Licia
di Anna Maria Bonfiglio
Quello
fu l'ultimo Natale che passammo con Licia e i suoi bambini. Ma
fu una festa speciale. Dicembre aveva rinnegato tutto ciò
che gli apparteneva per diritto e tradizione: il freddo, il vento
di maestrale che gonfiava il mare, la neve sulle cime dei monti
che circondavano la città. L'aria era tiepida, il sole
del pomeriggio si attardava all'orizzonte e rifletteva i suoi
tenui barbagli sui vetri delle finestre socchiuse. Fra i rami
degli alberi del viale Libertà erano nascoste piccole lampade
che al tramonto si accendevano di luce d'oro; sulla spianata davanti
al teatro Garibaldi stelline d'argento brillavano nel buio della
sera. Sentivamo l'aria di festa scivolarci fra le dita, avvolgerci
nel tepore rassicurante delle cose che si ripetono: la scelta
dei doni, la ricerca degli addobbi natalizi, la selezione dei
cibi da adagiare sulla rossa tovaglia che avrebbe ricoperto la
tavola da pranzo. Tutto questo ci regalava il placido piacere
di crogiolarci nell'attesa.
Licia preparava i dolci che avrebbero chiuso in bellezza il pranzo
di Natale: mustaccioli col vino cotto, buccellati ripieni di pasta
di fichi e cosparsi di confetti colorati, pignoccata col miele,
minni di vergini, la cassata di ricotta e pasta reale e perfino
la cubaita. Le sue mani grassocce, dalle dita segnate da fregi
di scottature e tagli, lavoravano rapide ed esperte: impastavano
farina, trituravano mandorle, friggevano, mantecavano, e intanto
lei parlava, come se quegli arti non fossero stati comandati dal
suo cervello. "Il segreto per una buona cubaita- diceva-
sta nello stendere la pasta, ottenuta dalla cottura dei semi di
sesamo e delle mandorle, sul marmo dove è stato spremuto
abbondante succo di limone" L' aveva imparato da sua nonna,
nella casa di campagna dove si riuniva tutta la famiglia per le
feste natalizie. "Era tutto così bello allora- aveva
sospirato -Mi sembra siano passati secoli da quando stavamo tutti
assieme, nonni, zii, cugini…"
Nel dirlo i suoi occhi avevano avuto come uno spegnimento e aveva
subito cambiato discorso. "Dai, passami il miele, Flora-
aveva detto a mia moglie che la guardava sperando di imparare
a preparare quelle leccornie anche lei. Io assistevo, inerte ma
disponibile a sbrigare qualche piccola commissione esterna nel
caso fosse mancato qualcosa -Devo versarlo sulla pignoccata mentre
è ancora calda" Marco e Sara le si erano stretti addosso,
quasi a volerla proteggere dalle domande indiscrete che avremmo
potuto rivolgerle e che non le avremmo mai rivolto. Sapevamo quello
che c'era da sapere.
Licia
era arrivata la mattina di un lunedì di Pasqua. I suoi
pochi mobili erano stipati in un camioncino e venivano trasportati
a braccia, uno alla volta, fino al suo appartamento, situato a
fianco al nostro. Il tramestio ci aveva incuriosito e Flora aveva
aperto la porta di casa e messo fuori la testa. Due ragazzini
stavano attaccati alla ringhiera delle scale, lo sguardo spaurito,
le mani allacciate quasi a volere palesare il legame che li univa.
Flora si era avvicinata a loro e aveva chiesto se avevano bisogno
di qualcosa. Subito una donna vestita di nero, con una grossa
treccia sulle spalle, si era parata davanti ai due ragazzi, come
temendo che qualcuno o qualcosa potesse fargli del male. "Grazie,
non abbiamo bisogno di niente" aveva detto. Aveva spinto
i figli dentro casa ed era rimasta sulle scale ad aspettare che
gli uomini di fatica finissero di portarle su i mobili.
Ma
due giorni dopo aveva bussato alla nostra porta. Ad occhi bassi,
come vergognandosi per quello che stava per chiedere, aveva detto
che Sara, sua figlia, si era tagliata un dito, stava perdendo
molto sangue e pensava che avesse bisogno di punti di sutura,
ma era sola e non sapeva come fare. Sara stava sul pianerottolo,
la mano avvolta in una salvietta di spugna già abbondantemente
intrisa di sangue, lo sguardo impaurito chiedeva aiuto in un silenzio
caparbio. Flora non ci aveva pensato un attimo a condurle al pronto
soccorso. La gratitudine di Licia si era convertita presto in
un'amicizia carica d' affetto.
Ogni
mattina, quando passavo davanti alla guardiola, Don Paolino, nel
salutarmi, indugiava con lo sguardo nella mia direzione come se
volesse dirmi qualcosa, ma ogni volta una sorta di incomprensibile
imbarazzo lo frenava.
"Allora, Don Paolino- avevo detto un giorno, incuriosito
dal suo atteggiamento -si può sapere cosa volete dirmi?
Ogni mattina mi sembrate un questuante che ha vergogna di chiedere
l'elemosina"
"Sì, è vero, vi volevo parlare ma mi facevo
scrupolo"
"Via, ditemi cosa vi passa per la testa. Ci sono dei quattrini
da tirare fuori?"
"No, no, niente di tutto questo"
Era uscito dalla guardiola e mi si era accostato con fare circospetto.
"Sapete della signora Licia?" Mi aveva chiesto a bassa
voce.
"Cosa dovremmo sapere?"
"Vi siete accorti che non ha marito"
"Sì, è vedova"
"E sapete come è morto il marito?"
"No, certo che no, perché dovremmo saperlo?"
Don Paolino aveva abbassato ulteriormente la voce: "Il marito
glielo ha ammazzato la mafia"
Mi ero mostrato indifferente. "Sono cose che non ci riguardano"
avevo detto.
Ma lui ormai aveva superato lo stallo della sua inibizione. "Suo
padre è un pentito, fa il collaboratore di giustizia e
la mafia si è vendicata ammazzando il marito della figlia"
Il mio silenzio non lo aveva scoraggiato. "Questo è
un palazzo di gente per bene- aveva continuato -perché
se n'è venuta ad abitare qui?"
"E perché no? Che colpa hanno la signora e i suoi
figli per ciò che è accaduto? Buona giornata, Don
Paolino"
Le mie parole l'avevano zittito. "Buona giornata a lei"
aveva risposto abbassando il capo.
Percorrendo
la piazza del Borgo Vecchio avevo pensato alla mia adolescenza
vissuta fra quelle pietre antiche. Il rione era alle spalle del
porto e in quegli anni era il ritrovo dalla piccola delinquenza:
contrabbando, furtarelli, prostituzione. Lo frequentavano i marinai,
i bottegai dei dintorni, i picciotti che si atteggiavano a bulli.
Ero cresciuto lì, avevo fatto a pugni e giocato con i ragazzi
che un giorno sarebbero diventati i boss della città. Ero
stato spalla a spalla con quelli che in seguito avrebbero superato
il limite della liceità, ma ero riuscito a restarne fuori.
Non so come e perché ero stato in grado di non oltrepassare
quella sottilissima linea di confine che divide il bene e il male.
Un passo falso, un minimo errore, un'offerta che non va rifiutata
e anche io avrei potuto ritrovarmi dall'altra parte.
Con Licia continuammo a frequentarci. Lei aveva allentato la tensione,
era serena, faceva progetti per il futuro di Marco e Sara. Di
altro non si parlò mai.
Quell'ultimo
Natale era trascorso nella letizia. I ragazzi erano stati felici
dei doni ricevuti e noi ci sentivamo appagati dalla loro felicità.
I dolci che aveva preparato Licia erano così tanti che
ancora ne restavano sulla tavola, rimasta apparecchiata per due
giorni. La piramide della pignoccata era una montagnola alla quale
un malanno della natura aveva portato via il cocuzzolo; la cassata
stava sciancata sul vassoio, dei mustaccioli rimanevano ancora
abbondanti avanzi che procuravamo di sbocconcellare fra una partita
a carte e un'altra. Marco e Sara avevano voluto giocare al mercante
in fiera e si erano divertiti nella compravendita delle carte,
avevano riso e si erano scalmanati nel fare a gara a chi offriva
di più. Ci eravamo salutati con un "arrivederci a
domani", come facevamo ogni sera scambiandoci la buonanotte
sul pianerottolo di casa.
La mattina dopo Flora aveva bussato alla porta di Licia, come
ogni mattina, per prendere il solito caffè assieme. Aveva
premuto il campanello più volte ma non aveva ottenuto nessuna
risposta, nessun segno che dall'altra parte ci fosse qualcuno.
Preoccupata per quel silenzio aveva provato a telefonare. Niente.
Ci chiedevamo a chi avremmo potuto rivolgerci per sapere cosa
fosse successo ma per quanti sforzi mentali facessimo non trovavamo
soluzione: non avevamo nessun punto di riferimento. Ci restava
solo di informarci con don Paolino, nel caso avesse visto o sentito
qualcosa che potesse fornire una spiegazione a quell'assenza.
"Io non ho visto né sentito niente -ci aveva detto
quando l'avevamo interpellato- però un'idea ce l'ho"
"Che idea, don Paolino? Se sapete qualcosa ditelo"
"Non so niente, io, però…"
"Però cosa?"
La preoccupazione si andava tramutando in angoscia.
"Secondo me se li portarono ammucciuni -indugiava. Poi, con
le mani a coppa intorno alla bocca, accostandosi al mio orecchio,
aveva detto: "Programma di protezione"
Avevamo allora capito che nessuno avrebbe potuto aiutarci, che
Licia e i suoi ragazzi erano stati inghiottiti da un pozzo oscuro
dal quale non sarebbero emersi mai più. Almeno per noi.
Ci restava il ricordo di quel Natale e il profumo antico di quei
dolci.
Ndr.
Le fotografie che illustrano il racconto sono di Ferdinando Scianna