La
tela
di Paola Fantaguzzi
Questa
tela scura che mi hai gettato addosso! E io non posso vedere.
L’acqua è torbida e scura. E fredda. Fredda come
il coltello che scorreva sulla mia pelle, fredda come il pavimento
su cui premeva il mio viso, fredda come il silenzio di quella
notte. Soglia disperata della mente. Non sono niente centomila
lire a seduta per dissipare il freddo, non sono niente. Ma perché
hai gettato su di me questa tela? La mia bocca è piena
di sabbia e io non so più raccontare nemmeno le storie
dei libri. Figurati la mia. Che affonda filamenti in un passato
così profondo.
Radici che succhiano la linfa delle mie cellule neuronali. Questa
storia che non posso raccontare divora ogni memoria. E ogni possibilità
di redenzione. Perché io, io volevo solo che tu mi dicessi
che non è stata colpa mia. Lo so che a te sembra facile,
tu non hai nemmeno capito che il vortice, quello che divora l’idea
stessa del tempo, è lì.
E’ nelle parole, le uniche parole che ripeto e a cui non
so credere: non è stata colpa mia. E tu non ti accorgi
che questa tela scura in cui mi avvolgi è fatta ancora
di colpa. La colpa di non poter ricordare. Di questi seni rotondi,
di questi occhi chiari. Del fiume ondeggiante dei miei capelli.
La colpa, annidata come un cancro, nella mia morbidezza di donna.
Da lacerare. Così io cammino lungo la strada vendendo la
mia colpa al miglior offerente. E non chiedo nemmeno denaro. Poi
vengo qui, a masticare sabbia. E l’aria vischiosa di questa
stanza mi trattiene, mi imprigiona. E ogni respiro condanna l’urlo,
l’urlo che mi nasce dentro, a farsi morso dentro la gola.
E la tua tela mi immobilizza le braccia e le mani.
Qui
anche l’aria è scura, così scura che posso
vedere le tue parole. Lasciano una scia verdognola, una bava di
lumaca che si addensa su questa cortina che mi hai costruito addosso
e la rende sempre più pesante. Più stretta. Ineluttabile.
Oramai la sento premere addosso anche quando cammino per strada.
La bocca mi si riempie di sabbia ogni volta che provo a parlare.
E sento l’urlo, l’urlo che non grida, immergersi nel
mio ventre. Da lacerare. Non ho più soldi, e ho freddo.
Mangio pezzi di vetro. Ma il sangue non lava la colpa. Perché
è stata colpa mia. Questa sabbia tra i denti e questa tela
che mi comprime sono il tuo giudizio. Posso toccarlo. Non mi perdoni.
Non mi perdono. Non posso trovare il riposo del pianto. Strani
animali scavano tunnel nel mio cervello. E io li seguo, spostando
con le mani pezzi di carne grigia. Tu, là fuori, non hai
idea dell’immensità del labirinto. La bestia è
irraggiungibile. Queste tenebre non sono assenza di luce ma materia
compatta. Mentre fuori, le tue pastoie di tela mi immobilizzano.
Continuo a percorrere gallerie venate di sangue alla ricerca di
un’immagine nitida. Ho commesso un delitto. E non ne ho
memoria.
La
legge mi chiamerebbe vittima, ma tu mi dici che nessuna vittima
è innocente. Sono stata io a guidare il coltello. Sono
stata io a stingere i nodi, io a lacerare, io a colpire. Io a
sanguinare. Io dovrò scontare la pena. Ho orrore di questo
corpo. Lo stesso orrore che sento nella tua voce. La tela! Sì,
sono stata io a guidare il coltello. E il legno del manico ha
impresso alle sue mani ferite più profonde di quelle della
lama sulla mia pelle. Accetto la colpa.
Questa colpa che il tuo disprezzo mi ha tessuto addosso. Non esistono
vittime innocenti. Ancora una volta, ancora una, frugo la mente
tentando di afferrare il ricordo preciso delle mie mani. Per vedere
se guidavano le sue. O se si paravano tra me e la lama. Solo questo
potrebbe darmi pace. La certezza che ho fatto tutto il possibile
per salvare la sua innocenza. Ma non ho più denaro. Accetto
la colpa, il freddo, la sabbia, il silenzio. Inghiotto l’urlo.
Ecco le tue centomila lire, le ultime. I miei clienti, per la
strada, pagano con un’altra moneta.