E
per sempre chiederai scusa
di Gloria "Anathea"
Odio
ogni ritorno. “Il ritorno ti segue, come passi bagnati sul
catrame viscido, e t’aspetta all’angolo per guardarti
svoltare e soprenderti”, dice sempre mia madre. Odio il
ritorno anche adesso, quando un catrame più scivoloso del
solito tende continui tranelli ai tacchi a spillo e sento questi
passi dietro di me, passi ripetitivi e drammaticamente conosciuti.
Passi di ritorno. Passi odiati.
M’affretto prima che tu mi raggiunga, ma una notte uggiosa
mi stringe le spalle nude e lascia preludere a lacrime lente che
mi righeranno la pelle, se te ne andrai. Di nuovo, ascolto quel
ticchettio di suole famigliari, e prego perché tu volti
al prossimo incrocio, o ti ritiri in uno degli squallidi motel
che sto oltrepassando. Invece, i passi mi seguono.
Passi di ritorno. Passi odiati.
E
questa serata è vissuta senza respirare, in uno stato orgasmico
che non lascia pensare, ma solo evitare il pericolo e sussurrare
a me stessa di non cedere. I passi si avvicinano; la pioggia,
che si è fatta battente, scende lungo la schiena sudata.
Quasi corri, ormai ho la certezza che mi stai seguendo e non posso
evitarti, per via di questi tacchi troppo alti. Maledico la decisione
di essere uscita, maledico l’idea di essere andata a ballare,
maledico tutto, maledico anche te, finché non mi fermi,
chiamandomi per nome. Conscia del pericolo, mi volto e ti ritrovo:
non hai vantaggio, sei bagnato almeno quanto me, e tremi forte
in una camicia che si raggrinza attorno al torace. Sospiro per
fingere di non prestare attenzione alla tua presenza, rovisto
nella borsa per cercare la chiave di casa, l’infilo nel
varco fatiscente e sobbalzo. Una mano stringe la mia e mi impedisce
di ruotare la chiave. Riconosco quell’indice storto, rotto
durante una partita di basket, come pure quella fedina sottile.
Adesso che non posso più odiare i passi – non ci
sono più passi -, inizio
ad odiare la prepotenza con cui mi hai stretto la mano, la stessa
prepotenza con cui, poco più di un anno fa, mi chiamavi
“la tua puttana”. Dopo che l’hai urlato contro
il cielo in un plenilunio come questo e hai gridato che nessun’altra
mi avrebbe superata, non mi sono sentita offesa, ho sorriso e
ho ribattuto che da te pretendevo un aumento. Sorridevi anche
tu, poi tornavi sul letto e mi domandavi come avremmo fatto un
domani, con un bambino curioso nella camera affianco. Il pensiero
di un bambino nostro non faceva che eccitarmi, ma subito l’immagine
della cicatrice del cesareo mi raccapricciava. Sapevi che non
avrei mai avuto un parto facile, dopo l’operazione subita,
ma sarebbe stato un prezzo irrisorio da pagare, pur di avere una
creatura nostra, un piccolo Tu che racchiudesse una piccola Io.
Allora era troppo presto: mi accarezzavi i capelli e ripetevi
che sarebbe stato difficile rinunciare ai nostri gemiti e grida
per salvaguardare una piccola anima. Anima che si sarebbe presto
corrotta, esattamente come tu e io… L’importante sarebbe
stato preservarla almeno qualche anno dalla crudele ingiustizia
che mi ha fatto tornare a casa, una sera, con i vestiti stracciati
e lividi sul viso: mi avevi stretta al cuore, piangevi anche tu
per la villania di quel datore di lavoro e minacciavi di ucciderlo.
Nostro figlio non avrebbe vissuto queste angherie, no… Lo
ripetevi…
Torno a fatica al presente. Con le tue parole, dannate parole.
Parole di ritorno. Parole odiate.
“Siamo ridotti a stracci”, mi dici. E sorridi.
“Parla per te”, rispondo. Ma ho quel broncio da bambina
viziata che ti è sempre piaciuto e anche adesso non sai
resistere: noto come nascondi un breve sorriso di approvazione.
Con quel broncio ti facevi accarezzare e mi guardavi mentre la
vestaglia scorreva sulla pelle e si fermava sotto le spalle. Ricordo
una volta: nuda sotto un lenzuolo leggero, arrossivo a sentirti
parlare dei miei seni, di come ti piaceva quando ero io a prendere
l’iniziativa. Allora mi avevi fissata negli occhi: “Sei
strana, sai? Tanti uomini cercano solo una puttana. Io no. Mi
piace questa ingenuità da piccola indifesa, mi piace come
ti getti ai miei piedi e sembri una geisha. Poi arriva questo
tuo sguardo dannato, da bambina costretta in una realtà
che è dura, tremendamente dura. Ma non ne sei vittima,
dimmi se sbaglio: tu cerchi questa nostra camera chiusa, non vuoi
parlare di quello che fai, ma solo farlo”. Poi avevi storto
la bocca in un’espressione sofferente: “Non sei volgare,
piccola, non sei una puttana. Sei la mia puttana. Il che è
diverso e non ti rende una sciocca, ma una donna felice e appagata,
che non finge di essere pudica. Noi non facciamo nulla per soldi:
qualcuno ci chiamerebbe edonisti. Lo siamo, secondo te? Io mi
chiamerei piuttosto un nuovo Dionisio”. E i tuoi occhi allora
sembravano più plumbei del solito. Allora come adesso.
Occhi plumbei.
Occhi di ritorno. Occhi odiati.
“Sai che non volevo parlarti del tempo, né dell’evidenza:
siamo bagnati, piccola” inizi a dirmi ora.
“No, non lo so per niente. Non so più niente di te,
non lo so...”
“Perdonami, almeno stanotte…”
“Perdonami”,
lo dicevi anche mesi dopo quella notte drammatica, la notte che
mi ha obbligata a sottrarmi dalle illusioni e a riscoprire il
vero significato della parola puttana. Qualcosa quella notte mi
ha lasciata fuori dalla tua porta a sbattere i pugni contro il
legno e a gridare, ma stavolta non c’era piacere, solo vergogna
e infamia per un’ingenuità stravolta dai tuoi capricci.
Non m’hai aperto, non l’hai più fatto, e senza
un motivo specifico. Quando mi hai risposto, da un varco impercettibile
della porta hai sibilato che ero stata la tua puttana, tutto qui.
Era così semplice da capire! Eppure per settimane passavo
ancora davanti al tuo palazzo e mi ferivo cercando un’immagine
che mi osservava da una finestra. Allora la parola puttana ha
messo a nudo questa mia indole, schiava delle stesse passioni
che ero convinta di dominare, e ha scalfito l’anima, nonostante
l’avessi persa quella prima notte insieme. Puttana ha iniziato
a descrivere uno stato diverso da quel mondo ristretto che comprendeva
tu ed io soltanto, ha esteso la sua influenza e lentamente ha
generato sguardi inquisitori in tutti coloro che incontravo per
strada. Erano solo ologrammi dei miei timori, in realtà,
ma non riuscivo a cancellare quell’etichetta, attaccata
alle natiche con tutto il tuo disprezzo. Ho pianto, diavolo, se
l’ho fatto! E ho cercato di riscattarmi nel solo modo che
sapevo fare: lavorando. Tre lavori diversi, con solo un paio d’ore
di sonno in cui ogni incubo denunciava la tua immaturità
e la mia fiducia estrema: finivamo sempre uccisi dai vizi, o morivamo
di noia, l’uno senza l’altra. Con quei tre lavori,
finalmente ho iniziato a capire che avevo me stessa, e dovevo
canzonare tutte le aspettative: ero libraia, barista e cubista.
E quando per la prima volta ero salita sul cubo mi sono detta:
“non andrai oltre”. Ho arretrato ad ogni mano allungata,
ad ogni proposta di introdurre un quarto lavoro. Una proposta
che mirava ad una unione frettolosa, non ad una notte intera,
come la tua…
Proposta di ritorno. Proposta odiata.
È una supplica, o almeno suona tale, il tuo “perdonami”.
E il pericolo di perderti è troppo forte in questa notte,
quando persino la luna piena e le stelle sono andate a nascondersi
sotto lenzuola di temporale. Saliamo senza parlare, perché
sono passati due anni, e non c’è nulla da dire, se
non uno scusa che possa azzerare la distanza di questi mesi. Guardo
la mia vicina che mi saluta e lascia l’appartamento con
una scia di colonia. Quello
è stato unico attimo di lieve imbarazzo, ma tu non fai
domande sulla sua presenza.
“Entriamo”, ti dico.
La camera è sempre la stessa, con le solite lenzuola rattoppate
e qualche poster sopra la testiera del letto per nascondere la
muffa e la calcina. Come due predatori lontani, ci curiamo e fissiamo,
a qualche metro l’uno dall’altra.
“Spogliami…” , mi chiedi.
Ne ho voglia, sono mesi che non faccio altro che pensarci, ma
tutte le promesse con cui mi sono consolata? Dove sono finite?
Non mi hai raccontato nulla, non hai addotto scuse che avrebbero
causato lacrime e nessuna riconciliazione. Sei tornato, e haii
ucciso tutto l’odio che avevo, odio di ritorno.
Mi avvicino e decido di spogliarti. Lo faccio lentamente, gustando
l’attesa che ti fa eccitare e ti guardo, finalmente nudo:
“abbiamo una notte da rendere meno squallida”, sussurri
sul mio collo.
“Sei tornato”, mormoro tra me e me.
“Ammazza la colpa che sento, ammazzala, senza pietà”.
Colpa di ritorno. Colpa odiata.
Poi,
con la rapidità propria della nostra unione, restiamo nudi
sul letto e quando mi togli gli slip guardi una lunga cicatrice.
Una cicatrice non più recente, ma ancora rossa. Mi guardi
e io ti guardo, dubbiosa. Tu la percorri con un dito, incerto
sul significato di quel taglio e scuoti la testa, in attesa di
una spiegazione, l’unica possibile, che potresti temere.
E la spiegazione arriva. Una voce:
“Mamma…”
Mi limito a deglutire e resto come una bambola sul letto, nuda,
mentre ti copri con un asciugamano e inizi a piangere. Non riesci
a chiudere l’asciugamano, perché singulti sincopati
ti scuotono. Così, tieni i due lembi con una mano e corri
alla camera accanto, con le aspettative di chi ha capito che la
colpa non sarebbe mai stata ammazzata da una notte d’amore.
Guardi con commozione una culla e nella culla un bambino di un
anno o poco più. Improvvisamente, capisci, vedi quella
piccola anima da preservare dalla corruzione e senti morire tutte
le motivazioni che ci avevano allontanati. E per sempre chiederai
scusa.