giornali italiani e dalle nostre madri. Sappiamo che molti ritengono che “questa è una guerra degli americani, loro l’hanno voluta, loro se la devono combattere!”. Stanno proponendo di ritirare il contingente, di farci tornare a casa, perché “i nostri uomini non possono morire per colpa delle mire degli statunitensi al controllo della zona del petrolio” perché gli Americani bugiardi avevano parlato di una guerra lampo, e parlano ora di una guerra finita che invece fa ancora vittime innocenti.
Io non amo gli Americani. Li ammiro, per il loro enorme senso pratico, per la loro capacità di sopperire alla mancanza di un passato remoto con la continua ricerca di un futuro anteriore che poi esportano nel resto del mondo al prezzo della supremazia.
Io non amo gli Americani, ma qui ci sono venuto volontario e con me altre centinaia di italiani. Credevo allora e credo ancora adesso che questa guerra sia giusta. Insomma, giusta come può esserlo una guerra: aberrante, ma inevitabile, un’ovvia barbara conseguenza del desiderio di potere dell’uomo.
Credo che, se con il loro ipocrita fine di liberazione, sebbene spinti dai loro interessi economici, sicuramente animati dalla certezza di essere stati bombardati per primi quell’undici di settembre, riusciranno a ridare a queste persone una civiltà, se riusciranno, col tempo, a togliere la polvere del terrore dagli occhi dei sudditi di un re sterminatore, io sono dalla loro parte. Non potrò mai esserne sicuro. Ma ho fatto una scelta. E invidio chi non riuscirà a condividerla.
Sono venuto in missione di pace. Se me lo avessero chiesto sarei venuto in missione di guerra. Dalla parte degli Americani, dalla parte degli Iracheni, contro Saddam ed i suoi seguaci, contro Osama e la sua macchina della morte che lavora ancora a pieno regime.

Qualcuno addita il Corano, qualcuno il petrolio, altri, più in generale, il denaro, .
Sono solo cose. Le cose non uccidono.
Le persone uccidono.

C’è un gatto che gironzola tra i tavoli. Un gatto (arabo), con il pelo opaco, il mio veterinario dice che succede quando mangiano male. Lui non sarebbe diffidente, almeno non di più di quanto sia nella sua natura, se incontrasse sulla sua strada il mio persiano (italiano) Arturo. Ricordo una frase di un film, sulla quale mi sono soffermato spesso incredulo: “Lo sai? L’uomo è l’unico animale che uccide i suoi simili”. Non solo, aggiungo. L’uomo è l’unico animale che non uccide per necessità.

Cerchiamo una colpa? Iraqui Freedom, Nuova Babilonia, l’undici settembre, Osama Hussein, Saddam Bin Laden, gli Stati Uniti d’America, i dollari, l’oro nero, il Corano… io assolvo tutto.
Io accuso l’uomo.

Accuso la sua superbia, la sua inattaccabile convinzione di essere un animale superiore solo perché dotato di maggiore intelligenza, senza rendersi conto di aver creato lui sia il termine che la definizione di intelligenza, ottuso dittatore del mondo che decide come più gli fa comodo quali siano i parametri per potersi eleggere re. Accuso la sua pretesa di supremazia sul mondo. La presunzione di credere di saper giudicare il bene ed il male ed anche qualora ne fosse capace, l’arroganza di credere di avere il diritto di punire il male e premiare il bene.
Accuso la sua incapacità di capire quanto ogni sua normale aspirazione di miglioramento sia degenerata in giochi astratti di manipolazione della realtà, la deficienza nel capire che sono appunto solo giochi, l’impegno che profonde nel costruire imponenti quanto inutili sovrastrutture che, per loro stessa intrinseca funzione, lo sovrastano e lo dominano.
Accuso lo stravolgimento che ha operato nei millenni sul suo sano istinto animale, l’incapacità acquisita di capire i suoi simili senza l’uso esaltato del linguaggio verbale. La fabbrica di etichette nella torre di Babele, le diversità identificate, ognuna associata ad un diverso timore, paura o terrore.
Accuso l’uomo ferito che si vendica pur sapendo che la vendetta non ha alcuna logica, solo per poter placare la sua rabbia atavica .
Accuso l’uomo che da sempre cerca, nella guerra, negli ordini di un altro uomo, nella sofferenza, nell’incapacità di sentirsi felice, una buona motivazione per sterminare, uccidere, distruggere, perfino se stesso
Accuso l’uomo che nel mondo senza limiti o freni della pazzia fa fluire violenza e dimentica l’amore.

Io sono un uomo. Accetto, oggi come mai, di convivere per il resto della mia vita con la colpa indelebile che condivido con miliardi di altri esseri umani cercando di relegarla in una soffitta dell’anima, di riconciliarmi, per necessità, con la responsabilità di aver creato, sopra il naturale istinto dell’animale, una struttura intricata e sofisticata che mentre ci eleva ai nostri occhi, ci allontana da noi stessi.

Se potessi ancora crederci, presenterei il conto a Dio. Mi arrabbierei con lui, lo sfiderei a trovarmi una spiegazione per tanto dolore. Gli chiederei dove sta scritto che per averci dato l’amore debba darci anche l’odio, che al bene debba essere contrapposto il male. Lo insulterei per averci creati e poi essersi divertito a fare esperimenti su di noi.
Darei a lui la colpa di tutto.
E poi andrei a vivere nella cuccia del mio gatto, mangiando dalla sua ciotola, bevendo con la lingua, camminando a quattro zampe, senza mai più emettere un solo suono umano, amando i miei simili (e non) al modo dei gatti, facendo le fusa, andando in amore, combattendo per sopravvivere, fuggendo da chi non posso combattere. E così sfiderei Nostro Signore a dimostrarmi cosa c’ho perso.

Ma adesso, quarantotto ore dopo che quella massa di tritolo mi ha divelto l’anima, con la morte chiusa in diciannove casse e riflessa negli occhi dei compagni che ho attorno, lontano anni luce dal ricordare l’amore che pure devo aver visto, adesso a questo Dio che non riesco a trovare, forse perché qui ha un altro nome, provo a chiedere solo, umilmente, il perdono.