Pizza
al pecorino
di
Daniela "Sissotta" Troncacci
La
pizza al pecorino ha il sapore di Alberto, un sapore che ho ancora
in bocca, qualche volta, ora dolce, ora salato, ora amaro; ma
mai sa di rimpianto, perché a quell’età le
storie le vivevo un po’ così, non con superficialità,
ma certamente con maggiore allegria. Erano come un palloncino
colorato, che lo tieni legato alla ringhiera del balcone e speri
non si sgonfi mai, finché un giorno, inaspettatamente,
si slega (chissà da quanti giorni il filo si stava allentando
e nessuno se ne era accorto!) e vola via, lentamente, leggiadro,
nel vento, nel cielo, e lo guardi, con meraviglia allontanarsi,
divenire un puntino azzurro e rosa e lo immagini essere, di notte,
quella stella lì, che veglia su di te.
Ho visto Alberto, qualche giorno fa, è tornato dalla Danimarca
per le vacanze. Non è cambiato molto dall’ultima
volta che ci siamo incontrati, al matrimonio di Cristina. E’
stato strano rivederlo, in carne ed ossa, dopo centinaia di mail
senza volto, ma dall’anima profonda.
L’ho conosciuto per caso, al tempo delle esplorazioni del
Convento dei Cappuccini: io e Cristina lo abbiamo girato in lungo
e in largo, quel Convento, alla ricerca di sotterranei segreti;
avevamo persino preso le misure delle mura, fantasticando cunicoli
interni, stanze nascoste, porte occultate da quadri e tendaggi.
Non avevamo trovato nulla di tutto ciò ma non ci eravamo
arrese perché ancora ci mancava di esplorare la cantina,
avevamo soltanto paura degli scheletri che lì avremmo potuto
trovare. Fu così che la mia amica propose di contattare
Alberto, un grafico pubblicitario che viaggiava con lei tutte
le mattine da pendolare Viterbo- Roma. Alberto non era bello,
ma molto simpatico e, quel che contava maggiormente, aveva il
nostro stesso spirito di avventura. Oh non arrivammo mai ad esplorare
le cantine del Convento, ovviamente chiuse da grossi lucchetti;
tra l’altro i frati avevano preso a tenerci d’occhio,
soprattutto dopo la più memorabile delle nostre imprese.
C’era una porticina celeste bassa e piccina, in fondo al
corridoio dei confessionali, quello che scorreva lateralmente
alla navata della chiesa e conduceva in sacrestia.
- Quella porta sta tanto in basso, secondo me se si apre si va
giù per delle scale segrete…
Ne avevamo studiato posizione, misure, e, guarda caso era proprio
proprio sopra la cantina che non eravamo riuscite ancora a raggiungere.
Come rinunciarci? Così in un pomeriggio tranquillo, dopo
aver passeggiato nel bosco e aver congetturato, in un orario in
cui la chiesa era aperta ma sapevamo i frati tutti affaccendati
nelle loro faccende, ci avvicinammo con circospezione alla porticina
dei desideri e la aprimmo, o meglio, ci provammo. Aveva una maniglia
di metallo opaco, fredda e un po’ dura da girare. La forzammo
per un po’, sentimmo lo scatto, spingemmo con forza la porticina
in avanti vincendone la resistenza e… butubum!!! Dall’altra
parte del muro un pannello di compensato che fungeva da attaccapanni
capitolò a terra. Entrammo di corsa in sagrestia a controllare
il danno e anche il Padre Superiore che al di là era seduto
concentrato sulle sue scartoffie, non poté reprimere una
sana risata.
Frequentavamo quel Convento da anni, animavamo la messa, organizzavamo
incontri di lettura del Vangelo, davamo una mano in cucina, ma
omai la nostra reputazione di curiose oltremisura ci aveva negato
l’accesso ai testi segreti della biblioteca su in soffitta,
e le scale ai piani di sopra e le scorribande sul tetto. A me
non importava più di tanto, in realtà; girovagare
per i portici del convento era diventato noioso; tante cose erano
diventate noiose, da quando avevo conosciuto Alberto.
Alberto era un bigné, tondo e morbido, panciuto e riccio,
e allegro, con le guance rosse e i denti grandi e bianchi, che
puliva con bacchette di bambù. Alberto mi faceva ridere.
Alberto si improvvisava rana che saltava da uno scoglio all’altro,
nei nostri pomeriggi al lago; organizzava picnic nel bosco con
i manicaretti cucinati da lui; mi portava in giro con la 127 scassata
e arrugginita, che mi chiedeva se avevo fatto l’antitetanica
ogni volta che ci salivo su, prima che ci portasse dove voleva
lei, lontano, in luoghi sconosciuti, dove non ero mai stata, io
che non ero mai stata in nessun luogo, nei miei 16 anni da paesana.
Con Alberto c’era sincerità. Quasi sempre.
Alberto aveva il terrore dei ragni, si bloccava e impallidiva
se solo lo sfioravi e temeva gliene camminasse uno sul braccio.
Lo disgustavano le mandorle. Era affascinato da tutto ciò
che fosse Giappone ed era ghiotto di pecorino. Proprio come me.
E sa di pecorino, la bugia più grande che gli dissi.
Era un pomeriggio come un altro, un po’ più annoiato
del solito; il nostro amore stava già scemando verso l’abitudine
che l’avrebbe trasformato. In un parcheggio isolato di un
paese di periferia, mangiavamo pizza al pecorino. Chiacchieravamo
come due comari, spettegolando di quella che aveva lasciato quello
per quell’altro che per lei aveva rinunciato alla carriera
e ora guidava la corriera; e della zia della nipote del macellaio,
che non era di questi né figlia né sorella, che
ne combinava di tutto e di più tanto che il marito aveva
dovuto farla internare; e della figlia della cognata del fratello
che era gobbo pure quello, la famiglia dei gobbò. Parlavamo
di come da grandi si sgobbava per poche migliaia di lire all’ora
e che dovevi sempre dire signor sì anche se non si era
in caserma e di come ero stata fortunata ad aver trovato un lavoro
in un ufficio dove il principale lo sentivo solo per telefono
e quando sbraitava potevo allontanare la cornetta fingendo di
ascoltarlo e facendo le boccacce.
Parlavamo e mangiavamo pizza al pecorino. Con naturalezza, quella
propria di una coppia affiatata, lui si avvicinò, mi alitò
sotto il naso e mi chiese se puzzava di pecorino.
- No no – gli risoposi, allontanandomi di scatto con la
scusa di una fitta alla schiena. Avevo poco più di 18 anni
e già la mattina mi alzavo a fatica, le vertebre bloccate
in una corda unica, una incollata all’altra e voltarmi a
pancia in su richiedeva lunghe manovre.
Finito il mio pezzo di pizza mi pulii le mani e mi avvicinai con
non curanza verso Alberto, gli alitai sul volto e gli chiesi:
- Puzzo di pecorino?
- No no – rispose lui stiracchiandosi, poi accennò
un sorriso, mi guardò con quei due occhi grandi e birichini,
ed esclamò ridendo:
- Puzzamo de pecorino!!!!
E’ così che ricordo quel palloncino legato alla ringhiera,
era rosso e blu punticchiato di giallo e arancio, era allegro
e leggero, era vivace e legato stretto, ma un giorno si è
allentato, e l’ho lasciato andare via, sorridendo, perché
ora è una stella che c’è, comunque, sempre,
nel mio cielo. Ora sa di un po’ di virtuale, il mio rapporto
con Alberto, sa di mail, di gif, file formato jpg; ma mi ha invitato
per una pizza, sarà solo una serata tra vecchi amici, eh
io so già, che entrambe, ordineremo pizza al pecorino.