I
Magnagati
di Bruno Giuliano
Nella
campagna veneta, fine anni ‘50
Nei
primi anni ’50 Gigo era bambino e viveva in una frazioncina
di campagna dove sua madre conduceva un piccolo emporio con annessa
osteria.
Non c’erano limiti di orario e si teneva aperto anche la
domenica, eppure, pur commerciando ogni sorta di articoli, la
famigliola incassava appena per tirare avanti.
Durante quel periodo la popolazione del borgo era ancora totalmente
composta di agricoltori le cui piccole proprietà non giustificavano
gli investimenti necessari per l’indispensabile ammodernamento.
Neppure esistevano i capitali o la mentalità per ricorrere
al credito, poiché indebitarsi era ritenuto un disonore
dagli sparagnini patriarchi locali.
Fu per sottrarre l’unico rampollo a quest’ambiente
privo di prospettive che saggiamente la Giga spedì il figlioletto
in una scuola dove avrebbe imparato un mestiere: tornitore o fresatore,
attività che gli avrebbero permesso di abbandonare la campagna
e di vivere decorosamente in città.
Sempre in questo periodo, i giovani del paesello erano tutti squattrinati
e l’unico loro divertimento consisteva in pantagrueliche
mangiate accompagnate da grandi bevute di vinaccio a bassissimo
costo. Ovviamente anche il cibo doveva costare quasi zero: un
coniglio, una gallina o delle uova si dovevano vendere, o meglio
barattare, sicché le contadine arrivavano al negozio cariche
dei prodotti del loro pollaio per ottenere in cambio zucchero
e caffé e ai loro figli non rimaneva che ripiegare sui
gatti, gratuiti ed abbondanti.
All’osteria
della Giga, primi anni ‘60
Alla
fine della decade, come il resto della provincia, anche la frazioncina
venne beneficiata dall’incipiente “miracolo economico”.
Con l’arrivo in paese dei primi soldi questi ragazzi spostarono
le festicciole dalle loro case all’ambiente meno bigotto
dell’osteria della Giga. Intanto, Gigo aveva terminato la
scuola e compiuto quindici anni, la soglia per partecipare al
rituale banchetto col gatto.
Mamma Giga era una persona sensibile, subiva la questione dei
gatti poiché non poteva esimersi dalla sua funzione di
oste, ma non digeriva che il proprio figliolo partecipasse a quella
barbara tradizione.
Incurante dei pistolotti della madre il ragazzo collaborò
alla preparazione della festa.
La prima fase consistette ovviamente nella cattura di un preda,
possibilmente bella grassa. Partecipare a questa fase garantì
a Gigo che i suoi mici non fossero scelti, poiché i suoi
erano quelli più pasciuti del paese e quei giovinastri
non andavano troppo per il sottile, tanto che l’inverno
precedente gliene avevano rapiti un paio riportandoli scuoiati,
quindi irriconoscibili.
Nessuno é crudele con le bestie come i contadini, infatti,
il metodo era imprigionare il gatto in un sacco e annegarlo in
acqua: l’agonia poteva protrarsi per una ventina di minuti.
Una volta uccisa la vittima si poneva la sua carcassa a frollare
sotto ad un ponte dove rimaneva a bagno nell’acqua corrente
e gelida per almeno 15 giorni per fargli perdere il sapore di
selvatico.
Pochi giorni prima della festa il micio di Gigo sparì.
Era febbraio ed i suoi amici lo tranquillizzarono dicendogli che,
essendo un maschio, quello era certo in giro per si sa bene cosa.
E venne la sera della festa. Per permettere al figlio di mangiare
tranquillamente coi suoi amici, la Giga ingaggiò l’Elvira,
una cameriera abbastanza in età da non più scaldare
il cuore a quei giovinastri e provocare guai. Tutti avrebbero
scommesso che l’ostessa avesse desistito dal distogliere
Gigo dal suo proposito, tutti tranne la vecchia Elvira che la
vide disporre nel vassoio gli scuri pezzi di carne arrostita in
modo oltremodo bizzarro, aggiungendovi inoltre un’inconsueta
decorazione.
Dopo gli gnocchi con i bruscandoli e i bigoli con l’arna,
arrivò la portata principe servita dalla Giga stessa, su
di un gran vassoio con tanto di coperchio. Con fare cerimonioso
l’ostessa si fermò davanti al figlio.
- Me paro giusto ghe te toche el primo toco, visto ghe ti te tenìì
tanto.
Ciò detto la donna sollevò il coperchio e dal piatto
parve balzare fuori una belva nera come la notte.
Coda ritta, zampe distese, schiena arcuata, e la testa... il povero
Gigo sbalzò dalla sedia terrorizzato da quella testa che
spiccava, integra, ancora ricoperta della pelliccia, i baffi dritti,
gli occhi sbarrati e la bocca aperta in una smorfia di dolore
e di odio.
Il ragazzo vomitò nel vassoio ancor prima di riconoscere
il suo micio.
Imperturbabile l’ostessa buttò tutto nella pattumiera
e ordinò all’inserviente di portare in tavola il
baccalà alla vicentina e il capòn a la canevèra
che aveva nascostamente preparato per sostituire il piatto tradizionale.
- D’ora in avanti, qui no se magnaran più gati, ostrega!
In un ristorante di Sciangai, 28 febbraio 2005
- Era suceso che qualca bestia selvatica, una volpe o un cinghial,
avìa rubato la carcasa da soto al ponte e, quei fioi d’en
can dei mi amisi, se eran subito dat da far per rimpiasarla con
me micio, poi, complici mi madre e il progreso, l’avìan
mesa a frolar nel congelator di gelati de nosta ostaria.
- Così lei caro Gigo, non ha mai mangiato carne di gatto.
- Ne alora ne mai, sior Cordaro, ma no mi soltanto, anco j’altri
mei amisi gh’an smeso. Infatti l’ano dopo cusinamo
un par de lepri.
Il mio concessionario cinese ed io ci scambiammo un’occhiata
tra il divertito e il preoccupato, poi io domandai al nostro ospite:
- Interessante storia la sua, ma, tanto per cambiare discorso,
mi dica, signor Gigo, cosa ne pensa di questo immenso paese? Ah,
la prego, mi chiami semplicemente Luco.
- Oh, no me permetaria mai sior Montezumolo! Anche se confeso
che, con tuti sti cognomi che gh’an lor siori, me sarìa
più fasil, Beh, gh’é dirò, per un come
mi, che non ha mai lasato el vicentino e Maranello se non per
far le ferie a Ricion, qui gh’é tuto un mondo novo.
Nonostante le mie preoccupazioni, il cinese non si trattenne da
porre un’ulteriore domanda al nostro ingenuo tecnico:
- E cosa ne dice della cucina locale, signor Gigo?
- Beh, a parte che mi no so che diavolo ghe stà nel piato,
dirìa che sta carne gh’é la più gustosa
che mi abia mai magnato.
Temendo il peggio, con una scusa cambiai di sedia ponendomi tra
il signor Gigo e la porta della cucina, oscurandogliene la vista.
Saggio come noi ci immaginiamo sia un vero cinese, il concesionario
annuì con un impercettibile cenno del capo, proprio mentre
un inserviente usciva per gettare un paio di teste di pechinese
nel bidone dell’immondizia.