1) Mi buttano su un letto di paglia in due
2) Di sicuro si amavano
3) E per sempre chiederai scusa
4) La tela
5) Analisi in tempo reale
6) Lo sento ancora denso quel boato
7) Quella sola notte del colonnello Tibbets
8) Senso di colpa
9) Uomini sul divano
10) Colpevole di libertà
 
 

 

 

 

"La colpa"

La tela
di Paola Fantaguzzi

Questa tela scura che mi hai gettato addosso! E io non posso vedere. L’acqua è torbida e scura. E fredda. Fredda come il coltello che scorreva sulla mia pelle, fredda come il pavimento su cui premeva il mio viso, fredda come il silenzio di quella notte. Soglia disperata della mente. Non sono niente centomila lire a seduta per dissipare il freddo, non sono niente. Ma perché hai gettato su di me questa tela? La mia bocca è piena di sabbia e io non so più raccontare nemmeno le storie dei libri. Figurati la mia. Che affonda filamenti in un passato così profondo.

Radici che succhiano la linfa delle mie cellule neuronali. Questa storia che non posso raccontare divora ogni memoria. E ogni possibilità di redenzione. Perché io, io volevo solo che tu mi dicessi che non è stata colpa mia. Lo so che a te sembra facile, tu non hai nemmeno capito che il vortice, quello che divora l’idea stessa del tempo, è lì.

E’ nelle parole, le uniche parole che ripeto e a cui non so credere: non è stata colpa mia. E tu non ti accorgi che questa tela scura in cui mi avvolgi è fatta ancora di colpa. La colpa di non poter ricordare. Di questi seni rotondi, di questi occhi chiari. Del fiume ondeggiante dei miei capelli. La colpa, annidata come un cancro, nella mia morbidezza di donna. Da lacerare. Così io cammino lungo la strada vendendo la mia colpa al miglior offerente. E non chiedo nemmeno denaro. Poi vengo qui, a masticare sabbia. E l’aria vischiosa di questa stanza mi trattiene, mi imprigiona. E ogni respiro condanna l’urlo, l’urlo che mi nasce dentro, a farsi morso dentro la gola. E la tua tela mi immobilizza le braccia e le mani.

Qui anche l’aria è scura, così scura che posso vedere le tue parole. Lasciano una scia verdognola, una bava di lumaca che si addensa su questa cortina che mi hai costruito addosso e la rende sempre più pesante. Più stretta. Ineluttabile. Oramai la sento premere addosso anche quando cammino per strada. La bocca mi si riempie di sabbia ogni volta che provo a parlare. E sento l’urlo, l’urlo che non grida, immergersi nel mio ventre. Da lacerare. Non ho più soldi, e ho freddo. Mangio pezzi di vetro. Ma il sangue non lava la colpa. Perché è stata colpa mia. Questa sabbia tra i denti e questa tela che mi comprime sono il tuo giudizio. Posso toccarlo. Non mi perdoni. Non mi perdono. Non posso trovare il riposo del pianto. Strani animali scavano tunnel nel mio cervello. E io li seguo, spostando con le mani pezzi di carne grigia. Tu, là fuori, non hai idea dell’immensità del labirinto. La bestia è irraggiungibile. Queste tenebre non sono assenza di luce ma materia compatta. Mentre fuori, le tue pastoie di tela mi immobilizzano. Continuo a percorrere gallerie venate di sangue alla ricerca di un’immagine nitida. Ho commesso un delitto. E non ne ho memoria.

La legge mi chiamerebbe vittima, ma tu mi dici che nessuna vittima è innocente. Sono stata io a guidare il coltello. Sono stata io a stingere i nodi, io a lacerare, io a colpire. Io a sanguinare. Io dovrò scontare la pena. Ho orrore di questo corpo. Lo stesso orrore che sento nella tua voce. La tela! Sì, sono stata io a guidare il coltello. E il legno del manico ha impresso alle sue mani ferite più profonde di quelle della lama sulla mia pelle. Accetto la colpa.

Questa colpa che il tuo disprezzo mi ha tessuto addosso. Non esistono vittime innocenti. Ancora una volta, ancora una, frugo la mente tentando di afferrare il ricordo preciso delle mie mani. Per vedere se guidavano le sue. O se si paravano tra me e la lama. Solo questo potrebbe darmi pace. La certezza che ho fatto tutto il possibile per salvare la sua innocenza. Ma non ho più denaro. Accetto la colpa, il freddo, la sabbia, il silenzio. Inghiotto l’urlo. Ecco le tue centomila lire, le ultime. I miei clienti, per la strada, pagano con un’altra moneta.