1) Un amore, grazie, con tanta schiuma ma senza cioccolato
2) Le angiove di Cecè Laima
3) Briscola chiamata
4) Castelli di sabbia
5) Licia
6) I Magnagati
7) Mele verdi
8) Olive in calce
9) Palermo, Palermo
10) Piccola storia inutile, davanti a uno yogurt scaduto
11) Il sapore perfetto
12) Pizza al pecorino

 
 

 

 

 

"Cin Cin Tortellin"

Ageusia
(o: della memoria dei sapori)
di Kosta

Erano passati tre giorni dall’operazione e Guglielmo Infanti, con un fare quasi coatto, continuava a toccarsi con ampio gesto della mano la sommità della testa fasciata di tutto punto. Disteso sul letto, lo sguardo vagante lungo il perimetro del soffitto e lungo gli angoli in alto della stanza – la fasciatura al capo, che arrivava alle tempie, gli impediva buona parte della visione laterale e lui si sentiva come un cavallo a cui avevano applicato i paraocchi - era assorto nei suoi pensieri piuttosto inclini al pessimismo. Quando la porta si aprì ed entrò il professor Scandurra con tutto il suo codazzo di assistenti allievi ed infermieri, lui quasi sobbalzò.

- Io la devo ringraziare, Guglielmo - esordì il professore con un sorriso confidenziale e soddisfatto - e rivolgendosi con una girata di testa appena abbozzata alla platea che gli stava di dietro - lei mi ha dato una dritta eccezionale.
Guglielmo Infanti si senti stupefatto ed inorgoglito da quest’uscita del professore.
- Sono stato con i miei amici e colleghi dal Perbelloni, e a nome suo - riprese il professore - ed è stato un mangiare indimenticabile; sì, indimenticabile - asserì con più forza ancora.
E come a riprodurre la sensazione provata la sera prima, allappò la lingua lungo il contorno interno della bocca e, nel tragitto per un attimo la fece spuntare infantilmente dalla chiusa delle labbra.
- Quelle cervellette di vitello giovine scottate in acqua di riso e cipolle e con una grattugiata di porcini sono state l’iperbole della delizia del palato - sentenziò il professore.
- E quel sottile ritorno in bocca del sesamo, come una rifrangenza tra specchi di sapore, l’ha notata, professore?- aggiunse Guglielmo, rizzandosi a mezzobusto e dando ai presenti quasi una sensazione di orgasmo imminente- quel gusto di sesamo l’ha notato?
Il professore restò interdetto e forse contrariato dall’osservazione così psichedelica e così spiazzante di Guglielmo. Disse col fare della testa che sì, ma era no. Lui era rimasto ad un livello minore di degustazione. E quel sapore di sesamo non l’aveva proprio sentito.
E mentre Guglielmo, per un attimo, quasi involontariamente, si era riappropriato del suo ruolo, il professore decise di farla breve e di riappropriarsi a sua volta del suo. E con una certa buona dose di educazione, ma anche di sarcasmo su un giudizio comunque in sospeso, disse:
- Il Perbelloni la saluta affettuosamente - e col viso divenuto ora serissimo - Spera di riaverla un giorno capace di tornare ad apprezzare i sapori della sua cucina.
Guglielmo Infanti di quella risposta un po’ seccata del professor Scandurra che l’aveva operato, che aveva messo mani nella sua testa, assaporò - per così dire - soprattutto tre parole: “Spera...tornare...capace”. E si sentì da queste tre parole del professore, ributtato a calcetti educati nel limbo dei malati. Nel suo ruolo maledettamente attuale, in fondo.

Pensò a quando e come era cominciato il tutto.
Guglielmo Infanti era ( e adesso il suo pessimismo lo spingeva a dire “era stato”) un assaggiatore ufficiale. In pratica, un critico gastronomico affermato e ricercato dai più famosi settimanali, e da tutte le tante riviste specializzate d’Italia. Aveva iniziato quasi trentenne buttando alle ortiche una laurea in filosofia a girare, con la centoventotto blu fregata al padre, tutte le trattorie della zona sua.
Quel tocco di ragazzo magrino belloccio e curioso entrava nei ristoranti della Val Nerina e, dando chiacchiera al proprietario, tra un boccone e l’altro, tra una guardata e l’altra alle cameriere ed al loro portare dei piatti e portarsi loro stesse, e un’altra occhiata al di dentro del locale, ed alla mania esagerata che hanno taluni di renderlo caratteristico e austero a forza di schiaffarci a tutti i costi ninnoli d’antichità -come se la finta antichità, rabberciata chissà come e chissà dove, rendesse più merito al gusto dei piatti - Guglielmo il giovane – dicevo – così tutto guardando,.iniziava a decodificare ed affinare qualche suprema assonanza di gusto palatale, persone e atmosfera.
E alla fine della seduta di degustazione aveva l’obbligo di scrivere un trafiletto di diciotto righe o poco più per la rubrica di settima pagina. Quel trafiletto in settima pagina sull’Umbria Vostra, faceva da coda a tutto il bello che si potesse dire di quei posti di austera mediovalanza, santi doc, verde a strafottere e cucina salamica.
Eppure, quel non so che di stranito e allegorico di Guglielmo che mesceva bene il professionale intuito per i sapori con una certa cultura umanistica ed una grossa abilità con le parole e che gli faceva scrivere che “da una salciccia ben cucinata nasce l’idea dell’uomo antropofagico che nel maiale, specie nei suoi insaccati, rivede e mangia la proiezione del suo sesso...” tutte queste assurdità e frottole scritte in bella vista, per percorsi e occasionalità che non si sanno descrivere, arrivarono a giornali più grossi, che presto incominciarono a contenderselo.
E per lui, ben presto, cambiarono il tipo d’automobili: più luminose, più incavallate di motore e più arroganti. E per lui, a poco a poco, si aprirono con sussiego tutte le meglio tovaglie d’Italia.

Il perché di adesso cominciò in un giorno tiepido di ottobre e senza nessun presagio degno di nota.
Guidava la sua Audi grigio metallizzata per i percorsi scoscesi che costeggiano la macchia garganica da un lato e dall’altro, sporgendosi, vedono il mare.
Giulia, la sua compagna di allora, occasionale ma con qualche chance in più delle ultime altre, gli offerse una caramella alla menta. Lui di solito non guastava il suo apparato giudicante con sostanze grezze o commerciali come una qualsivoglia caramella. Ma quella mattina aveva fatto una colazione molto striminzita e all’una e passa sentiva quel languore allo stomaco che se non si poteva dire fame, poco ci mancava. E regola principe per un assaggiatore di professione era che sul posto di lavoro non si dovesse arrivare mai affamati.
Disse di sì, e mentre lui era impegnato alla guida in un tornate piuttosto difficile, Giulia amorevolmente lo imboccò.
Ora, una caramella alla menta ha un gusto deciso, forte, che a volte straborda addirittura su per le narici. In buona sostanza, ha quel gusto semplice ed inconfondibile che ha solo una caramella alla menta.
Guglielmo, dopo averla fatta saltellare sulla lingua per qualche attimo, istintivamente aprì il finestrino della macchina e la sputò fuori con una faccia che in una smorfia esprimeva il disgusto totale.
- Ma che mi hai dato?
- Perché, cosa c’è? - rispose Giulia che lo guardò esterrefatta.
- Ma è avariata o che?
- Cosa?
- La caramella... d’un amaro...
- Ma come?.. Se ne ho mangiate tre una dietro l’altra...
Guglielmo si girò verso Giulia con uno sguardo tra l’indispettito ed il perplesso:
- E beh... vuol dire che solo quella è uscita fuori bacata.
La cosa al momento finì lì anche perché erano praticamente arrivati a destinazione e Guglielmo doveva concentrarsi rifacendo mente locale per ricordarsi dove imboccare la strada laterale per trovarsi davanti al “San Michele”, la trattoria di mamma Michelina.
C’era venuto una prima volta l’anno passato e quest’anno ci era voluto tornare proprio all’inizio del giro dei ristoratori della Puglia, perché, aldilà della genuinità e del buon estro con cui si cucinavano i piatti di mare della zona, l’atmosfera e l’accoglienza erano state delle più coinvolgenti. Non che lui si lasciasse circuire dal contorno; il piatto principale e su cui esprimere un giudizio era e restava la cucina, con la qualità delle sue materie prime e con l’abilità, ai fornelli, di renderle vive, vitali, officianti, dentro la cripta di lingua e palato, il rito millenario della bontà e del gusto.Ma Guglielmo sul contorno - inteso come qualità del locale, servizio e personale servente – aveva una sua filosofia più o meno condivisa da altri suoi colleghi.
La ristorazione doveva essere innanzi tutto armonia, cioè assenza di note stonate o stridenti.
Sul tuo spartito puoi aver voluto creare un’opera sinfonica oppure una semplice canzonetta, non importa, o meglio, importa per denunciare il tuo intento e classificare la tua categoria ed il pubblico a cui la tua cucina è destinata. Ma poi l’importante è rimanere coerenti alle proprie scelte iniziali. Perché il pubblico di chi, per varie ragioni, non mangia a casa propria è dei più vari e le sue bocche sono state educate volutamente o necessariamente in modo diverso. Non puoi arredarti il locale con mobili stile settecento e lampadari di finto cristallo, magari ingiungere a camerieri, con unghia e articolazioni e movenze da ex metalmeccanico, di ingobbirsi e striminzirsi in semi livree, e poi...
E poi nel tuo menù, il piatto forte ed a grande richiesta, perché indiscutibilmente il più buono, finisce per essere quello di cavati e broccoli, frutto di una consolidata e virtuosa - e spesso tradita - cultura contadina che cucinava col poco per tutti i giorni e che, quando festeggiava qualcosa, solo allora, maneggiava con riverente rispetto carne e pesce di seconda scelta.
Oppure, altro spettacolo indecente, la raffinatezza improvvisata dei “pervenù” che chiamano a servizio cuochi d’oltralpe o , più spesso, istruiscono gli indigeni per poi poter scrivere sul proprio menù, in roboante francese, l’ennesima versione variata della daurade à la crème d’oursin.
Quando lo zoccolo duro, quello che lo ha fatto ingrandire e cambiare di posto - quel bel piccolo locale che si chiamava “Mimmino” e che adesso, per opera di una stolida megalomania provinciale si chiama “Dominique a l’Ile de France” - quello zoccolo duro era costituito da navigati camionisti avvezzi a saper valutare, seduti a tavola, il valore del cibo attraverso una semplice equazione di costo-beneficio.

Del “San Michele” Guglielmo ricordava soprattutto due cose: il matriarcato di mamma Michelina ed il suo polpo affogato. Appena “a latere”, ma comunque assai intrigante, ricordava la rispettosa ma animata discussione e contestazione sulla gestione del locale che le aveva fatto davanti a lui, il figlio Ferdinando.
Entrarono, lui e Giulia, con l’aria curiosa e speculante di avventori qualunque.
A non tutti i ristoranti Guglielmo si palesava come assaggiatore in versione ufficiale. Di solito lo faceva con i ristoranti di cui finiva per diventare vecchio frequentatore. Lì, anche se un anno fa era stata la prima volta, le circostanze e la qualità gliel’avevano quasi imposto.
Ora però, come per una forma di orgoglio, si aspettava che lo riconoscessero per quello che era.
E non ci volle molto.
Era capitato che destinato alla porta, cioè all’accoglienza dei clienti che entrano, ci fosse quel giorno proprio Ferdinando.
Il cameriere che di solito assolveva questo compito - il brizzolato Eugenio, dai regolamentari piedi piatti e valghi, rispettoso ossequioso e appiccicoso, come tutta la dinastia dei veri camerieri - aveva avuto proprio il giorno prima un dolorosissimo attacco di gotta all’alluce del piede destro, quello che di solito muove il primo passo verso i clienti per dire: “benvenuti,quanti posti vi servono?, avete prenotato?”.
- Dottore carissimo - aveva esordito Ferdinando quasi abbracciandoselo con gli occhi appena se l’era visto parare davanti - allora nun v’ sete scurdete de nuie. Non ci avete dimenticato – si corresse dopo aver usato,all’impronta, il dialetto stretto delle sue parti.
Guglielmo sorrise pieno al riconoscimento. Anche il “dottore” gli garbò molto. Meno gli garbò l’immediato spostarsi di tutte le attenzioni di Ferdinando su Giulia. Perché Ferdinando era un ragazzone sanguigno e Giulia era oggettivamente un gran bel tocco di donna.
Sotto un viso esile e di rassicurante tenerezza , sotto, Giulia offriva e lasciava intendere altre cose. Non lo faceva apposta, mai; ma era di quelle donne che senza volerlo, quasi per vezzo o per destino di essere donna a tutto tondo, riescono a farsi guardare pure se indossano con leggera e curata nonchallance una camicetta appena sbottonata sul davanti e un paio di jeans appena fascianti una certa gradevole retrospettiva di dietro.
Guglielmo che ruminava gelosia senza mai ammetterlo, si sentì sollevato quando Ferdinando, sgattaiolando servile con tutta la palestra dei suoi muscoli, disse:
- Intanto accomodatevi - e scelse un posto a due che doveva sembrare il più riservato del locale.
- vado a chiamare mammà

E mamma Michelina arrivò come una regina grassa, carica dei suoi cento e passa chili intrisi degli odori, dei sapori e dei rumori del suo regno che aveva appena lasciato alle sue spalle.
- Dotto’ .... bentornato,. Teneva ai piedi degli infradito schiacciati, quasi mortificati al terreno dal suo peso. E aveva le unghie dei piedi tutte pittate di rosso. Si avvicinò al tavolo di Guglielmo come se lo volesse quasi accarezzare su quei capelli arricciati dietro. Lo avrebbe fatto con le sue dita a salsicciotto ma l’’intimorì un poco lo sguardo perplesso e diffidente di Giulia.
- Il mio polpo affogato me l’hai trattato troppo bene ... su quel libro... come si chiama...
- L’Italia dei sapori
- Ecco ... quello! Che a me l’ha detto Ferdinando... “mamma Michelina l’ha resuscitato quel polpo.”... e non lo so che cosa.altro di buono hai scritto... io non so leggere..sa’... e m’impiccio pure a fare il conto ai signuri clienti.
Guglielmo s’era alzato dal tavolo dalla tovaglia quadrettata di bianco e rosso attorno a cui due guagliuncielli che fungevano da camerieri, elettrizzati da Ferdinando, già moscheggiavano portando ogni sorta di suppellettile utile per desinare. S’era alzato quasi a fare un rustico baciamano a mamma Michelina.
Mamma Michelina si schermì e fece un cenno della testa come per salutare Giulia. Che ricambiò il cenno.
- E allora, che ti faccio?
Guglielmo si risedette e guardò Giulia che aveva iniziato, insofferente, a stropicciare tra le dita il pizzo del tovagliolo. Guardò istintivamente l’orologio. Sentì fame e, di contro, un non so che di astio dentro che gliela guastava. E pensò alla caramella amara che aveva sputato poco prima.
Pensò che non gliene fregava proprio niente del suo ruolo ufficiale di assaggiatore, che era una di quelle volte che aveva voglia proprio di mangiare. Provare a mangiare senza preoccuparsi di esaminare, concertare parole ai sapori, esprimere giudizi. Pensò che ogni tanto gli avrebbe fatto bene lasciarsi scappare mentre stai mangiando, tra un boccone e l’altro, una espressione elementare tipo “ cazzo, quanto è buono” E sentirsi come se stesse mangiando a casa sua.
E allora, a mamma Michelina che aspettava, disse una cosa che un professionista del cibo non dovrebbe dire mai
- Fai tu, a piacer tuo.

Adesso Guglielmo lo ricorda bene che da lì era cominciato il suo supplizio.
Sin dall’antipasto di crudi e cozze gratinate. Sin dal primo assaggio.
Guglielmo per vizio professionale l’ostrica prima la odorava e poi intingeva appena la lingua nell’umor acqueo che la circonda. Per saggiarne la freschezza e la qualità, per capire se l’avevano trattata e ammazzata con qualche artificio mascherante o se era pura acqua di mare quella che si portava in dote dal tragitto che dai fondali marini la volevano adesso su una tavola ed alla mercé di bocca d’uomo.
La punta della lingua di Guglielmo si ritrasse disgustata. Non per il salato, non per l’amaro che pure poteva essere plausibile. Lui aveva sentito un netto sapore di dolce guasto, come di miele andato a male. Istintivamente guardò Giulia per vedere se avesse mangiato anche lei già qualche ostrica.
Tre ostriche erano ancora intatte nel suo piatto. Si ricordò solo allora che a lei le ostriche facevano letteralmente schifo. Lei si stava dando da fare con le cozze gratinate. Ed allora provo anche lui con quelle: d’un acido indicibile.
- Ma cosa stai mangiando?
- Perché?
- Le cozze... un sapore strano...
- Io le trovo ottime... solo un po’ ... – E Giulia si lasciò tempo per succhiarne ed inghiottirne un’altra.
- Un po’...?
- Un po’ troppo rosolate...ecco.
Guglielmo non replicò. Ne prese un’ altra e se la girò su e giù per la lingua.
Adesso quest’altra gli aveva ricordato il sapore ambiguo d’una fragola marcia.
Le altre due che rimanevano le inghiotti come si fa con una medicina, provando a tenerle il meno possibile in bocca. E così fece con tutto il resto dell’antipasto.
Ma il peggio venne dopo, quando personalmente Ferdinando portò loro quattro assaggini di primo e attese impaziente davanti a loro che quattro tagli diversi di pasta restassero prima penzoloni attaccati alle labbra del gran giudicatore e che poi da questi, con un atto di coraggio e dissimulando tutto, anzi, simulando uno stupore di gradimento, venissero inghiottiti .
- E’ buono?
- Speciale... davvero speciale.
Giulia gradiva; inconsuetamente e spudoratamente sembrava gradire tutto. Tanto che Ferdinando tornò per attimi, tra un boccone e l’altro di lei, a farle addosso cattivi pensieri.
Arrivò, alla fine del supplizio, il polpo affogato di mamma Michelina.
“Versione duemilaequattro”, si affrettò a dire Ferdinando.
“ Ci ha messo qualcosa di nuovo lui – disse con sufficienza la mamma indicando con un moto del capo il figlio – ma l’intruglio è sempre il mio.
Quello che di carezzevole, di sopraffinemente appetitoso era stato il polpo affogato del duemilaetre, si tramutò, nella versione duemilaequattro, in una specie di sentenza definitiva per Guglielmo.
Realizzò di aver perso il bene del gusto.
Il suo palato, la sua lingua, straziati da mille sapori contrastanti , estenuati da questi, di fronte al polpo affogato ebbero un blak out completo.
Fece di tutto per non tradirsi, per non fare offesa grave a mamma Michelina; richiamò alla mente i sapori che quel coso nel suo piatto l’anno passato avevano suscitato in lui. A comando, ricordandoli, atteggiò i muscoli del viso al massimo gradimento. Disse cose estasiate, che alla tavola di un esaminando un professore non si sognerebbe mai di dire. Ma quel polpo affogato per lui allora continuava a non sapere proprio di nulla.
Quando si accomiatò, con un atto di estrema dignità, rifiutò alla terza offerta in modo definitivo, quasi urtato, l’amaro della casa.
E mamma Michelina che elefantescamente s’era portata a salutarlo sull’uscio del ristorante mentre si rimettevano in macchina, da quel gesto capì che non tutto era andato per il verso giusto.

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- Ma da quando?
- Ormai sono tre settimane.
Franco, amico d’infanzia di Guglielmo ed ora suo medico curante, abbassò la testa per qualche secondo come a cercare la massima concentrazione, far riaffiorare le reminiscenze più recondite delle sue nozioni mediche e trovare una possibile spiegazione al disturbo di Guglielmo.
Poi la rialzò e guardò ancora una volta Guglielmo in faccia.
- Allora riepiloghiamo: di punto in bianco una mattina hai prima cominciato ad avvertire sapori strani per le cose che mangiavi e poi, ad un certo punto, hai cominciato a non avvertire nessun sapore più, vero?
- Sì, proprio così – disse Guglielmo.
In pratica tu adesso ti alzi la mattina ed il caffè sa d’acqua, il latte sa d’acqua, la brioche con la crema sa di ... ma di che sa una brioche con la crema quando... quando tu non ...
- ...assapori più niente. E lo so... Fra’ è una sensazione tremenda ... poi per me ... proprio a me...
è come se ti svegliassi un giorno ed aprendo gli occhi ti accorgessi che le cose hanno perso il colore, che tu sei capace, da quel momento in poi ,di vedere tutte le cose della vita solo in bianco e nero. Ora pensa se questo succede ad un pittore...
- Capisco... ma col lavoro come stai facendo?
- Sto mentendo, sto spudoratamente mentendo. Sto simulando tutti i sapori di questo mondo. Sto andando in tutti i posti già saputi a mangiare piatti già abbondantemente assaporati e sto scrivendo, cambiando le parole, cose già scritte. Ma ormai non ce la faccio più, mi vergogno; ho bisogno di riposo, di tranquillità, di capire che cavolo mi sta succedendo; e tu, Franco, mi devi aiutare.
Guglielmo in tre settimane di quella condizione di menomato era cambiato di viso e di corpo. Paradossalmente, anche se, quasi per reazione - o per provare e riprovare, come se si aspettasse da un momento all’altro la fine del suo maleficio- anche se aveva, in quelle tre settimane, ingurgitato più cibo che mai, era vistosamente dimagrito. Ma soprattutto, erano la sua sicurezza, la sua brillantezza, quella sensazione che dava a tutti di saper vivere, che erano venute meno.
- Certo, certo - riprese Franco – stai tranquillo, faremo tutto quello che c’è da fare. Ed intanto si era alzato dalla sua poltrona e, dalla libreria alle sue spalle, aveva estratto un volume e, risiedutosi, l’aveva cominciato a sfogliare freneticamente. E mentre sfogliava andava masticando tra le labbra una parola : “ageusia,... ageusia...ageusia.
- Ecco! - e lesse, sussurrandole, come in una litania da dover tenere a mente, una serie di cose.
- Ascolta un po’ facciamo una prova. Io adesso ti metto in bocca un qualcosa di molto piccolo... toh... una pallottolina di carta. Ora tu lascia stare il sapore, me la devi tenere sulla lingua e mi devi dire solo se la senti fisicamente. Proviamo?
-Ok.
Franco pose sulla punta della lingua di Guglielmo una minuscola pallottolina di carta.
- Allora, la senti?
- Perfettamente
- Adesso spostala nella parte posteriore della lingua. La senti uguale?
- Di meno, molto più ovattata, direi.
-Benissimo - esplose raggiante Franco come sanno fare i medici quando pensano d’aver capito finalmente la malattia e , per un attimo, si scordano del paziente che se la sta portando addosso – adesso la puoi sputare.
- E allora? – disse Gugliemo.
- E allora ci dobbiamo fare una bella Risonanza Magnetica al cervello.
Guglielmo restò per un po’ muto e pensieroso.. Chissà perché, ma un ragazzo di quarant’anni che fino ad allora aveva mangiato sì , sempre e di tutto, ma che aveva il colesterolo e tutti gli altri parametri del benessere fisico, e faceva regolarmente sport, e che aveva avuto un cuore e dei polmoni e tutte le ossa ed i muscoli e, in fin dei conti, tutto il fisico fino ad allora sano, a qualcosa che non andasse nel suo cervello proprio non ci aveva mai pensato.
- Ma perché, cosa può esserci che non funziona nel mio cervello?
- Vedi Guglielmo – riprese Franco tornato amico affettuoso – il nostro cervello è fatto a zone; ogni zona, anche piccola, piccolissima a volte - una manciata di cellule nervose – ognuna presiede ad un suo compito specifico. Ora a te è chiaramente andata in tilt quella piccola zona che ti fa giudicare i sapori. Può essere un semplice e momentaneo corto circuito oppure qualcos’altro. Questo ce lo dirà chiaramente una Risonanza. Anzi, per essere ancora più completi, facciamoci pure un bell’ ettroencefalogramma.
Quelle reiterate espressioni di condivisione, il “facciamoci” e quelle rassicurazioni facendo precedere il nome dell’esame dall’aggettivo discutibilmente estetico di “bel”, per quanto lodevoli nella loro voglia di sdrammatizzare il tutto, non lasciarono affatto tranquillo Guglielmo. Neppure il metterselo sotto braccio accompagnandolo alla porta mentre diceva: “vedrai che tornerà tutto come prima e per festeggiare mi inviterai a cena dove tu sai che si mangia proprio bene”.
- E non dovrò solo guardare deliziarti il “tuo” palato?
- Non dovrai, non dovrai.

Nell’attesa dei responsi degli esami Guglielmo si oscurò in un vortice di pessimismo senza fondo. A chi lo cercava si diede per malato di broncopolmonite; e mangiò, per l’obbligo di nutrirsi, sempre e solo a casa sua .
Cercò su Internet il significato della parola “ageusia” ma, come succede sempre in questi casi, non venne a capo di nessuna notizia definitiva sul suo stato reale. Cosa che lo lasciava libero sempre di sperare poco e disperare molto sulla sua condizione di malato.
L’unico dato ulteriore su un’eventuale progressione del suo male gliel’aveva suggerito proprio quella strana prova di Franco con la pallottolina di carta. E lì che, come un’ossessione, o si cacciava il dito in gola o riproduceva, uguale uguale, l’esperimento di Franco. AD un certo punto, stropicciandosi e tirando in avanti la lingua, quasi a martoriarla con due dita della mano a pinza, ebbe la sensazione di non provare più il dolore che la forza della presa avrebbe dovuto arrecargli.
Pensò ad una paralisi imminente e completa. E, per pura suggestione, se la sentì così estranea, così quasi assente nella sua bocca quella sua lingua che, da allora , la mosse male ed in modo così innaturale che finì per sentirsi , nel parlare, pure balbettare.


- Un tumoretto.
- Cazzo, Fra’! Cosa significa un tumoretto? Benigno? Maligno?
- Benignissimo. In questa zona e così come pare dalla Risonanza, di solito è benignissimo.
Tu gli odori li senti sempre?
- Sì ... ma a parlare a volte ... mi pare come se m’introppico Sentendomi ti sembra che balbetti?
- Assolutamente no. E’ una tua suggestione! Piuttosto, è necessario consultare subito un neurochirurgo.
- Questo vuol dire...
- Che ti devi operare, questo sì. Un neurochirurgo buono, anzi buonissimo. Uno che quando mette le mani nel cervello, non solo taglia e cuce, ma ci ricama su. La vedi questa macchiolina piccola piccola – ed indicò sulla lastra un punto più scuro, grosso meno di una lenticchia, in un contesto di sostanza più grigia – questa è nata nella zona che ti dicevo io, quella dei tuoi sapori, e te l’ha, per così dire, spenta. Ora c’è da fare solo una piccola pulizia...
- Col bisturi...
- E con che sennò... col pennello? Ma stai tranquillo... la microchirurgia ha fatto passi da gigante...
- Ma poi, è sicuro che... sì insomma che ritorni tutto come prima?
- Tutto come prima. Certo, ci vorrà un po’ di tempo, un po’ di esercizio, una specie di terapia di riabilitazione. E’ un po’ come quando ti ingessano una gamba...

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- Allora, professore, quand’è che faremo la prova?- disse Guglielmo forzandosi a riacquistare un minimo di energia positiva.
- Le va bene domani ad ora di pranzo, quando mangiano tutti i cristiani della terra, quelli sani e quelli malati?- rispose il professor Scandurra, che dopo il momento del sesamo era tornato in buona disposizione d’animo verso il suo paziente.
- Va benissimo – fece Guglielmo.
Il professore chiamò dalle retrovie della sua corte, la caposala.
- Signora Elvira, poi le dirò personalmente cosa preparare per pranzo al signor Infanti. Per oggi ancora solo acqua per bocca e tutto il resto per fleboclisi.

Il giorno dopo all’ora stabilita, mentre per le corsie si andava già spandendo quell’odore inconfondibile di rancio ospedaliero, puntualmente arrivò il professore con la caposala.
Mentre quest’ultima reggeva tra le mani il tradizionale vassoio portavivande, Guglielmo rimase perplesso nel vedere il professore che si presentò con una benda srotolata tra le mani ed una molletta per i panni. E mentre stava già per chiedere il perché di quegli strumenti, il professore lo anticipò.
- E beh, con gli occhi e con il naso che funzionano, sarebbe troppo facile; finirebbe per essere aiutato e condizionato da questi due altri sensi. Invece quello che deve lavorare è solo il nostro gusto. Su via si faccia bendare gli occhi e chiudere il naso.
Così fatto, la signora Elvira si avvicinò a Guglielmo e scoperchiò il vassoio dove erano poste in quattro ciotoline diverse, quattro intrugli diversi, due liquidi e due semisolidi. Iniziò dalla prima ad intingere il cucchiaio e ad imboccare Gugliemo.
Questi appena imboccato cominciò a muovere circolarmente la sua lingua nella bocca assecondando questo movimento con una lieve oscillazione verticale della testa, come per aumentare la concentrazione. Era parte del rito che officiava quotidianamente prima.
E lo ricordava perfettamente.
Stette un minuto buono a fare così. Poi...
- Cavolo, professore, cavolo... sento ... ha sapore! – esplose finalmente Guglielmo tutto elettrizzato.
- Questa è una gran buona cosa – incalzò il professore – ma che sapore, che sapore ha, dolce... salato...aspro... In pratica che cos’è?
Guglielmo cercò di concentrarsi ancora di più, di fare una specie di mente locale e di assegnare a quella sensazione gustativa, un nome. Dopo un po’ scosse la testa sconsolato.
- No, professore, non ci riesco, non riesco... E’ un sapore buono, gradevole...ma non so precisam...
- Va bene, va bene. Si beva qualche sorso d’acqua e si pulisca l’apparato che passiamo al secondo sapore.
Fece cenno alla caposala. – Gli dia la seconda vaschetta, quella col liquido.
Guglielmo questo liquido lo assaporò con ancora maggiore attenzione, se mai questo era possibile.
Allappò più volte la lingua alla ricerca d’una chiave di lettura di quel sapore.
- E’ succo di limone!
- No, è vino!
Un attimo lunghissimo di silenzio tra i due gelò la stanza.
- Un po’ asprigno, sì, - riprese stizzito il professore - un bianco senza alcun valore, quello nei cartoncini di carta plastificata che ci passano alla mensa ospedaliera. Ma è vi- no!
E lo disse prima sentenziando e scandendo bene le sillabe, poi, ripetendo la parola “ma è vino” con un tono di voce più basso; un tono quasi percosso dalla delusione.
- Signora Elvira, tolga la benda e la molletta e levi pure via questa roba; non è il caso di continuare; ne sappiamo già abbastanza.
Il professore aveva chinato la testa sentendosi addosso anche lui un piccolo segno, uno scricciolo di sconfitta. E aveva congiunto le mani davanti al volto chiudendo gli occhi. Come per trovare le parole migliori per dire a Guglielmo cosa era successo.
Guglielmo appena sbendato restò muto con gli occhi sbarrati che non si scollavano da quella immagine del professore che, con quel paravento di mani congiunte a taglio sul viso, ancora teneva chiusi i suoi.
Il professore allargò finalmente quelle palme di mani ed aprì gli occhi.
- Veda Guglielmo, noi medici non la diciamo mai tutta per intero.- E si azzardò, senza provare a reggere lo sguardo di lui, a toccargli con una punta delle dita, la spalla. – Voglio dire ... la verità non la diciamo mai tutta con una volta. Ma non per un qualcosa .. o per arroganza o per un qualche preciso disegno...
-Professore, e che cazzo, cosa mi vuole dire con questo suo giro di parole, che l’operazione è andata a puttane? che io resterò come prima ... che...
- No, questo no. Si calmi, Guglielmo...
Adesso senza più pudore di ruolo e di casta Gioacchino Scandurra, il professore che sapeva ricamare sui cervelli, aveva allungato entrambe le braccia ed aveva stretto forte, quasi a scuoterle, le spalle di Guglielmo. Per un attimo questo. Poi lasciò la presa.
- E va bene, mettiamola così – riprese a parlare con fare calmo – diciamo prima il buono della cosa che abbiamo fatto. Lei aveva un tumore cerebrale, piccolo..sì ... piccolo, ma questo non vuol dire.. Gliel’abbiamo tolto. Non è maligno,questo vuol dire che una volta tolto non si riprodurrà mai più - questo, mi dica, non è di per sé una gran cosa ? Me lo dica, per favore.
Guglielmo, che era stato intimorito dalla veemenza delle parole del professore e che aveva capito che almeno gli era stata fatta salva la vita e che, una volta questo assodato, poi era anche diventato curioso di sapere dove quella veemenza voleva andare a parare, rispose con un laconico e pretestuoso “sì”.
- E allora... io quel tumore gliel’ho tolto. E togliendolo lì dove s’era appostato come un parassita che le succhiava i sapori, io ho fatto quello che potevo. Adesso lei i sapori li sente... E' vero che dopo tre settimane di buio assoluto è tornato a sentirli i sapori?
- Si.
- Ecco, signor retrogusto di sesamo... o come lei l‘ha chiamato quel riflettersi di specchi l’altra mattina... Beh... quello non gliel’ho potuto ridare, non l’ho potuto salvare..
In una parola, la memoria dei sapori lei l’ha persa. -
Guglielmo aveva un turbinio di pensieri in testa. Equalizzava ancora con difficoltà tra quelli positivi e quelli negativi
Però, alla fine, cominciò a realizzare.
- Lei mi sta dicendo che io ho riacquistato perfettamente la capacità di assaporare tutti i cibi, che però questi non mi significano nulla se io li voglio confrontare coi sapori gustati ieri o ieri l’altro. E’ vero?
-E’ così , lei ha perso tutti i sapori della sua vita passata. Ora deve riacquistarli a poco a poco, ad uno ad uno, dai più semplici ai più complessi . Lo so cosa significa questo per il suo lavoro... ma vedrà... con la sua spiccata propensione naturale, perché quella rimane...
E così dicendo, quasi per esaurimento di argomenti convincenti, il discorso del professore andò a finire. Diede ancora una vigorosa pacca sulla spalla a Guglielmo ed usci dalla stanza seguito come un’ombra dalla caposala.
Restato solo, Guglielmo provò a rimettere ordine nei suoi pensieri. Ci volle tempo.
Ripensò anche a quella sua laurea in filosofia che non aveva mai messo a frutto.
Con il passare delle ore e l’avvicinarsi dell’ora della cena si accorse con stupore di sentir fame.
E questa sensazione lo spinse ad una considerazione davvero strana.
Si disse che, in fondo, era come se una piccola parte di sé fosse tornata a rinascere. Ecco, aspettando ora la cena si sentì come un neonato alla prima poppata.
E questo pensiero, finalmente, lo fece sorridere.