1) Un amore, grazie, con tanta schiuma ma senza cioccolato
2) Le angiove di Cecè Laima
3) Briscola chiamata
4) Castelli di sabbia
5) Licia
6) I Magnagati
7) Mele verdi
8) Olive in calce
9) Palermo, Palermo
10) Piccola storia inutile, davanti a uno yogurt scaduto
11) Il sapore perfetto
12) Pizza al pecorino
Fuori concorso: Ageusia (o: la memoria dei sapori)

 
 

 

 

 

"Cin Cin Tortellin"

Pizza al pecorino
di Daniela "Sissotta" Troncacci

La pizza al pecorino ha il sapore di Alberto, un sapore che ho ancora in bocca, qualche volta, ora dolce, ora salato, ora amaro; ma mai sa di rimpianto, perché a quell’età le storie le vivevo un po’ così, non con superficialità, ma certamente con maggiore allegria. Erano come un palloncino colorato, che lo tieni legato alla ringhiera del balcone e speri non si sgonfi mai, finché un giorno, inaspettatamente, si slega (chissà da quanti giorni il filo si stava allentando e nessuno se ne era accorto!) e vola via, lentamente, leggiadro, nel vento, nel cielo, e lo guardi, con meraviglia allontanarsi, divenire un puntino azzurro e rosa e lo immagini essere, di notte, quella stella lì, che veglia su di te.
Ho visto Alberto, qualche giorno fa, è tornato dalla Danimarca per le vacanze. Non è cambiato molto dall’ultima volta che ci siamo incontrati, al matrimonio di Cristina. E’ stato strano rivederlo, in carne ed ossa, dopo centinaia di mail senza volto, ma dall’anima profonda.
L’ho conosciuto per caso, al tempo delle esplorazioni del Convento dei Cappuccini: io e Cristina lo abbiamo girato in lungo e in largo, quel Convento, alla ricerca di sotterranei segreti; avevamo persino preso le misure delle mura, fantasticando cunicoli interni, stanze nascoste, porte occultate da quadri e tendaggi. Non avevamo trovato nulla di tutto ciò ma non ci eravamo arrese perché ancora ci mancava di esplorare la cantina, avevamo soltanto paura degli scheletri che lì avremmo potuto trovare. Fu così che la mia amica propose di contattare Alberto, un grafico pubblicitario che viaggiava con lei tutte le mattine da pendolare Viterbo- Roma. Alberto non era bello, ma molto simpatico e, quel che contava maggiormente, aveva il nostro stesso spirito di avventura. Oh non arrivammo mai ad esplorare le cantine del Convento, ovviamente chiuse da grossi lucchetti; tra l’altro i frati avevano preso a tenerci d’occhio, soprattutto dopo la più memorabile delle nostre imprese. C’era una porticina celeste bassa e piccina, in fondo al corridoio dei confessionali, quello che scorreva lateralmente alla navata della chiesa e conduceva in sacrestia.
- Quella porta sta tanto in basso, secondo me se si apre si va giù per delle scale segrete…
Ne avevamo studiato posizione, misure, e, guarda caso era proprio proprio sopra la cantina che non eravamo riuscite ancora a raggiungere. Come rinunciarci? Così in un pomeriggio tranquillo, dopo aver passeggiato nel bosco e aver congetturato, in un orario in cui la chiesa era aperta ma sapevamo i frati tutti affaccendati nelle loro faccende, ci avvicinammo con circospezione alla porticina dei desideri e la aprimmo, o meglio, ci provammo. Aveva una maniglia di metallo opaco, fredda e un po’ dura da girare. La forzammo per un po’, sentimmo lo scatto, spingemmo con forza la porticina in avanti vincendone la resistenza e… butubum!!! Dall’altra parte del muro un pannello di compensato che fungeva da attaccapanni capitolò a terra. Entrammo di corsa in sagrestia a controllare il danno e anche il Padre Superiore che al di là era seduto concentrato sulle sue scartoffie, non poté reprimere una sana risata.
Frequentavamo quel Convento da anni, animavamo la messa, organizzavamo incontri di lettura del Vangelo, davamo una mano in cucina, ma omai la nostra reputazione di curiose oltremisura ci aveva negato l’accesso ai testi segreti della biblioteca su in soffitta, e le scale ai piani di sopra e le scorribande sul tetto. A me non importava più di tanto, in realtà; girovagare per i portici del convento era diventato noioso; tante cose erano diventate noiose, da quando avevo conosciuto Alberto.
Alberto era un bigné, tondo e morbido, panciuto e riccio, e allegro, con le guance rosse e i denti grandi e bianchi, che puliva con bacchette di bambù. Alberto mi faceva ridere. Alberto si improvvisava rana che saltava da uno scoglio all’altro, nei nostri pomeriggi al lago; organizzava picnic nel bosco con i manicaretti cucinati da lui; mi portava in giro con la 127 scassata e arrugginita, che mi chiedeva se avevo fatto l’antitetanica ogni volta che ci salivo su, prima che ci portasse dove voleva lei, lontano, in luoghi sconosciuti, dove non ero mai stata, io che non ero mai stata in nessun luogo, nei miei 16 anni da paesana.
Con Alberto c’era sincerità. Quasi sempre.
Alberto aveva il terrore dei ragni, si bloccava e impallidiva se solo lo sfioravi e temeva gliene camminasse uno sul braccio. Lo disgustavano le mandorle. Era affascinato da tutto ciò che fosse Giappone ed era ghiotto di pecorino. Proprio come me. E sa di pecorino, la bugia più grande che gli dissi.
Era un pomeriggio come un altro, un po’ più annoiato del solito; il nostro amore stava già scemando verso l’abitudine che l’avrebbe trasformato. In un parcheggio isolato di un paese di periferia, mangiavamo pizza al pecorino. Chiacchieravamo come due comari, spettegolando di quella che aveva lasciato quello per quell’altro che per lei aveva rinunciato alla carriera e ora guidava la corriera; e della zia della nipote del macellaio, che non era di questi né figlia né sorella, che ne combinava di tutto e di più tanto che il marito aveva dovuto farla internare; e della figlia della cognata del fratello che era gobbo pure quello, la famiglia dei gobbò. Parlavamo di come da grandi si sgobbava per poche migliaia di lire all’ora e che dovevi sempre dire signor sì anche se non si era in caserma e di come ero stata fortunata ad aver trovato un lavoro in un ufficio dove il principale lo sentivo solo per telefono e quando sbraitava potevo allontanare la cornetta fingendo di ascoltarlo e facendo le boccacce.
Parlavamo e mangiavamo pizza al pecorino. Con naturalezza, quella propria di una coppia affiatata, lui si avvicinò, mi alitò sotto il naso e mi chiese se puzzava di pecorino.
- No no – gli risoposi, allontanandomi di scatto con la scusa di una fitta alla schiena. Avevo poco più di 18 anni e già la mattina mi alzavo a fatica, le vertebre bloccate in una corda unica, una incollata all’altra e voltarmi a pancia in su richiedeva lunghe manovre.
Finito il mio pezzo di pizza mi pulii le mani e mi avvicinai con non curanza verso Alberto, gli alitai sul volto e gli chiesi:
- Puzzo di pecorino?
- No no – rispose lui stiracchiandosi, poi accennò un sorriso, mi guardò con quei due occhi grandi e birichini, ed esclamò ridendo:
- Puzzamo de pecorino!!!!
E’ così che ricordo quel palloncino legato alla ringhiera, era rosso e blu punticchiato di giallo e arancio, era allegro e leggero, era vivace e legato stretto, ma un giorno si è allentato, e l’ho lasciato andare via, sorridendo, perché ora è una stella che c’è, comunque, sempre, nel mio cielo. Ora sa di un po’ di virtuale, il mio rapporto con Alberto, sa di mail, di gif, file formato jpg; ma mi ha invitato per una pizza, sarà solo una serata tra vecchi amici, eh io so già, che entrambe, ordineremo pizza al pecorino.