Il
sapore perfetto
di Federica "Pikkina" Fortunati
Pietro
non poteva staccare gli occhi da quella foto. Non era mai finita
in nessun album, era rimasta in un cassetto custodita tra magliette
profumate di lavanda, come tutte le foto importanti che si tirano
fuori ogni tanto e si tengono in mano tra gli occhi ed il cuore
nella solitudine di una stanza semibuia, con il silenzio che ronza
nella testa.
C’erano dei giorni in cui tornando a casa provava l’irrefrenabile
istinto di aprire quel cassetto e recuperare quella foto, quelle
emozioni…
Non era mai riuscito ad avere un segreto nella vita. Era più
forte di lui raccontare tutto ciò che gli capitava, come
se la sua vita fosse tanto interessante da non poter privare gli
altri della conoscenza di ogni suo dettaglio. Aveva raccontato
e confessato sempre tutto, perfino i tradimenti.
Ma di quella storia, quella che la foto raccontava ancora con
ottima memoria, di quella non ne aveva mai parlato. Non per pudore,
non per discrezione, ma per gelosia. Perché quella storia
non voleva dividerla con nessuno.
Era
stato dieci anni prima. Prima che si sposasse con Paola, prima
ancora che si fidanzassero, che imparasse ad apprezzare la sua
coerenza, la lucidità, la capacità di muoversi con
disinvoltura nella vita come se ne avesse imparato a memoria la
mappa.
Prima che qualcuno gli facesse sentire la necessità di
puntellarsi a terra per evitare di farsi portare via dal vento.
Non era stata un’esperienza negativa a cambiargli la vita,
ma la semplice e incredibile scoperta dei suoi limiti…
L’odore
di cioccolato era tanto intenso da investire l’olfatto non
appena oltrepassata la Porta che dava sul borgo antico di Bolsena.
Il taxi lo aveva lasciato proprio lì, al limite dell’area
pedonale, dopo avergli dato le poche informazioni necessarie per
raggiungere l’albergo. Erano le sei e mezza ed aveva già
un certo appetito. A pranzo, come al solito, aveva mangiato giusto
un’insalata ed ora quell’aroma lo solleticava insistentemente.
Diede un’occhiata alla piazzetta circolare. Cominciava già
a scurire, i lampioncini di ferro battuto si erano accesi e c’era
tutto intorno una luce color arancio che scaldava un po’
l’aria ancora gelida di quel fine marzo. Scrutò i
pochi negozi che si affacciavano sulla piazza: c’erano due
bar che non avevano nulla di attraente. Davano l’idea di
essere quei ritrovi per gli anziani, dove si gioca a carte, spartani,
con il bancone in metallo, i tavolinetti rotondi circondati da
seggiole con la seduta di fili di gomma colorata, e la televisione
sempre accesa a parlare da sola. C’era poi un alimentari
con le cassette di frutta in bella mostra ed una merceria. - Le
mercerie si trovano ormai solo nei paesi – si trovò
a pensare. – Forse ormai nessuno in città compra
più bottoni o chiusure lampo -. Poco più a destra,
dopo una nicchia dove fiori e candele rendevano grazie ad una
madonnina estatica, c’era un piccolo locale con portoncino
e finestrelle stile inglese. Sopra la porta campeggiava un’insegna
bianca, scritta in un elegante corsivo ed illuminata da tre faretti
azzurrati: “l’isola che non c’è”.
Sembrava una sala da tè. L’odore di cioccolato doveva
venire da lì. In fondo mancava ancora molto alla cena e
magari avrebbe potuto saltare il dolce…
Spinse avanti il portoncino ed un campanello tintinnò delicato.
Il locale era molto grazioso. L’ingresso era quadrato ed
alle pareti erano fissati due grandi scaffali di mogano ricolmi
di libri e di piccoli oggetti artigianali in legno e pietra. L’ingresso
dava sulla saletta dove erano stati disposti in ordine sparso
una decina di tavolinetti in ferro battuto con il piano in marmo
attorno ai quali erano disposte, tre per ciascuno, delle graziose
seggioline in ferro nero e paglia. Sul fondo c’era il bancone
in muratura sul fronte del quale erano state dipinte, stilizzate
ed in tenui tinte pastello, figure che potevano essere elfi, o
giù di lì. Alle spalle del bancone erano disposti
vasi di ceramica come quelli che si usavano nelle vecchie farmacie
per tenere le erbe, nelle più svariate tinte pastello.
Una ragazza, seminascosta dietro la cassa, aveva distolto lo sguardo
dal libro che teneva in mano e lo osservava sorridendo.
- Buona sera, desidera?-
- Volevo sapere… servite cioccolato qui? Si sente un forte
odore…
- Il miglior cioccolato che possa trovare, signore. Si sieda dove
vuole e dia un’occhiata alla lista. Arrivo subito-
Pietro scelse un tavolo più o meno nel mezzo, si sedette
e prese a consultare il menù. Lei arrivò dopo qualche
minuto e con un fiammifero accese la graziosa candela al centro
del tavolo. Quando alzo lo sguardo dalla lista, Pietro non poté
fare a meno di osservarla per qualche secondo. Era alta e bruna
ed aveva i capelli raccolti in una treccia. Il viso era particolare,
quasi esotico, con grandi occhi neri, folte sopracciglia ed una
bocca morbida e perfettamente disegnata. Indossava un vestitino
di lana leggera color ruggine che le illuminava il miele della
pelle. Era molto magra, ma non ossuta, solo esile.
- Come le dicevo il mio cioccolato è speciale, se ne accorgerà
da solo tra poco. Ma servo solo cioccolato fondente, senza panna,
che ne rovina la perfezione del sapore e la consistenza. Lo aromatizzo
solo con scorzette di arancia candita, o menta, menta vera, non
sciroppo, o frutti di bosco. Queste cose, insieme alle fragole,
ma non è stagione, esaltano il sapore del cioccolato senza
coprirlo.- Dal tono della voce sembrava davvero che non ci fosse
spazio per alcun dubbio in proposito. A Pietro venne da sorridere.
Lei se ne accorse e sorrise a sua volta, senza imbarazzo, come
se ci fosse abituata.
- Beh, allora immagino che prenderò un cioccolato nero.
E per le variazioni sul tema scelgo l’arancia. Ma, cos’ha
di speciale questo cioccolato?- disse in tono quasi beffardo.
- E cioccolato artigianale e per renderlo denso lo preparo io
con un po’ di farina ed altri piccoli trucchi. Non è
liofilizzato, solo polverizzato. La farò aspettare qualche
minuto di più della cioccolateria Eraclea, ma molti dicono
che ne valga la pena. La differenza, a parte il sapore che è
molto più intenso, è che questo cioccolato non stanca.
Lavoro qui da due anni e quando ne sento l’odore mentre
lo preparo mi viene ancora l’acquolina.-
- Tutta la piazza ha l’acquolina per quest’aroma,
signorina e lei mi sta deliberatamente rovinando la cena. Non
potrò prendere il dolce e penseranno che sono a dieta.
Non mi piace che si pensi che sono a dieta.- Pietro aveva già
rotto gli indugi. Gli bastava poco per prendere confidenza e quella
ragazza gli piaceva davvero molto.
- Oh, non mi faccia sentire in colpa. Forse dovrei portarle un
te verde bancha al gelsomino…- La ragazza faceva dell’ironia.
La cosa gli piaceva.
- Non se ne parla. Si assuma le sue responsabilità e mi
faccia del male con un cioccolato denso e forte!- Lei sorrise
di nuovo e tornò dietro al bancone bisbigliando –
agli ordini!-
Pietro si alzò e andò a curiosare tra gli scaffali.
I libri erano divisi per autore e per ciascun titolo c’era
una copia per la lettura ed altre da acquistare. Né sfoglio
diversi e pensò che tutto sommato avrebbe potuto ingannare
il tempo leggendo, sempre che non fosse riuscito a convincere
la ragazza ad avventurarsi in una conversazione. Ne prese uno
e tornò a sedersi proprio mentre lei si avvicinava con
il vassoio.
- Ecco il suo cioccolato all’arancia e qualche fetta di
pane di girasole con la marmellata. Questo è un gentile
omaggio della ditta per farsi perdonare di averla tentata.- Poi
diede un’occhiata al libro che lui aveva appoggiato sul
tavolo. – Le piace leggere?- sembrava lo stesse valutando.
– Si molto, ma sono incapace di scegliere un libro. I più
belli che ho letto me li hanno regalati. Io mi faccio attirare
dal titolo o dal nome dell’autore…-
- Innamorarsi di un titolo o di un nome… Succede anche a
me. È insito nell’innata incapacità dell’uomo
di scegliere. Troppo difficile rinunciare a qualcosa che è
potenzialmente piacevole. E cosa c’è di più
armonioso del suono delle parole una accanto all’altra,
della capacità di un titolo di essere coinciso, chiaro
e melodioso allo stesso tempo?- Sembrava stesse parlando a se
stessa, con lo stesso sguardo estatico della madonnina nella nicchia.
Poi si rivolse di nuovo a lui- In questo caso, però, credo
che tutto ciò l’abbia portata un po’ fuori
strada, a mio giudizio almeno. ‘L’alchimista’
è un buon libro se ha bisogno di trovare una frase carina
da scrivere sul diario della sua fidanzata. È come una
gita in barca sul lago. Piacevole. Ma se vuole qualcosa che la
scavi dentro come le onde del mare, allora forse potrei consigliarle
qualcos’altro.-
- Non credo comunque che avrei il tempo di leggerlo. Tra poco
devo andare, altrimenti salterò molto più che il
dolce!-
In realtà sarebbe rimasto volentieri ancora a lungo. Quella
ragazza aveva qualcosa di intrigante. Sembrava incredibilmente
convinta di tutto ciò che diceva, come se avesse imparato
a non mettere più in discussione le sue idee pur accettando
che qualcuno potesse non condividerle. La conversazione con lei,
per quel poco che aveva potuto sperimentare, sembrava non essere
banale.
- Come si chiama?- le chiese.
- Maria.- Semplice e non banale anche nel nome.
- Maria, questo posto è suo o ci lavora soltanto? –.
- È mio e con me lavora solo una ragazza per qualche ora
al giorno. In questo periodo non c’è molto da fare
per cui ci sto da sola.-
- Tra una settimana è Pasqua e in un negozio che vende
cioccolata non c’è da fare?- Lei sorrise di nuovo
con quell’aria di chi ne sa di più.
- Questo è un piccolo paese, qui le uova di cioccolata
si comprano con almeno tre settimane di anticipo. Si comprano
a tutti i conoscenti per cui si cerca di non spendere troppo.
Inoltre le mie uova sono particolari. Sono solo di cioccolato
fondente e già questo sembra essere un grosso limite. Inoltre
sono spesse almeno un centimetro, perché a me la cioccolata
piace così, che ad ogni morso mi si riempia la bocca. E
non sono decorate con colori ma solo con altro cioccolato fondente.
Diciamo che tra i miei clienti ci sono solo qualche fidanzato
che vuole mettere l’anello con diamante nell’uovo
di Pasqua e una decina di amanti del cioccolato nero. Ma va bene
così. Il suo nome, mi scusi?
- Mi chiamo Pietro.-
-Ah, Pietro. Come Peter Pan. È lui dipinto sul bancone.
Quella più piccola è campanellino, che trovo bellissima,
così delicata. Lo ha visto no, questo posto è “l’isola
che non c’è” ed infatti non tutti la trovano
e spesso chi la trova non la riconosce.-
Con gli occhi fissava il dipinto sul bancone. Sembrava quasi che
fosse altrove - Parla del suo locale, o di altro?- Si azzardò
a chiedere.
- Parlo di tante cose Peter, ma non so se riusciresti a capire…-
non lo disse con tristezza. Non sembrava affatto capace di essere
triste. Aveva un viso così aperto. Sembrava critica. A
priori. E gli aveva parlato con una confidenza fuori luogo, come
se avesse dimenticato il tenore della precedente conversazione.
Finì di bere il cioccolato e si avvicinò al bancone
per pagare. – Visto che ormai per te sono Peter e ci diamo
del tu, credo che passerò a salutarti ed a bere un cioccolato
anche domani. Sono qui per lavoro, sono un chimico e sto facendo
delle analisi giù al lago. Stasera devo cenare con i miei
colleghi, non posso trattenermi a leggere… ma domani ho
quasi tutto il pomeriggio libero. Questo cioccolato merita un
bis! - Si era lanciato. Voleva assolutamente conoscere meglio
quella donna. Ne era attratto, ma non era solo il suo aspetto.
Sembrava davvero di essere nel suo mondo quando lei parlava, e
di essere sottoposti ad una valutazione sulla base di uno schema
diverso.
Lei chiuse il libro che aveva davanti e glielo porse – prendi
questo, me lo ridarai prima di partire. Ci sono colori e sapori
meravigliosi, che sembrano rimanerti attaccati addosso. E si parla
di semplicità. Ti aspetto domani. Se non passi ci resterò
male – Gli sorrise e lui si sentì avvampare.
Diede un’occhiata al libro: ‘Gabriella garofano e
cannella’ di Jorge Amado. Suonavano magnificamente entrambi,
titolo e nome dell’autore. - Che strana alchimia alle volte
si crea tra le persone- si disse sorridendo e, salutandola, uscì
dal locale.
Non fece altro
che pensare a lei tutta la sera. Fu stranamente silenzioso a cena
e dimenticò che non avrebbe dovuto mangiare il dolce. Appesantito
dal cibo ed eccitato per l’incontro si addormentò
molto tardi e sognò di volare, ma non fu una bella sensazione,
perché pur sentendosi libero e leggero, percepiva la precarietà
del volo, sentiva l’assurdità del vedere le cose
dall’alto ed aspettava il momento in cui sarebbe precipitato…
Quando
arrivò al locale, il pomeriggio successivo erano le cinque.
Maria era sulla porta. Indossava una lunga gonna nera di lana
ed un maglione d’angora rosso vivo sul quale aveva avvolto
un grande scialle da gitana. Si era leggermente truccata e la
sua pelle era dolcemente ambrata mentre negli occhi, appena sottolineati
di grigio fumo, galleggiava una calda luminosità.
- Ti stavo aspettando. Pensavo arrivassi prima.- Non lo stava
rimproverando. Ma tradiva una certa impazienza, ed era contenta,
contenta di vederlo. Era la stessa cosa che lui aveva provato
per tutto il giorno. Una grande impazienza di andarsene dal laboratorio
mobile, una continua voglia di simulare un mal di testa e correre
da lei. Ma non lo aveva fatto, non gli sembrava il caso, c’era
troppo da fare. E comunque non si sarebbe mai sognato di dirglielo.
Lei invece lo aveva appena fatto, senza dare peso alla cosa. –
Mi dispiace, abbiamo avuto dei problemi…ma non avevamo un
appuntamento!- Si giustificò.
- Vero. Ma nella mia testa pensavo che dovesse essere il prima
possibile. Vieni entra.- Si sedettero. Sentirla così vicina
e sapere addirittura che lo aveva aspettato gli provocò
un tale stato di alterazione, un tale desiderio che dovette imporsi
con la volontà all’istinto di baciarla e rimase qualche
secondo con lo sguardo fisso sulle labbra di lei, assaporandola
immobile. – perché mi aspettavi?- Le chiese pervaso
dall’ansia di ricevere una risposta che alimentasse la sua
eccitazione. Lei lo guardò negli occhi, sorrise in quel
suo modo leggero. – Ieri, quando ho capito che eri entrato
seguendo un capriccio improvviso, quando ho visto che posando
lo sguardo qua e là, me compresa, ti sei illuminato di
stupore e invogliato come un bimbo, ho pensato che forse saresti
stato capace di volare fino alla mia isola…-
- Quale isola?- Aveva paura di non capire. Voleva capire ad ogni
costo, ma non era sicuro che sarebbe riuscito a seguirla.
- Due anni fa mi sono trasferita qui da Roma. Lì non riuscivo
più a vivere. Non era per Roma in sè, era che dovevo
fuggire. Ho scelto questo posto perché venendo a Bolsena
qualche anno fa in pieno inverno avevo tanto desiderato sedermi
a bere un cioccolato, ma nessuno lo serviva…- Si fermò
un attimo a guardarlo, indecisa se continuare o meno.
Lui la incoraggiò – e così hai deciso di costruire
qui la tua isola…-
Lei riprese – Vendo cioccolato perché in qualche
modo, casualmente, mi ha ridato la voglia di vivere. Per anni
ho lottato contro il mondo reale finchè ho potuto, ho fatto
il possibile perché ciascuna persona accanto a me, ciascuna
situazione, mi desse materiale per vivere delle mie fantasie.
Ma ogni cosa, ogni persona mi ha delusa, con quella maledetta
idea fissa di riportarmi alla realtà, di chiedermi di essere
concreta. Soffrivo di attacchi di panico perché alle volte
non riconoscevo più nulla. Ho impiegato tre anni di terapia
per capire che nel dualismo tra realtà e fantasia, non
era alla realtà che dovevo avvicinarmi. Continuavo a prendere
dei maledetti psicofarmaci che mi toglievano l’appetito
e la voglia di volare. Un giorno mi sono alzata in volo ed ho
deciso di non scendere più. Di non scendere a compromessi
con la realtà. Quel giorno, per caso, comprai una tavoletta
di cioccolato. Mancavano pochi giorni al Natale, aveva una splendida
confezione dorata, sembrava di fattura artigianale e mi attirò.
Erano dodici cubetti di puro cioccolato nero, spessi un dito.
Ne misi in bocca uno, solo per fare un tentativo. Era duro e il
pezzo che avevo staccato a fatica con i denti mi si attaccò
al palato. Lo sentii sciogliersi lentamente e provai un piacere
intenso, una sensazione di perfezione che mi pervase. Un sapore
perfetto. Perfetta la consistenza. Perfetto il suo colore, così
intatto. Mangiai tutti i cubetti, uno dopo l’altro e mi
sentii felice. Quel cibo mi emozionava, mi faceva venire voglia
di ridere, di cercare. Decisi che avrei mangiato cioccolato. Come
si decide che si vuole fare l’attrice o il missionario,
con la stessa determinazione io decisi di mangiare cioccolato.
Gettai via le mie pillole. Tenevo pezzetti di cioccolata in un
vasetto. Imparai a fuggire gli attacchi di panico mettendone in
bocca uno ogni volta che il mondo mi diventava estraneo e, senza
lottare più, me ne staccavo, inseguendo le mie fantasie,
smettendo di cercare di ritrovare un equilibrio che non avrei
mai trovato. È come essere nati con una disfunzione: io
non riesco a vedere i colori della realtà. Vivevo una vita
in bianco e nero ma nella mia testa ne immaginavo una dai colori
vivaci.-
- Ma come fai a non farti contaminare dalla realtà? Ci
assale ogni giorno, bella o brutta che sia, la incontri per strada,
la vedi alla TV. E come si fa a lavorare senza avere il senso
reale di quello che si fa?- Lo chiese desiderando con tutto se
stesso che lei avesse una risposta anche a questo.
- Non sono in grado di superare l’incontro con la cattiveria
dell’uomo, non sono capace di aiutarlo perché non
sono particolarmente buona neanche io. Non ho mai davvero aiutato
qualcuno. Non ci voglio nemmeno provare perché so che non
è ciò che desidero. Per cui non mi curo del mondo
e lui non si cura di me. Vendo quel poco di cioccolato che mi
fa vivere dignitosamente e mi occupo personalmente di ogni parte
della gestione di questo posto giocando a fare la padrona. Mi
confeziono da sola le mie tavolette di cioccolato, giocando con
le polveri, le creme... -
- E non ti senti sola?- Sembrava assurdo, ma Pietro sapeva che
non era così. Quella donna viveva di qualcosa che sfuggiva
a tutti gli altri.
- Vieni con me- gli disse e lo prese per mano conducendolo sul
retro su per una scala a chiocciola che portava ad un piccolo
appartamento soppalcato.
C’era un saloncino arredato in modo essenziale, con un divano
color canapa ed una libreria di mogano. Al centro della sala c’era
un box, uno di quelli dove si mettono a giocare i bambini. Dentro
c’erano due bellissime bambole, vestite con cura, con abitini
veri da neonato e circondate da giochi.
- Non mi sono mai sentita sola. Però ad un tratto ho sentito
che volevo avere una bambina. Doveva assolutamente essere femmina,
perché tale la vedevo nella mia testa e non sarei stata
capace di amare un maschio allo stesso modo. E non doveva crescere.
Non avevo desiderio di maternità in senso lato, volevo
avere tra le braccia una bambina piccola, bella, dalla pelle morbida,
gli occhi enormi, con le guance tonde ed un ciuccio in bocca.
Averla per me era diventata un’ossessione. Ma ho capito
per tempo che non sarei stata in grado di crescerla. O meglio,
che non ne avevo voglia. Angelica e Beatrice sono le mie bambine.
Non guardarmi così. Sono bambole lo so e non pretendo che
siano vere. Non sono pazza come dicono tutti, da quando la mia
aiutante le ha scoperte e lo ha raccontato in paese. Ma sono belle
ed hanno la pelle morbida e le guance tonde. Posso comprare loro
vestitini e scarpette, posso fare loro il bagno e profumarle.
E guardarle. I bambini sanno che i loro giochi non sono reali,
ma fingono e sono felici. Sono forse pazzi?-
Pietro non sapeva replicare. Questa donna che diceva di essere
completamente fuori dalla realtà era la persona più
lucida che avesse conosciuto nella sua vita. Sembrava aver carpito
un segreto che però non sarebbe potuto servire a nessuno.
Lei aveva deciso lucidamente di essere una cellula impazzita,
un male benigno che si diversifica dal tessuto cui appartiene
senza poterlo modificare. Era stordito, forse impaurito, ed il
suo desiderio per Maria continuava a crescere diventando desiderio
di possesso.
- Perché mi aspettavi?- Pietro ripetè quella domanda
mentre cercava affannosamente di collocarsi in un qualsiasi cantuccio
di quella vita, di trovarsi uno spazio.
Lei non rispose. Gli chiese di aspettarla. Scese e tornò
poco dopo con una tazza di cioccolato fuso. Lo prese ancora per
mano e lo portò nella sua camera. Gli si accosto, guardandolo
dritto negli occhi, chiedendo in silenzio. Lui la baciò,
finalmente, con tutto il desiderio che aveva nell’anima
e nel corpo. Nel letto, nudi e pazzi di gioia si dipinsero addosso,
con le dita, desideri di bollente cioccolato. Poi fecero l’amore,
sussultando ad ogni tocco, senza paura di dare o chiedere, mordendo
la vita come se avesse anche lei quel sapore perfetto, quell’aroma
intenso, senza contaminazioni, volando con il solo limite del
cielo…
….
Quella foto
l’aveva scattata la mattina dopo. Lei aveva i capelli sciolti,
indossava una semplice camicia da notte di flanella ed era bella
da togliere il fiato. Aveva sulle labbra quel suo solito semplice
sorriso, quasi un rimprovero per averle rubato quell’immagine,
un rimprovero indulgente verso chi ha paura di non riuscire a
mantenere vivo un ricordo.
Poco prima di quello scatto, quella mattina, l’aveva circondata
con un braccio, nella penombra della camera. L’aveva sentita
sua, come mai aveva sentito sua una donna prima di allora. Aveva
dentro una smania indicibile di portarla via con se o di mollare
tutto e rimanere con lei. Ma non glielo disse mai. Non se ne sentì
all’altezza.
Lei era eterea. Non era di passaggio su quell’isola, no.
Lei ne era la regina. Era una piccola fata, con un campanellino
che tintinnava per avvertire che stava entrando a far visita alla
tua vita. E tintinnava di nuovo quando in punta di ali se ne volava
via. Tentare di possedere anche un solo altro giorno della sua
vita avrebbe potuto renderlo pazzo.
La strinse forte a se e le chiese di nuovo, per l’ultima
volta – perché mi aspettavi?-
Lei si girò, lo guardò negli occhi e gli rispose,
finalmente – Avevo bisogno di amore sulla mia isola, di
passione. Mi serviva un volto, ma non uno qualsiasi. Mi serviva
il tuo. Mi hai seguita in volo. Sai bene che non puoi resistere
a lungo, ma sei riuscito a volarmi accanto. Sapevo che sarebbe
stato così, lo sapevo dai tuoi occhi. Ora scendi a terra.
Ma non dimenticare di cosa sei stato capace.-
E lui non
lo aveva mai dimenticato. Si era riabituato, con un po’
di fatica, all’assurda logica della vita che spesso non
aveva senso. Aveva cercato di non pensare a come lei avrebbe visto
ogni cosa che gli accadeva, aveva dovuto imparare di nuovo a vedere
il mondo con i suoi occhi per non vederlo troppo in basso. Soltanto
aveva continuato a mangiare cioccolato nero, facendolo sciogliere
lentamente sul palato. Non se ne era mai stancato. E quando si
sentiva pesante, quando la realtà lo assaliva, per strada,
sui giornali, o anche in casa sua, correva a prendere tra le mani
quella foto e, al suono del campanellino, sull’isola ci
volava di nuovo.