1) Un amore, grazie, con tanta schiuma ma senza cioccolato
2) Le angiove di Cecè Laima
3) Briscola chiamata
4) Castelli di sabbia
5) Licia
6) I Magnagati
7) Mele verdi
8) Olive in calce
9) Palermo, Palermo
10) Piccola storia inutile, davanti a uno yogurt scaduto
11) Il sapore perfetto
12) Pizza al pecorino
Fuori concorso: Ageusia (o: la memoria dei sapori)

 
 

 

 

 

"Cin Cin Tortellin"

I Magnagati
di Bruno Giuliano

Nella campagna veneta, fine anni ‘50

Nei primi anni ’50 Gigo era bambino e viveva in una frazioncina di campagna dove sua madre conduceva un piccolo emporio con annessa osteria.
Non c’erano limiti di orario e si teneva aperto anche la domenica, eppure, pur commerciando ogni sorta di articoli, la famigliola incassava appena per tirare avanti.
Durante quel periodo la popolazione del borgo era ancora totalmente composta di agricoltori le cui piccole proprietà non giustificavano gli investimenti necessari per l’indispensabile ammodernamento. Neppure esistevano i capitali o la mentalità per ricorrere al credito, poiché indebitarsi era ritenuto un disonore dagli sparagnini patriarchi locali.
Fu per sottrarre l’unico rampollo a quest’ambiente privo di prospettive che saggiamente la Giga spedì il figlioletto in una scuola dove avrebbe imparato un mestiere: tornitore o fresatore, attività che gli avrebbero permesso di abbandonare la campagna e di vivere decorosamente in città.
Sempre in questo periodo, i giovani del paesello erano tutti squattrinati e l’unico loro divertimento consisteva in pantagrueliche mangiate accompagnate da grandi bevute di vinaccio a bassissimo costo. Ovviamente anche il cibo doveva costare quasi zero: un coniglio, una gallina o delle uova si dovevano vendere, o meglio barattare, sicché le contadine arrivavano al negozio cariche dei prodotti del loro pollaio per ottenere in cambio zucchero e caffé e ai loro figli non rimaneva che ripiegare sui gatti, gratuiti ed abbondanti.

All’osteria della Giga, primi anni ‘60

Alla fine della decade, come il resto della provincia, anche la frazioncina venne beneficiata dall’incipiente “miracolo economico”. Con l’arrivo in paese dei primi soldi questi ragazzi spostarono le festicciole dalle loro case all’ambiente meno bigotto dell’osteria della Giga. Intanto, Gigo aveva terminato la scuola e compiuto quindici anni, la soglia per partecipare al rituale banchetto col gatto.
Mamma Giga era una persona sensibile, subiva la questione dei gatti poiché non poteva esimersi dalla sua funzione di oste, ma non digeriva che il proprio figliolo partecipasse a quella barbara tradizione.
Incurante dei pistolotti della madre il ragazzo collaborò alla preparazione della festa.
La prima fase consistette ovviamente nella cattura di un preda, possibilmente bella grassa. Partecipare a questa fase garantì a Gigo che i suoi mici non fossero scelti, poiché i suoi erano quelli più pasciuti del paese e quei giovinastri non andavano troppo per il sottile, tanto che l’inverno precedente gliene avevano rapiti un paio riportandoli scuoiati, quindi irriconoscibili.
Nessuno é crudele con le bestie come i contadini, infatti, il metodo era imprigionare il gatto in un sacco e annegarlo in acqua: l’agonia poteva protrarsi per una ventina di minuti. Una volta uccisa la vittima si poneva la sua carcassa a frollare sotto ad un ponte dove rimaneva a bagno nell’acqua corrente e gelida per almeno 15 giorni per fargli perdere il sapore di selvatico.
Pochi giorni prima della festa il micio di Gigo sparì. Era febbraio ed i suoi amici lo tranquillizzarono dicendogli che, essendo un maschio, quello era certo in giro per si sa bene cosa.
E venne la sera della festa. Per permettere al figlio di mangiare tranquillamente coi suoi amici, la Giga ingaggiò l’Elvira, una cameriera abbastanza in età da non più scaldare il cuore a quei giovinastri e provocare guai. Tutti avrebbero scommesso che l’ostessa avesse desistito dal distogliere Gigo dal suo proposito, tutti tranne la vecchia Elvira che la vide disporre nel vassoio gli scuri pezzi di carne arrostita in modo oltremodo bizzarro, aggiungendovi inoltre un’inconsueta decorazione.
Dopo gli gnocchi con i bruscandoli e i bigoli con l’arna, arrivò la portata principe servita dalla Giga stessa, su di un gran vassoio con tanto di coperchio. Con fare cerimonioso l’ostessa si fermò davanti al figlio.
- Me paro giusto ghe te toche el primo toco, visto ghe ti te tenìì tanto.
Ciò detto la donna sollevò il coperchio e dal piatto parve balzare fuori una belva nera come la notte.
Coda ritta, zampe distese, schiena arcuata, e la testa... il povero Gigo sbalzò dalla sedia terrorizzato da quella testa che spiccava, integra, ancora ricoperta della pelliccia, i baffi dritti, gli occhi sbarrati e la bocca aperta in una smorfia di dolore e di odio.
Il ragazzo vomitò nel vassoio ancor prima di riconoscere il suo micio.
Imperturbabile l’ostessa buttò tutto nella pattumiera e ordinò all’inserviente di portare in tavola il baccalà alla vicentina e il capòn a la canevèra che aveva nascostamente preparato per sostituire il piatto tradizionale.
- D’ora in avanti, qui no se magnaran più gati, ostrega!


In un ristorante di Sciangai, 28 febbraio 2005


- Era suceso che qualca bestia selvatica, una volpe o un cinghial, avìa rubato la carcasa da soto al ponte e, quei fioi d’en can dei mi amisi, se eran subito dat da far per rimpiasarla con me micio, poi, complici mi madre e il progreso, l’avìan mesa a frolar nel congelator di gelati de nosta ostaria.
- Così lei caro Gigo, non ha mai mangiato carne di gatto.
- Ne alora ne mai, sior Cordaro, ma no mi soltanto, anco j’altri mei amisi gh’an smeso. Infatti l’ano dopo cusinamo un par de lepri.
Il mio concessionario cinese ed io ci scambiammo un’occhiata tra il divertito e il preoccupato, poi io domandai al nostro ospite:
- Interessante storia la sua, ma, tanto per cambiare discorso, mi dica, signor Gigo, cosa ne pensa di questo immenso paese? Ah, la prego, mi chiami semplicemente Luco.
- Oh, no me permetaria mai sior Montezumolo! Anche se confeso che, con tuti sti cognomi che gh’an lor siori, me sarìa più fasil, Beh, gh’é dirò, per un come mi, che non ha mai lasato el vicentino e Maranello se non per far le ferie a Ricion, qui gh’é tuto un mondo novo.
Nonostante le mie preoccupazioni, il cinese non si trattenne da porre un’ulteriore domanda al nostro ingenuo tecnico:
- E cosa ne dice della cucina locale, signor Gigo?
- Beh, a parte che mi no so che diavolo ghe stà nel piato, dirìa che sta carne gh’é la più gustosa che mi abia mai magnato.
Temendo il peggio, con una scusa cambiai di sedia ponendomi tra il signor Gigo e la porta della cucina, oscurandogliene la vista. Saggio come noi ci immaginiamo sia un vero cinese, il concesionario annuì con un impercettibile cenno del capo, proprio mentre un inserviente usciva per gettare un paio di teste di pechinese nel bidone dell’immondizia.