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"La
colpa" |
Quella
sola notte del colonnello Tibbets
di Costantino Simonelli
Da
allora, dopo il fatto, si sono rivisti spesso, specie i primi
tempi. Poi le occasioni sono cominciate a diradarsi.
L’ultima volta è stato per l’ennesimo anniversario
commemorativo, nel’75, a Tinian nelle Marianne, per i trent’anni.
Proprio a Tinian, dove avevano passato insieme quegli ultimi giorni.
Tom Ferebee accoglie il suo comandante Paul Tibbets con un “Come
va, vecchio assassino” e con quella sua faccia impudente
da attempato cow boy, indispettito dal solo fatto di dover invecchiare
senza gustarsi fino in fondo il pur infinito sogno americano.
Si danno un’enormità di pacche sulle spalle abbracciandosi,
lasciando e riprendendo l’abbraccio più volte; tanto
che Paul Tibbets alla fine deve risistemarsi la protesi auricolare
all’orecchio destro, che, nella foga delle esternazioni
d’amicizia, se n’è uscita.
“Voli ancora?”, fa Tom
“Non più. La Commissione non mi ha rinnovato il permesso,
tranne chiudere un occhio, ogni tanto.
Sono o non sono un eroe di guerra?”, dice ridendo sornione.
Paul Tibbets ha settant’anni, lenti bifocali, capelli tra
il grigio ed il bianco tagliati corti sulla nuca ed ai lati, ci
vede poco e ci sente anche meno, ma ha ancora la faccia ed il
corpo asciutti di un soldato.
Dopo la guerra, grazie anche alla sua missione ‘speciale’
che lo ha tenuto famoso per tutti gli anni cinquanta ed anche
inizio anni sessanta, ha avuto una vita facile. Carriera militare
fino all’acme consentitogli dai suoi gradi di partenza,
qualche missione sicura prima in Corea poi in Vietnam - ma da
supervisore - e poi tanta, tantissima presenza propagandistica
per il grande cuore dell’America che combatte e vince. Da
cinque anni, appesa la divisa al chiodo, - “gli eroi, per
chi vuole dimenticare il resto, sono divenuti quelli delle passeggiate
nello spazio” , dice sempre - è diventato direttore
di un’azienda di trasporti aerei.
“ E a te come ti gira?”
“ Solita vita da mandriano… di figli, nuore e nipoti”,
risponde scherzoso Tom.
Dopo cinque anni senza essersi sentiti, viene facile cercarsi
qualche confidenza in più davanti ad un bicchiere di wiskey
rotondo e pieno. Magari alla ricerca di Ethel e del suo ritrovo
per militari affianco alla caserma che nel ’45 li aveva
accolti e coccolati.
“Chissà se Ethel esiste più”, fa Tom.
Ethel ed i suoi capelli biondo canapa, il viso aggiustato e le
curve al posto giusto erano stati il progetto immediato di tutti
quelli del ‘509’.
“Ma tu ce lo hai fatto solo credere o ci sei andato per
davvero?”, chiede Paul.
“Per davvero, caro comandante, - risponde Tom. - Lei voleva
te perché eri l’ufficiale, il più alto in
grado. Ma tu facevi il comandante di tutti noi, il prezioso, un
poco anche il gentiluomo… e lei alla fine si è accontentata
di Tom, cioè di me, e dopo, forse anche di Gorge. Io però,
sono quasi sicuro, devo aver colpito il bersaglio.
“Cosa intendi dire?”
“Cosa intendo dire…Sentito parlare di figli della
guerra, mio comandante? Due mesi e passa senza le sue cose, mi
aveva confessato. Un po’ sciocchina la Ethel, senza un minimo
di precauzioni.
Io poi in volo e ‘fiuu’... di lei nulla più.”
Erano finiti a bere il wiskey in uno dei tanti alberghi in assoluto
stile occidentale che a Tinian, dopo la guerra, erano spuntati
come funghi a popolare i paesini della costa sud delle Marianne
e a dimostrare così tutta la loro vocazione al turismo
di elite che la bellezza del luogo aveva alla fine consentito
di esprimere.
La
ricerca d’un qualsiasi posto di allora sarebbe risultata
infruttuosa.Avevano smantellato tutto.
Dove c’era la pista del famoso decollo ora era sorto un
centro commerciale esuberante e lussuoso e popolatissimo da un
mescolio di nazionalità e di razze superbamente riappacificate
dal comune senso del consumo e del profitto.
Di fronte al supermercato ed ad una teoria lunghissima di carrelli
per la spesa, allineati in fila come un esercito in parata, in
un vano di marmo lucido vasto non più di trenta metri quadrati,
al centro, era alloggiata una riproduzione fedele in bronzo di
Little Boy. Davanti a questa, una lapide con una ventina di righe
di scarna commemorazione.
Per appartarsi con Tom , Tibbets aveva dovuto abbandonare per
un po’ la scialba figura di sua moglie Christine, affetta
da anni da una grave forma di depressione che ora, complici i
farmaci, andava sfociando in una progressiva demenza. Era stato
lui ad insistere per portare anche lei.
“Ti distrarrai un po’, fai una vita da reclusa”,
aveva detto. L’aveva lasciata nel patio dell’albergo
dove era avvenuta la cerimonia in compagnia del figlio David e
delle sue borbottanti attenzioni.
David, figlio ancora abbastanza devoto - anche per via di interessi
patrimoniali - ma anche un po’ seccato di dover accompagnare
il padre in questo suo ennesimo percorso delle rimembranze.
“Solo mezz’ora per rifarmi gli occhi e la bocca col
mio amico Tom”, aveva promesso.
Tom invece non aveva avuto problemi: era venuto, come il suo solito,
con mezzi propri e da cane sciolto.
Loro, davanti a quel simulacro del Little Boy in versione bronzea
devitalizzata ed inoffensiva, c’erano passati davanti senza
fermarsi più di tanto.
L’iniziativa
della messa in posa del monumento era arrivata loro prima come
notizia dai giornali - quelli militari che ricevevano gratuitamente
tutti i reduci d’un qualcosa - poi attraverso una telefonata
dal Pentagono, molto formale e molto asettica, di un qualche impiegato
addetto ad amministrare marginali questioni di guerre passate.
“Nulla in contrario a citare i vostri nomi?”
“E perché mai”, era stata più o meno
la loro risposta. Ma in realtà l’imbarazzo che poteva
suscitare in chi la poneva quella domanda, loro lo immaginavano
bene. Erano i loro nomi quelli di chi, in un sol botto, aveva
fatto fuori più di centomila persone.
E ad un’altra domanda, ancora più esplicita, avevano
finito per far l’abitudine Paul Tibbets , Tom Ferebee e
gli altri del gruppo ‘509’.
“Te l’hanno fatta ancora?”, chiede Tom ammiccando
e ridacchiando, quasi ad invitare Paul a scherzarci sopra.
“Tre giornalisti anche oggi.”
“Ma, a me puoi dirlo, tu ci hai davvero pensato mai?”,
incalza Tom più serio.
Paul guarda Tom negli occhi. I suoi occhi vorrebbero trasmettere
all’amico la tentazione che gli sta passando per la testa.Quella
di dire. Ma poi pensa che non ne vale la pena e, forse, non sarebbe
neppure giusto. Regala all’amico un sorriso appena un po’
amarognolo, si alza e, con la voce tornata per un attimo risoluta,
da comandante:
“E’ ora di andare. Christine e David mi aspettano.”
Quando
decisero di puntare su di lui per quella missione, il generale Ent
lo convocò nel suo ufficio fatto a misura di comando segreto
in uno dei tanti palazzi multipiano di Colorado Springs.
Il colloquio fu senza eccessivi preamboli. Di fianco il generale
aveva una cartella giallina in cui era racchiusa tutta la sua vita,
militare e non solo. A bruciapelo gli chiese: “E’ stato
mai arrestato?”
Impettito, in rigoroso attenti, Tibbets si sentì cogliere
da quella domanda come da un proiettile in pieno ventre. Ma incassò
senza darlo ad intendere. Rispose con fermezza: “Sì,
signore, è stato nel settembre del ’27; mi hanno sorpreso
in atteggiamento imbarazzante con una ragazza sul sedile posteriore
dell’auto di mio padre”. Il generale sorrise. E, solo
dopo, sorrise anche lui.
“Colonnello, mi corre l’obbligo di dirle che la missione
che sto per affidarle fino all’ultimo giorno rimarrà
segreta, intendo la natura e l’obiettivo preciso. Però
è di straordinaria importanza.”
Tibbets accennava in volto un’espressione di rispettosa non
comprensione.
“So che non è mai bello annunciare ad un ufficiale
che gli sto proponendo un salto nel vuoto, però voglio dirle
che se questa missione va a buon fine, lei per gli Stati Uniti d’America
potrà essere un eroe…” A questo punto il parlare
del generale, fino ad allora austero, calò di tono, quasi
si rapprese, come le rughe del suo volto. “Ma ci vuole coraggio,
ed un coraggio non solo militare, direi anche morale. E non sono
ammessi ripensamenti; se lei fallisce sarà arrestato e sottoposto
a corte marziale. In due parole - sentenziò il generale –
lei avrà a che fare con la bomba atomica.”
Il viso di Tibbets apparve al generale Ent confortevolmente inespressivo.
Né dovette attendere molto per avere una risposta: “
Mi dica come e dove diventare subito operativo, generale. Accetto.”
Dopo
di quell’ “accetto” a Tibbets fu data carta
bianca su tutti gli aspetti organizzativi ed in particolare sulla
scelta degli uomini dell’equipaggio. Tibbets aveva fatto
la sua ricognizione mentale pescando tra gli amici con cui aveva
condiviso voli sulla Francia e sul Nord Africa. Cercava gente
con un bel bagaglio di esperienza di voli a rischio e con una
buona dose di fortuna per essere scampate a quel putiferio del
quarantaquattro. Alla fine ad uno ad uno tutti i nomi vennero
fuori. Adesso doveva essere lui a fare di quei nomi una vera squadra.
I primi mesi di addestramento li passarono in una desolata base
nello Utah che però aveva il pregio di essere non lontana
da Los Alamos dove Little Boy stava passando giorno per giorno
dalla fase di adolescenza alla piena maturità. Poi, nell’estate
del ’45, si trasferirono a Tinian , nelle Marianne, che
era la base aeronautica più in prossimità dell’obiettivo
e da dove la missione sarebbe poi partita.
Il giorno prima di quello che poi sarebbe stato quello effettivo
della missione Paul e Bob Lewis, il suo vice, erano stati sulla
spiaggia. Il mare era una tavola d’azzurro con qualche sputo
biancastro di onde ogni tanto, ma quasi regolari per chi avesse
avuto voglia di cronometrarle. Tutto quello squarcio di universo
dava l’idea d’un meccanismo perfettamente calibrato.
Paul si guardava i piedi alzare spruzzi di sabbia, ritmicamente
. Bob, in piedi faccia al mare fumava la sua sesta sigaretta della
giornata. Aveva preso a fumare da poco e ancora le contava.
- “E’ per domani?”
Paul prima di rispondere volle vedersi scivolare dal dorso del
piede tra le dita tutto il mucchietto di sabbia che aveva sollevato.
- “Sì,” rispose.
- “Ma ti hanno detto altro?”
- “Una grossa città del Giappone”
- “E che ci portiamo addosso?”
- “Una cosa altrettanto grossa - e si era alzato e si era
messo a camminare come per troncare la discussione - una roba
che della città grossa deve farne una molto più
piccola.”
Ritornando in camerata avvertì gli altri della squadra
che era per quella notte.E lo disse con un tono che gli altri
avevano imparato a riconoscere, non ammetteva domande. “Ci
vediamo a pranzo e poi alle sedici in prossimità dell’aereo,
per l’ultima ricognizione”. Quindi si era recato in
camera sua e si era seduto al piccolo tavolo addossato alla parete
di fronte alla branda; aveva preso dal cassetto una busta da lettera,
ne aveva estratto il foglio su cui campeggiava in alto l’effigie
dell’ Air Force, l’aveva stirato un paio di volte
col dorso della mano ed aveva iniziato a scrivere. Dopo due o
tre righe s’era fermato ed aveva tirato fuori dal portafogli
la fotografia della moglie. Se l’era guardata un po’
e poi l’aveva rimessa a posto. E aveva accartocciato il
foglio buttandolo nel cestino sotto il tavolo.
Si disse che scrivere era una cosa molto banale; che, se avesse
voluto, la moglie l’avrebbe sentita per telefono a cose
fatte l’indomani sera. Riaprì il cassetto e ne estrasse
una scatoletta rotonda non più grande di un dollaro, ne
svitò il coperchio e, con molta attenzione, fece cadere
nel palmo della mano le dodici piccole capsule di cianuro. Le
soppesò come si fa tenendo in mano dei proiettili e poi
accuratamente le fece scivolare nuovamente nel loro contenitore.
Come succedeva spesso prima di ogni missione importante gli venne
in mente sua madre e quel suo viso rubizzo e gioviale, schietto
e rassicurante. Quel viso rimaneva ancora il suo più grande
portafortuna. Pensò che in fondo poteva permettersi di
ringraziarla in modo ufficiale di tutti i suoi silenziosi servigi.
Decise in quel momento che se il nome della missione era giusto
che lo assegnassero i capoccioni di Washington, quello all’aereo
lo avrebbe dato lui. Sissignore, si sarebbe chiamato come sua
madre: Enola Gay, un nome breve ed efficace, quasi allegro.
Il resto dell’afosa mattinata d’agosto passò
nella più assoluta tranquillità trascinandosi senza
scosse fino all’ora di pranzo.
Qui, pasteggiando tutti insieme con la solita discreta euforia,
Bob Caron, il mitragliere di coda, annunciò trionfante
ai compagni il frutto della sua ultima licenza: aveva ricevuto
una lettera di Annette, la sua compagna – non erano ancora
sposati – in cui lei scriveva di essere in dolce attesa.
Bob pagò da bere a tutti, “ma un solo giro - ammonì
Tibbets - teniamoci con la mente più sveglia possibile”.
Era Tibbets uno di quegli ufficiali che facevano sentire il peso
del comando nella giusta misura e solo nelle situazioni opportune
e necessarie. Per il resto sapeva amministrare con giudizio e
bonarietà nei confronti dei subalterni la sua figura di
fratello maggiore. Insomma, un comandante complessivamente gradevole.
Bevvero mettendo sotto il tiro dei loro lazzi il novello papà,
che mitragliere era e bene aveva colpito, ma poi finirono per
ricadere a scherzare sull’argomento che riempiva più
di ogni altro quelle lunghe ore di attesa passate nel nulla fare.
E così cominciava tra di loro un’ inesauribile sequenza
di stronzate, di battute più o meno truculente sugli omini
del curioso popolo del Sol Levante, della loro presunta insipiente
virilità amatoria mescolata all’ altrettanto sciapita
virtù bellica, finendo per ripercorrere, parodiandoli,
tutti i più triti luoghi comuni che quella gente - peraltro
per molti aspetti davvero poco conosciuta - s’era tirata
addosso nel corso di secoli di geloso isolazionismo autarchico.
Quello di ridicolizzare il nemico, oltre che provare ad odiarlo,
è un modo comune da sempre a tutti gli eserciti del mondo,
e serve, in un certo senso, ad esorcizzare il rischio di rispettarlo
e forse pure stimarlo. Sapevano bene quelli del 509, come lo sapevano
un po’ tutti i soldati che in quel tempo combattevano nell’area
del Pacifico, che quell’esercito di agguerrite formiche
dagli occhi a mandorla aveva mostrato un tale grado di efficienza
e di determinazione da tenere, già da tre anni ormai, in
scacco la esuberante ed orgogliosa macchina da guerra americana.
Era da qualche mese infatti che, sia nelle alte sfere che, di
riflesso, anche nei semplici soldati, ad un senso di frustrazione
per una vittoria che non pareva avvicinarsi, si andava a mano
a mano sostituendo l’idea che si fosse prossimi alla resa
dei conti; che in qualche modo si stava per produrre l’estremo
sforzo bellico e che questo avrebbe rappresentato una sorta di
“o la va o la spacca”.
Tranne Tibbets, ufficialmente gli altri sapevano e non sapevano
cosa rappresentassero loro e la loro missione in quest’
estremo sforzo. Non sapevano ma ne intuivano la portata.
E quando alle sedici del pomeriggio si ritrovarono ancora una
volta tutti insieme sulla pista di decollo e videro per la prima
volta Little Boy nel suo luccicante splendore metallico e nella
imponenza dei suoi quattromila chili di acciaio, quando lo videro
caricato con una cura estrema, quasi sacrale, nel ventre spalancato
del loro aereo, per un lunghissimo attimo si guardarono l’un
l’altro in un silenzio di assoluta sorpresa. Questo prima
che Tom Ferebree - il primo a riprendersi dalla meraviglia - non
esplodesse una delle sue solite colorite bestemmie:
“Madre di Dio e del vecchio zio Sam, questo confettone farà
fare dei saltini isterici a più d’un muso giallo”.
Gli altri risero, ma l’idea di doversi portare addosso per
i cieli del Pacifico quel coso non dovette far scomparire proprio
subito una certa preoccupazione dai loro volti.
Tibbets annunciò la decisione di chiamare l’aereo
col nome di sua madre ed assistettero tutti attenti ed entusiasti
al procedere dell’ opera di pittura di quelle otto lettere.
Anzi, Joe Wilborn s’impuntò tanto sostenendo che
la “G” di Gay era venuta storta, che Tibbets, per
non sentirlo più, la fece cancellare e ridipingere. Il
B29, divenuto più familiarmente l’ Enola Gay, fu
privato del suo rivestimento e di tutte le altre armi, fatta eccezione
per i pezzi di coda.
- “Bisogna alleggerirlo per volare a più alta quota
possibile” spiegò Tibbets .
- “Speriamo che bastino i duemila piedi per non fare brutti
incontri con qualche caccia giapponese”- insinuò
Bob Lewis.
- “Non esistono più uccellini giapponesi che possano
impensierirci - rispose Tibbets - e pure della contraerea di terra
è rimasta poca roba”.
Alle diciotto l’incontro fu sciolto e non senza un tono
di ironia nella loro voce si diedero la buona notte. In effetti
era da circa una settimana che andavano a dormire a quell’ora,
per abituarsi al risveglio nel cuore della notte.
Dovettero dormire tutti tranne - a detta sua - Tom che, tuttavia,
privo di compiti specifici per buona parte del viaggio di avvicinamento
all’obiettivo, si sarebbe rifatto del sonno perduto sull’aereo
durante il percorso. Lui disse che per tutta la notte era stato
a ricontrollare minuziosamente tutto l’equipaggiamento.
Gli altri gli diedero ad intendere di crederci, ma sapevano bene
che quella di Tom era una di quelle sue scuse tanto infantili
quanto simpatiche, pronte a giustificare atteggiamenti a dir poco
spensierati. Lui non era immaginabile che si ponesse problemi,
lui le cose le viveva con gusto e basta, fossero queste tanto
il dormire saporito quanto il lasciar andare dritta sull’obiettivo
una bomba da sfracelli. E, quanto a questo, aveva una spavalderia
una freddezza ed una mira da tipico cow boy-killer, di quelli
che ricordavano per il modo di fare certi protagonisti dei più
famosi film western di allora.
Alle
due e quarantacinque del 6 agosto, sotto le mani esperte di Paul
Tibbets l’Enola Gay, la superfortezza volante che portava
nel suo corpo la prima bomba atomica staccò le ruote da terra
in direzione del Giappone.
Solennemente in cuffia la voce di Tibbets annunciò:
-“Abbiamo a bordo quello che avete visto ieri sera; è
la prima bomba atomica della storia ed è destinata ad una
delle tre più grosse città del Giappone. Se sapremo
piazzarla bene, sarà l’inizio della fine della guerra.”
Nella cuffia, di ritorno, ricevette alcuni “urrà”.
- “Attendo istruzioni dall’aereo civetta mandato in
perlustrazione per sapere l’obiettivo preciso, hai capito
Tom?”
Nessuna risposta.
- “ Tom, mi senti?”
- “Sta dormendo”- l’avvertì Johnn Talbot
.
Tibbet sorrise. “Lasciatelo dormire, lo sveglieremo al momento
opportuno. Tanto, alla fine, il meglio della festa sarà opera
sua.
Volarono per circa sei ore in una situazione di calma assoluta,
prima nel buio della notte, poi con l’alba che li colse a
mano a mano quando sorvolavano l’Oceano all’altezza
di alcuni atolli in corrispondenza del tropico del Cancro, in un
cielo che apparve loro straordinariamente terso; come se tutte le
nuvole del mondo quel giorno si fossero nascoste per una sorta di
timore reverenziale per quanto stava per succedere.
A parte Tom Ferebee che dormiva accucciato nello scomparto centrale,
quello a cavalcioni della bomba, a parte a turno Tibbets e Lewis
che pilotavano, gli altri avevano un bel da fare per non annoiarsi.
John, il tenente John, che era l’intellettuale del gruppo,
appena ci fu luce sufficiente tirò fuori dalla tasca un libercolo
di poesie e si mise a leggerle sussurrando talora tra le labbra
alcuni di quelli che considerava i versi più significativi
o quelli su cui aveva bisogno di riflettere per capirli. Kevin Riggers,
che era stato privato della sua mitragliatrice e praticamente era
sull’aereo un disoccupato, raggiunse in coda il suo compagno
mitragliere Bob Caron ed attrezzarono una delle loro famose partite
a carte, giocando ad un gioco che, dicevano, avevano inventato loro
e che solo loro conoscevano.
Alle otto e trenta finalmente arrivarono sui cieli del Giappone.
A Tibbets dall’aereo spia giunsero in cuffia le coordinate
precise.
- “Svegliate Ferebee” – tuonò il capitano
come colto da una frenesia improvvisa.
Talbot scosse per un braccio Ferebee che, stropicciandosi gli occhi,
parve riemergere da una scorribanda in tutt’altro mondo.
- “Tom, dai che ci siamo”.
- “Eccomi, eccomi.
- “Tom, 37°15’e 25°18’ est- nordest.,
controlla sulle carte – disse Tibbets con la voce tornata
nuovamente calma.
Tom Farebee sfogliò avidamente le carte e con il dito puntato
sul foglio seguì le coordinate.
- “E’ Hiroshima ! - urlò.
- “Sì, è Hiroshima, Tom, – confermò
Tibbets.- Adesso cerca il punto preciso e fammi sapere quando ce
l’hai. John, ci sei?
- “Pronto,capo.”
- “Innesca quella cazzo di spoletta di uranio, ma prima dalle
un bacio da parte mia e da parte della combriccola di Los Alamos.”
- “Sarà fatto,capo”.
- “Ragazzi, - mandò a dire a tutto volume nelle cuffie
Tibbets – ci siamo, stiamo scrivendo la Storia.”
Intanto Farebee seguendo le coordinate aveva individuato il punto
preciso su cui dirigere il lancio.
Era un ponte a T sul fiume, accanto ad una grossa cupola di un edificio
che le carte indicavano come la Camera di Commercio. Quando la T
del ponte coincise con le barre a croce del suo mirino,
Tom avvertì il comandante:
-“Capo, ce l’ho”.
-“Aspetta un attimo che stabilizzo l’aereo… Ecco..
Vai!”
Bob Lewis al suo fianco si fece un fuggevolissimo segno di croce,
quasi come se non volesse essere scoperto mentre rubava. Istintivamente
Tibbets portò una mano al taschino del giubbotto e tastò
quella scatoletta rotonda della mattina prima. Poi, per un attimo
pensò a sua madre.
Erano le nove e quindici antimeridiane del 6 agosto quando il puntatore
Tom Farebee , il cow boy, premette il tasto. Il ventre dell’aereo
si spalancò e il “piccolo ragazzo” iniziò
la sua precisa discesa perpendicolare, la sua discesa di morte.
Nelle cuffie ci furono un paio di minuti di silenzio assoluto mentre
l’aereo, liberato di quell’enorme peso, per rinculo,
ebbe un sobbalzo verso l’alto.
Tibbets, prudenzialmente, per evitare riflessi anche i più
diluiti dello spostamento d’aria e dell’aumento di temperatura,
portandosi ad una quota di sicurezza iniziò immediatamente
la virata per il viaggio di ritorno.
Giù, in quegli attimi prima dell’esplosione, Hiroshima
iniziava la sua solita giornata di fervente attività tipica
di una città giapponese industriale e marittima. Nessuno
aveva fatto caso a quel grosso aereo che ronzava solo e discreto
sul suo cielo. La contraerea o quello che ne era rimasto, come previsto,
restò muta. Si pensò ad uno dei numerosi aerei da
ricognizione che in quel periodo passavano ad alta quota per spiare
e senza colpo ferire. E poi Hiroshima, fino ad allora, quasi per
uno strano disegno del destino, era stata pressoché del tutto
risparmiata dagli intensi bombardamenti che avevano messo a ferro
e fuoco Tokio, Osaka e le altre grosse città del Giappone.
Nessuno immaginava, pochi attimi prima di quello infernale dell’esplosione,
quante decine di migliaia di frasi, quanti gesti consueti, quante
strette di mano, quanti pensieri, quanti sguardi, sarebbero stati
bruscamente interrotti, e per sempre. Non ci fu tempo per sapere,
per capire: tutto fu annientato in un solo minuscolo attimo di suprema
comune incoscienza da una enorme fiammata che avvolse polverizzò
e vaporizzò tutto aprendo il suo grembo procace ad una miriade
di nulla più.
Sull’aereo ci fu chi vide e volle vedere e chi non vide e
non volle vedere.
Il silenzio fu rotto dal solo Bob Lewis che, guardando in giù,
sommessamente esclamò: “Mio Dio!”
“Ma
lei non ha avuto mai nessun rimorso?”
Era questa la domanda che gli avevano ripetuto in tanti decine
di volte e nelle situazioni più diverse, e così
alacremente, così ingenuamente e pur così subdolamente,
quasi ad insinuargli l’idea che non era possibile, non era
umano che non sentisse neppure un po’ di colpa.
I primi tempi il suo “no” era sì deciso, anche
orgoglioso, ma soprattutto era discorsivo ed argomentante. Spiegava
con lucida passione che no, che, se fosse stato necessario, quella
missione, quell’atto materiale - perché di questo
in fondo si trattava - lui l’avrebbe ripetuto ancora. Perché
era un soldato ed un soldato non può discutere gli ordini,
deve solo eseguirli. E poi, chi quell’ordine l’aveva
dato in quel momento preciso della guerra aveva avuto le sue ragioni.
Che non erano solo una questione di vittoria di uno e di sconfitta
di un altro; senza quella bomba probabilmente la guerra con i
giapponesi si sarebbe trascinata per chissà quanto tempo
ancora in un logorio di risorse materiali e magari anche in termini
di perdita di vite umane da una parte e dall’altra, superiore
a quanto aveva potuto farne la bomba in una volta sola. Che non
era la legge del più forte, o magari anche sì, anche
quella, ma più intesa come legge per la sopravvivenza.
“Sì, sono credente, e questo? Che cambia? Forse che
da buon cristiano non mi auguro che di guerre non ce ne siano
più? Eppure ce ne sono sempre state e , purtroppo, sempre
ce ne saranno.E nelle guerre la gente uccide e viene uccisa.
“No, ad Hiroshima da allora non ci sono più tornato,
anzi, potrei dire che non ci sono mai stato. Certo che ho visto
i cinegiornali e quei visi e quei corpi dilaniati, anche di bambini,
certo, ma cosa volete che vi dica, che mi sento io responsabile
di quelle immagini atroci? Nossignore, grazie a Dio io la notte
dormo sonni tranquilli.”
Questo rispondeva con convinzione il colonnello Tibbets i primi
tempi all’incalzare di quelle domande. Poi, invece, col
passare degli anni aveva finito per infastidirsi sempre di più
di fronte a quelle discussioni che lui ora considerava frutto
d’una semplice curiosità morbosa da parte biechi
moralisti disfattisti. Ed ormai quelle discussioni le troncava
di netto sul nascere con una buona dose di sgarbato risentimento.
Per lui rimorso o non rimorso, colpa o non colpa, era un argomento
che sembrava, a tanti anni di distanza, definitivamente chiuso.
Si era rannicchiato nel suo io prossimo alla senilità coltivando
solo i ricordi migliori del suo essere stato soldato.
Perciò Paul Tibbets alla soglia dei settant’anni
mai si sarebbe aspettato una notte come quella.
“Venuta fuori da che, poi? Così, dal nulla, fuori
di ogni logica e fuori da ogni pensiero diurno.
Lui
non aveva applicato a bella posta nessun meccanismo di rimozione,
mai; era rimasto solo coerente ai suoi principi di necessità,
di soldato. Sì, la morale superiore del dovere all’obbedienza
agli ordini. Forse che la decisione era stata sua, forse che avrebbe
potuto realisticamente applicare un criterio di libera scelta?
Rifiutare? E perché mai ?. Era una missione come un’altra
solo più importante e più distruttiva, e poi…
ci sarebbe stato un altro al posto suo - sempre e comunque ci
sarebbe stato - a fare la stessa cosa che aveva fatto lui.
E allora perché adesso tutte queste domande, tutte insieme
questa notte. E non era come rispondere alle domande che gli avevano
sempre fatto quei fottuti moralisti del pacifismo delle chiacchiere,
era un’altra cosa, perché era lui, lui che le aveva
sempre snobbate , adesso e per la prima volta era lui che se le
poneva quelle domande.”
Da un po’ di settimane soffriva di un fastidioso bruciore
allo stomaco che non s’era ancora impegnato seriamente a
correggere con farmaci e con una dieta più attenta. Anzi,
proprio la sera prima c’era andato pesante con le costolette
di agnello e con quel vino rosso californiano di non eccellente
qualità , e adesso, oltre che particolarmente eccitato,
il bruciore lo sentiva forte insieme ad una crescente arsura.
Aveva pensato anche di avere un po’ di febbre. “Fosse
questa la causa di tutto questo trambusto dentro?”, si era
detto, dando però poco credito a questa ipotesi. Si era
alzato senza eccessiva premura nel non far rumore - la moglie
era imbottita di tranquillanti - e si era recato in cucina e lì
aveva smanacciato un po’ nello stipetto a muro dove c’erano
i medicinali. Al caso suo aveva trovato solo del bicarbonato.
Ne aveva versato un cucchiaio colmo in abbondante acqua ed aveva
bevuto tutto in due riprese, facendo alla fine una faccia disgustata.
Poi era andato nel soggiorno e, lasciandosi cadere di peso sul
divano, aveva inforcato gli occhiali e preso in mano il giornale.
Niente da fare, non gli riusciva di leggere due righe di seguito
che lo distraessero dai suoi pensieri. Allora aveva provato a
camminare su e giù per il corridoio trascinando stancamente
le ciabatte sul pavimento per una decina di minuti. Ma i pensieri
stavano là con lui e lo seguivano passo passo. Era pure
andato a salutare Kicchi , la sua cocorita, e le aveva fatto qualche
moina sebbene lei stesse dritta immobile sulla sbarretta della
gabbia con la testa leggermente reclinata sul petto e gli occhietti
chiusi. Dormiva anche lei. Per un attimo pensò di uscirsene
proprio fuori, in strada, a prendere un po’ d’aria
e fare magari il giro dell’isolato. Forse avrebbe trovato
ancora il bar di Konrad aperto con dentro gli ultimi indefessi
ubriaconi a biascicarsi a labbra umide e bocca arsa le ultime
frasi sconnesse o le ultime porcate su culi e zizze di goduriose
donne della loro fantasia resa depravata ed impotente dall’alcool.
E lui cosa avrebbe dovuto fare? Mischiarsi con loro? Sedersi al
banco ed ordinare un bourbon e poi due e poi tre?
“Il bourbon dopo il bicarbonato? E no, caro il mio colonnello
maggiore Paul Tibbets, questo no.
Contraddire alla logica del soldato. Perché, esiste una
logica del soldato? Se pure questo fosse stato un ordine tu a
questo ordine non avresti obbedito. Ma forse un ordine così
nessuno te l’avrebbe mai dato.”
Si sentiva confuso con un cerchio che gli stringeva la testa senza
dargli dolore ma che gli frammentava tutti i pensieri. Ed attraverso
questa rete di pensieri a maglie sempre più sconnesse,
a mano a mano si andavano insinuando, ritornandogli alla mente,
quelle immagini che, suo malgrado, aveva visto tante volte: quelle
di dopo il fatto. E soprattutto quelle facce bambine la cui sofferenza
non s’era limitata, esaurita in quello che lui chiamava
l’attimo del soldato. No, quelle facce avevano dilazionato
le sofferenze nel tempo, avevano fissato un appuntamento con la
morte in un futuro prossimo; come se quel fatto avesse innescato
allora tante minuscole bombe che poi sarebbero scoppiate col timer,
dopo mesi, dopo anni, addirittura conservandosi lo scoppio da
portare in grembo per i propri figli.
“E già, la morte, - rifletteva ormai esausto d’ogni
resistenza ai suoi pensieri Tibbets che si era riseduto sul divano
con la testa tra le mani - e allora dillo , Cristo, che il nesso
tra quel lontano mattino d’agosto e questa tua notte, finalmente
l’hai trovato. Ed è morte; la morte che questa volta
ti ha preso da vicino, ti ha pizzicato il petto, anzi no, ti ha
pizzicato proprio sul cuore; ma non ha l’odore ed il rumore
familiare della polvere da sparo, questa morte, no, è una
parola dal suono così dolciastro e cosi subdolo e che ti
era fin a pochi mesi fa del tutto indifferente: leucemia si chiama.
E’ lei che in soli sei mesi s’è portato via
William, il tuo unico nipote. E così è stato anche
per tanti di quelli lì, da noi marchiati per sempre. Morire
così, a guerra finita e a gente riappacificata.
Deve chiudersi prematuramente un ciclo della vita mentre se ne
tiene aperto un’altro, più vecchio, anche più
inutile ormai, per arrivare a capire certe cose.”
“E beh , accontentiamoci di questo tardivo e poco pentirsi
- aveva detto ad alta voce dopo decine di minuti di tumultuoso
silenzio - c’è a chi non basta una vita intera.”
Avrebbe voluto piangere, ma se l’ impedì stropicciandosi
le mani sul viso e passandosele più volte in testa tra
i corti capelli da militare. Si era detto che quel dolore di quella
notte, finalmente percepito con un senso di liberazione, anche
se silenzioso, forse poteva bastare. E che era ora di andare a
riprovare a dormire. Rimettendosi a letto accarezzò i capelli
cinerini della moglie e la mano scivolò fino a sfiorarle
il collo. Era tanto che non lo faceva.
Spegnendo la luce si disse che l’indomani mattina avrebbe
telefonato a Tom per sapere se sarebbe venuto anche lui a Tinian.
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