Uomini
sul divano
di Lisa
Era
il 27 marzo e New York sbadigliava alle prime luci dell’alba
sotto una pioggia sottile che odorava ancora di notte. Un’insegna
lampeggiava la scritta “...izza…izza ”, pulsando
come un cuore stanco, un’altra le rispondeva qualcosa in
tailandese con una coreografica esplosione di colori. Sulla Fashion
Avenue il traffico aumentava a poco a poco. Come cellule, le automobili
sembravano sdoppiarsi moltiplicandosi, e presto avrebbero formato
un compatto tessuto in movimento.
Lenny si risvegliò quando il suono di una sirena si amplificò
nella sua testa, rimbalzando da un orecchio all’altro seguendo
un tortuoso e interminabile percorso, e con la sensazione che
qualcuno lo stesse fissando.
Aprì gli occhi lentamente, le palpebre gli sembrarono così
pesanti da pensare che non avesse forza a sufficienza per affrontare
quello sforzo.
Dove si trovava?
La
testa gli roteava, un forte senso di nausea gli stringeva lo stomaco.
Tastò la stoffa ruvida su cui era disteso, mentre un disgustoso
odore di orina e rifiuti gli riempiva le narici.
Si guardò intorno cercando qualcosa che gli fosse familiare,
ma la mente gli rimandò la macabra immagine di Tom che
sbucava lentamente da uno dei cassetti dell’obitorio.
Composto, rigido come una camicia appena stirata e inamidata.
“ Tom!” mormorò.
“ Tom, non è possibile!”
Quella notte, quello che era successo, era stato tutto un sogno?
Ecco, qualche ora prima quella era una persona meravigliosa. Nella
sua mente c’erano tutti i ricordi che aveva voluto conservare,
con amore, perché gli anni non li cancellassero mai. Sì,
gli anni che pensava di avere ancora davanti, e tutti i desideri,
i sogni da realizzare, le gioie che forse sarebbero arrivate inaspettate,
e anche le delusioni da sfidare e superare. Invece probabilmente
erano bastati pochi minuti per liquidare tutto quanto. Sì,
un soffio per cancellare tutto.
Tom era arrivato il mattino precedente. Tom, il caro vecchio Tom,
quante ne avevano combinate insieme! Che gioia aveva provato a
trovarselo davanti.
“Dai entra. Dio, che bello rivederti!” gli aveva detto.
“ Lenny, vecchio mio, sembri un figurino!”
“ Sempre con la voglia di scherzare tu!”
“ Ma no, non sto scherzando, ma guardati! Accidenti Lenny,
sono contento di essere qui.”
“ Questa è casa tua, resta finché ti pare
Tom”
Era trascorso un po’ di tempo da quando si era trasferito
in città. Lui e Tom erano stati amici inseparabili dall’infanzia
fino all’università. Appena laureato lui aveva deciso
di fare il grande salto lasciando Payson e gli era andata bene.
Il lavoro l’aveva trovato subito, anzi in poco tempo stava
guadagnando molto bene.
Viveva in un loft luminoso e ampio ed era stato contento di accogliere
il vecchio amico che gli aveva chiesto ospitalità per qualche
giorno, “almeno fino a quando non avesse trovato qualcosa
per proprio conto” gli aveva detto lui al telefono.
Se lo era trovato di fronte, e avrebbe voluto abbracciarlo forte
come se finalmente avesse ritrovato un fratello. Lui era quello
con cui aveva diviso tutti gli anni più belli, che solo
ad averlo accanto lo riportava a casa. Sì, casa sua, dove
c’era suo padre che usciva ogni mattina fischiettando quel
vecchio motivo e sua madre che lo guardava andare via, e poi alzava
gli occhi al cielo e sorrideva come per dire “ ancora quella
sciocca canzone!” ma si capiva che adorava quello stupido
vecchio. E c’era quel piccolo giardino sul retro dove aveva
imparato ad andare in bicicletta, dove aveva dato il primo bacio,
e poi era corso a raccontarlo a lui, a Tom.
“ Ehi! Tom, che fine ha fatto Karen, ma sì Karen,
quella del liceo, non puoi averla dimenticata?” gli aveva
chiesto inseguendo quel ricordo lontano.
“ Karen? Non so, mi sembra che sia andata nel Nebraska,
che abbia sposato uno di là… sai un montanaro. Mah!
Fra qualche anno avrà tre o quattro figli e venti chili
in più!”
“Ehi,
tu vuoi ascoltarmi?”
Una voce interruppe lo scorrere dei suoi pensieri facendolo sobbalzare,
gli sembrò che quel suono provenisse dal basso, da un buco
che comunicava direttamente con l’inferno.
“ Devo parlare con qualcuno, ti prego, ti prego devi ascoltarmi!”
Lenny era sveglio ormai, completamente cosciente.
“ Dio che puzza!” e lentamente si mise a sedere. Quel
vecchio divano abbandonato fra i rifiuti, pensò, doveva
essere servito a tutti i randagi del quartiere, animali e umani,
a giudicare quanto fosse sudicio e malmesso.
“ Non volevo farlo, ti giuro, devi credermi. Per favore
ascoltami!”
La voce ora aveva anche un corpo, e quel corpo gli era accanto,
seduto su quel maleodorante divano in mezzo all’immondizia.
“Che vuoi? Sei ubriaco? Vai via, non ho niente, niente!”
gli urlò Lenny mentre cercava di rialzarsi. Ma la testa
continuava a girare, e non appena cercò di sollevarsi ricadde
sul divano.
“Dio che sbronza!” disse tenendosi la testa fra le
mani. Spinse con forza le dita sulle tempie come se volesse scacciare
tutto quanto, ma Tom era lì, stampato nella sua mente,
con quella smorfia stupita sulla faccia di chi non ha avuto troppo
tempo a disposizione.
Neanche lui gliene aveva concesso. Dannazione l’aveva lasciato
solo! Come poteva perdonarselo?
Avrebbe dovuto metterlo in guardia su quella città e rimanere
con lui. Ma qui aveva imparato che si doveva essere squali per
andare avanti, non bisognava mollare mai, e se avevi ottenuto
qualcosa ne volevi di più, sempre di più.
Lui e Tom erano finalmente di nuovo insieme e lui l’aveva
subito lasciato solo quando invece avrebbero potuto starsene a
radunare tutte le piccole cose che si erano lasciati indietro,
e avrebbero fumato e riso rumorosamente, e poi quando la notte
avrebbe vestito con tutto il suo fascino ogni angolo della città
gli avrebbe detto come rivolgendosi ad un bambino goloso “
dai usciamo, ti faccio dare il primo morso a questo meraviglioso
frutto proibito! New York!”
“Mi dispiace, devo andare in ufficio. Tu comunque, sarai
stanchissimo.” gli aveva detto.
“ Sì, in realtà sono distrutto.”
“ Lì c’è il divano. Sistema le tue cose
, poi riposati un po’. Ti lascio le chiavi semmai volessi
uscire. Ci vediamo più tardi. Devi raccontarmi tutto.”
Sì, ecco quello che invece gli aveva detto, e non sapeva
che stava lasciandogli nelle mani solo l’ultima manciata
della vita.
Tom
era un ragazzone alto e grosso, dal viso colorito di chi è
cresciuto a bistecche, e che aveva fatto chilometri correndo su
un campo di football. Aveva seguito con lo sguardo l’amico,
poi quando la porta si era richiusa dietro le sue spalle aveva
iniziato a guardarsi intorno.
L’ambiente era unico e l’arredo era scarno ed essenziale,
ma i pochi mobili erano ricercati nel design. Spiccavano nell’ampio
spazio, la moquette verde brillante e l’unica porta che
probabilmente introduceva alla stanza da bagno.
“Non c’è che dire amico, ti sei sistemato proprio
bene!”, si era detto mentre si abbandonava sul divano bianco.
Avrebbe avuto anche lui tutto questo, aveva fantasticato. Lenny
di sicuro l’avrebbe aiutato ad avere la sua porzione di
successo. Quanto l’avevano sognato quel momento! Loro due
insieme, uniti come sempre. Sì, avrebbero ripreso tutto
da dove l’avevano lasciato, gli scherzi, le notti a parlare,
rubandosi la donna fino a quando non avrebbero trovato quella
giusta. Sì, innamorarsi, e sapere che sarebbe bastato solo
guardarsi perché l’altro comprendesse che finalmente
era successo.
“E’ bello essere qui Lenny, sono a casa” pensò
prima di addormentarsi.
Si era svegliato che fuori era già buio. L’ appartamento
era silenzioso. Aveva cercato fra i numerosi cd uno di Miles Davis,
e aveva selezionato il suo brano preferito. Le note di Milestones
erano risuonate calde e magiche nell’aria mentre con calma
si era preparato per uscire.
“New York, ora ci sono anch’io!” aveva urlato.
E la sua voce aveva riempito tutta la grande stanza.
Lenny era rientrato un po’ più tardi del solito quella
sera, Tom non era in casa, e sorridendo si era detto “ dannato
ubriacone non vedevi l’ora, vero?”
Si era addormentato guardando uno stupido programma televisivo
in cui una coppia litigava e un pubblico oscenamente sguaiato
e rumoroso aizzava i due l’uno contro l’altro. Il
telefono che squillava lo svegliò bruscamente e gli servì
qualche attimo prima di riuscire a capire che al di là
del filo qualcuno gli stava dicendo che doveva recarsi alla stazione
di polizia.
“ Non è lui! Non è lui!” si era ripetuto
per tutto il tragitto, ma tutte le sue speranze erano svanite
quando fu accompagnato all’obitorio e dovette riconoscere
che quel corpo era di Tom. Nella tasca interna della giacca gli
avevano trovato il suo numero telefonico, era stato l’unico
indizio per poter dare un nome a quello sconosciuto senza documento.
“Rapina probabilmente. Dobbiamo aspettare l’esito
dell’autopsia” gli aveva detto laconicamente l’
impassibile agente.
Lenny voleva solo andare via da quel posto, che puzzava di morte.
Tom, il suo amico Tom, doveva essere fatto a pezzi, scrutato e
ricucito, no, non avrebbe dovuto lasciarlo da solo in questa giungla!
Desiderò solo cancellare quell’immagine. In quanti
bar era entrato? In tanti, a giudicare le sue condizioni e il
posto dove si era risvegliato.
L’uomo accanto a lui piagnucolava, e continuava sommessamente
a ripetere “non volevo, non volevo.”
Lenny lo guardò, ora non gli sembrò ubriaco, ma
la disperazione gli stravolgeva i lineamenti del viso. Era giovane,
si tormentava le mani giunte come se volesse trovare la preghiera
giusta che potesse liberarlo da quell’ angoscia.
“ Ho ucciso un uomo.” mormorò.
Lenny sollevò lo sguardo distogliendolo da quelle mani
nervose e guardò fisso davanti a lui. In quella notte,
pensò, tutto poteva accadere, anche di ritrovarsi a parlare
in mezzo ai bidoni della spazzatura con uno sconosciuto che gli
diceva di essere un assassino, seduto su un lurido e sgangherato
divano, mentre il suo più grande amico s’irrigidiva
sempre più in un vano frigorifero dell’obitorio.
“ Cosa hai detto?” gli chiese.
“ Non ho mai pensato di potere arrivare a tanto. Tutto è
accaduto come in un sogno. I soldi, quei maledetti soldi mi servivano.
Jack l’italiano non avrebbe aspettato ancora, quei soldi
li rivoleva e con gli interessi, stavolta m’avrebbe fatto
fuori se non pagavo quel debito.
Faceva freddo, la strada cieca si perdeva nella notte, e mi è
apparso davanti.
Era ubriaco e barcollava, era ben vestito, un riccone sicuramente,
ho pensato, sarà un figlio di papà che se la spassa.
La strada era deserta, e lui doveva avere quei soldi.
Quel
poveraccio non se l’aspettava e io mi sono avventato addosso
a lui, non mi aspettavo una reazione, e invece quel cretino aveva
iniziato a menare pugni come se lo facesse di professione.”
Lenny ascoltava la storia in silenzio. Ormai la conosceva bene
quella città e sapeva che nascondeva fra le sue braccia
così fascinose un mondo pieno di miserie, ma fino ad allora
dal suo loft tutto gli era sembrato così distante, e invece
erano bastate solo poche ore per cadere in quella realtà,
una sottile linea aveva separato la sua vita tranquilla dal cadere
nel più orribile degli incubi, e lui l’aveva superata.
“A quel punto la mia disperazione si è trasformata
in rabbia” proseguì lo sconosciuto, “ l’ho
afferrato con tutte le mie forze e l’ho scaraventato con
violenza per terra, battendogli la testa più volte sul
selciato.
Mi sono accorto che era morto solo quando il poverino ha smesso
di urlare. Non ho avuto il coraggio neanche di guardare la sua
faccia, ho cercato il portafoglio e sono scappato, senza voltarmi
sai, come se dietro di me ci fosse un demonio ad inseguirmi.
Correvo, correvo, il respiro mi stringeva la gola e il cuore mi
sembrava che potesse uscirmi dal petto da un momento all’altro,
quando ho pensato di aver corso abbastanza, mi sono fermato.”
“Era morto? Sei sicuro?” Lenny si meravigliò
della sua freddezza, quello era un assassino, perché continuava
ad ascoltarlo, perché non si alzava da quel maledetto divano
e tornava a casa? Invece aspettò la sua risposta. Quell’uomo
voleva solo che qualcuno ascoltasse la sua disperazione, e lui
era abbastanza disperato per farlo.
“Sì, sì, dannazione era morto. Dio, Dio mio
cosa ho fatto!”
I singhiozzi che era riuscito a trattenere fino ad allora, proruppero
in un pianto disperato, ma continuò il suo racconto anche
se le parole gli uscivano con più sforzo e meno comprensibili.
“Ho lanciato lo sguardo al portafoglio e quasi non sapevo
spiegarmi cosa ci facesse fra le mie mani, poi vi ho guardato
dentro. Niente, capisci, niente, un paio di banconote da 10 dollari,
qualche tessera, un indirizzo segnato su un foglietto e un documento.
Era così giovane, forse un pivellino arrivato con i suoi
sogni e una gran voglia di vivere, forse era la sua prima notte
in città, forse se l’era voluta godere tutta, forse…
forse…forse è tutta una merda!” urlò.
La
città ormai iniziava ad animarsi e anche il vicolo non
sembrava più l’ oscura sponda di quel fiume surreale
dove quella notte li aveva fatti incontrare. Qualche passante
lanciava qualche occhiata a quelle due strane figure, poi affrettava
il passo per allontanarsi al più presto da loro.
“Calmati!” disse Lenny” la gente ci guarda!
Cosa pensi di fare?”
“Non lo so!”
Il pianto ora si era trasformato quasi in un lamento. L’uomo
si stringeva le spalle con le braccia, dondolandosi leggermente
avanti e indietro come se si stesse cullando. Sembrava un bimbo
spaventato.
“Sai,
io c’ho provato a far finta di niente. Sono ritornato a
casa. La mia casa. Quando ho aperto la porta e sono entrato mi
è sembrata l’unica cosa che avesse un senso questa
notte. Per un po’ mi sono calmato. Me ne sono stato seduto
al buio sul divano. Che buon odore aveva! La trovo sempre lì
la mia bambina quando rientro di sera. Mi aspetta e i suoi capelli
sanno di shampoo al miele. Mi sono sentito al sicuro lì,
fra quelle quattro mura che avevano il profumo di una vita normale,
che sapevano di cenette familiari, di giocattoli e caramelle alla
fragola. Sì, a mia figlia piacciono così tanto le
caramelle alla fragola! Lei e mia moglie dormivano. Quei respiri
erano così puliti, puri. Non potevo rimanere lì,
non potevo guardarle negli occhi pensando che tutto sarebbe rimasto
immutato. Io non avrei mai pensato di scendere così in
basso. Il gioco è stato la mia rovina ed ora sono precipitato
in un baratro. Ho ucciso un uomo. Non volevo, ma l’ho fatto!”
“Cosa vuoi fare?” gli chiese nuovamente Lenny “
Pensi di costituirti?”
“Sono colpevole. E’ l’unica cosa da fare se
voglio sperare che la mia famiglia mi perdoni, non voglio perderla.
E’ tutto quello che ho , capisci?”
“Dai vieni, il distretto non è lontano, ti accompagno.”
“Grazie amico, ma tu, tu come mai eri qui?”
“Forse per il tuo stesso motivo. Forse non ho colpa, o forse
ne ho e potrò perdonarmi solo col tempo, ma quello che
io ho perduto non potrò mai più riaverlo. Dai andiamo!”
Si avviarono lentamente in silenzio, non pioveva più ma
il cielo era ancora grigio. No, quella mattina il sole non sarebbe
riuscito a bucare quella coltre ancora pesante di pioggia.
Lo sconosciuto prima di salire gli porse la mano. Lenny gliela
strinse e lo guardò, sembrava tranquillo, quasi sereno.
“Come si chiamava?” gli chiese Lenny, quando era già
in cima alla breve scalinata che conduceva al grosso portone scuro
del distretto.
L’uomo senza girarsi farfugliò qualcosa prima di
entrare.
A Lenny sembrò che avesse detto “Tom”, ma forse
si sbagliava.