Tre
no
di Giorgio Maimone
Prologo:
u no
Fuori,
come sempre, è aria di festa. Palloncini colorati a forma
di cuore si intrecciano a corone luminose a formare una sorta
di tunnel a Natale. Al bancone della reception il vecchio laido
che sta dietro il banco ci prende i documenti come fossero infetti.
Un po’ infetto, infatti, mi sento. Corpo estraneo, respinto.
Fatto fuori. Io, di sicuro, non c’entro. Decide di farci
passare “ma con pagamento in anticipo!” Anche questo
è sesso a pagamento. Appagamento? Ogni tanto. Per un po’.
Forse si può fare. Ma poi? Quale poi? Qui siamo al prima.
Io e la sconosciuta che sale le scale davanti a me ci avviciniamo
alla porta, l’apriamo, osserviamo il talamo e ci viene lo
sconforto. Già romanticismo non ce n’è. Nella
situazione in genere. Ma così …
“Senti, lasciamo perdere?”
“E come si fa? Tanto qua siamo … Meglio approfittarne,
no” e sorride tentando un’espressione lubrica. Sarà
il riflesso delle luci al neon da fuori la finestra, ma non le
viene bene.
“No, sai, sarà che ho mangiato pesante…. Anzi,
potremmo andare a mangiare … o a bere …?”
Il fruscio con cui scivola fuori dalla gonna mi lascia intendere
che non c’è scampo. Un altro coito si avvicina. Lo
pratico con fatica. Con sempre meno orgasmo ed entusiasmo. E nemmeno
i gridolini che provengono da un altrove più lontano, assolutamente
fuori da me, riescono a sollevare il mio interesse. Un compito
da portare alla fine. Eseguito il quale sono libero. Scendo le
scale molto più leggero. Perché indagare su quella
punta d’amaro che mi porto negli angoli della bocca? Non
ho niente da spartire.
“Andiamo a bere qualcosa?”
“No, guarda, credo sia tardi”
“Tardi? Ma sono le 7! E mi sento così bene. Lo facciamo
ancora?”.
Lei. Io non mi sento altrettanto bene. Ma lei ci si mette d’impegno.
Vuol fare vedere che le è piaciuto, che tutto è
andato come da programma, anzi, meglio.
In realtà avrei voglia di andare a dormire. O comunque
di essere lontano da lì. Ma dove sono finite le storie
dei 18 anni? Quando al letto non si arrivava mai. Quando si faceva
una fatica boia solo per avvicinarsi a un divano. E poi comunque
restava da risolvere quella questione dei 30 centimetri di infinito
da valicare?
In
treno
Lo
scossone del treno, più forte del previsto, mi fa cozzare
la testa contro il finestrino. Sono solo. L’albergo è
svanito nel disgusto dei retrobottega della memoria. Mi guardo
nel riflesso sperso nel buio. Mi ritrovo uguale: sperso nel buio
a mia volta. Un buio dentro e fuori, così difficile da
levare, così impossibile da lavare. Di tanto in tanto un
paese con lo spessore di un presepe volante interrompe la mia
fisionomia, gli passa dentro, me la scompone in luci e me la restituisce
intatta un attimo dopo. Mi alzo, cerco un bagno. Occupato. Attendo.
Cosa si fa? Si fischietta in questi casi. Ma il fischio non mi
esce. Ho le labbra secche come chi ha dormito male.
Il treno si ferma.Guardo dal finestrino.
Ø Il bambino
Un bambino, a fianco a sua madre, sfoglia fogli di carta e figurine
colorate, le allinea le une accanto alle altre, le incolla sull’album.
Lui ha Pizzaballa l’introvabile e Anquilletti e Aristide
Guarnieri. Vedo pure lo scudetto della “Fiore”.
Il bambino non alza lo sguardo, si stringe alle figurine, si appoggia
un poco a sua madre. Il ragazzo sfugge. Non arriva. Non può
arrivare o non vuole? Il ragazzo è difficile, si dice.
Pensa? E se pensa che cosa? Il bambino alza lo sguardo. Lui sa.
Antico
no
Riparte
il treno. Trovo posto nel bagno. “Non utilizzare a treno
fermo”, Ma ora il treno ballonzola via. Con acrobatici ondeggiamenti
centro la mira. Cosce di muscoli tonici. Lei li toccava.
Diceva: mi piacciono, fammi sentire ancora. È come se fosse
tutto osso! Non c’è carne!
Ciccia, vorrai dire? Carne ce n’è.
Ma come fai?
Non faccio niente. Sono così.
Mi piace come cammini.
E come cammino?
Come se non te ne fregasse niente.
Ho una camminata cinematografica.
Sì, ma posi?
No, peso. Ci sto attento.
In che senso?
Cerco di capire dove cade il peso, come faccio a muovermi, perché
una serie d’azioni normali si converte in movimento.
Menate.
Sempre. Mi pagassero per quello sarei ricco.
Non stacchi mai?
Mai, nemmeno di notte.
Passiamo una notte insieme?
Su questa
domanda scuoto la testa e caccio via i pensieri. Morbidi colli
mi stanno a guardare dallo schermo fuggevole di un finestrino.
Restituisco l’occhiata con fare cosciente. Mi imprimo negli
occhi nomi a paesi che andrò a ricercare su carte e su
mappe. Una mappa del cuore che strade può fare? Percorre
autostrade o strade sterrate? Una mappa del cuore conosce le strade
bianche che si inerpicano e scendono sul rivo di un fiume? Una
mappa del cuore non porta binari, perché qui c’è
maestria di chi conosce il suo scopo. Un treno, non sbanda, ma
scoda feroce, ti sgroppa di groppa ma non ti abbandona. Un treno
non ferma nemmeno a pisciare. Lo ferma, se vuole, solo l’uomo
che guida. E di tutti gli amori lasciati passando, affacciati
a finestre o a pensiline di stazioni irrisorie, non restano che
immagini frali che il vento in un solo momento scompone e rimuove.
Amo il movimento che mi porta via. Amo anche la stazione in cui
ci si va, di nuovo a fermare.
Ø Il ragazzo di blues
“Cestini da viaggio”. Una pasta ed un pollo. Patate
da forno o da sacchetto di chips. Un quarto di vino, di acqua
o di birra. Me le porge un ragazzo dai lunghi capelli, lo sguardo
stonato di chi ha troppo sognato, lo sguardo remoto di chi non
vede oltre il bordo del binario ma non cede al vizio di lente,
all’occhiale fatale che poi non ti molla. Il giovane ride
dal suo viso lungo, gli manca anche un dente. Mannò, è
solo rotto. Un lungo ragazzo dai tratti di uomo, da amori sognati
ma poco sbocciati, vestito di blu dalla testa ai piedi, con il
cuore in un blues che gli picchia da dietro, sul maglione di Shetland,
sui capelli di lambswool, sui polpastrelli impacciati con cui
conta il mio resto. Un ragazzo di blues non dà mai il resto
esatto.
Rami secchi
Ritorno al
mio posto e mi metto a contare. I paesi che mancano, le valli
da fare, gli incroci sbagliati in cui potrei scantonare, Fatica
di vivere, ma fatica anche a scappare. Per dove e da cose non
sono fatti da dire. Permette signora che abbassi quel vetro? Non
mi entra qui dentro il sole di fuori. Ho bisogno di sciogliere
un cuore di neve, di dare un po’ d’aria a pensieri
d’aceto. Ho bisogno di vento che mi gonfi le gote di parole
remote rimaste nel cuore. Di parole che poi non sono riuscito
mai a dire. Come dice? Fastidio di vento? Sono altre le cose che
danno fastidio! È il tedio di dentro, l’immoto passare,
il non saper trasalire e nemmeno giocare. Oppure essere stanchi
e non aver più voglia di fare. Per questo allora bisogna
partire. Cercare su un treno le occasioni smarrite? Non sente
che ritmo? È un ritmo di treno. Mi sale alla gola come
fosse un buon canto. Come fosse Bob Dylan che elettrifica il basso,
che pesta sui piatti canzoni d’autore. Come fosse Hard rain
che mi pizzica il cuore “And it’s a hard … it’s
a hard … it’s a hard rain-a-gonna-fall”. Glielo
alzo il finestrino, ma cambio pure posto. Alla prossima fermata
c’è un bivio e allora scendo. Non c’è
senso a perdurare quando un bivio sta a invitare, quando un bivio
sta a mostrare nuove occasioni per viaggiare. Lo vede quel ramo?
È secco. Non passerà molto che lo taglieranno. Toglieranno
i treni. Tutti i treni. È un’era di aerei e macchine.
Che restano a fare qui i treni? E se poi è vietato fumare
che viaggiano a fare? Signora le lascio il mio posto e il giornale.
Ne faccia buon uso, io li devo lasciare. Dove vado non ha senso
portarsi il giornale e il mio posto? Il mio posto era caldo ora
è freddo e tra un’ora, un minuto non sarà
nemmeno mio. Tanti posti per culi di tante persone. Ma se una
lo lascia non rimane mai vuoto. Resta un’aura almeno, un’assenza
presente con cui ci si può confrontare ma non a carte giocare.
Discorsi un po’ vuoti? Di aria ripieni? Glieli lascio anche
questi. Cambio treno costì.
Due
no
Scendo
e mi incammino per il marciapiede solitario. La sera prende il
posto del sole di prima. Su piste di decollo atterrano i treni.
Qui si cambia, si viaggia, si va per le terre. Ma qui è
un’isola ferma in mezzo ai binari. Può fare malinconia,
può fare anche spazio per una pausa in mezzo a tanto viaggiare.
Il mio bagaglio è leggero e non sporca. Una sporta da spalla
in cui ci sta il mio mondo. Tante tasche da fuori per le piccole
cose. E la luce di un bar che si accende più in fondo.
È tempo di dare uno sfogo alla sete. La limatura di ferro
che lascia i binari si posa su tutto, tonsille comprese. Entro
nel bar sui binari e c’è odore di tango. Una musica
antica mi suona di dentro, fisarmonica a spira dai seni di donna,
quella donna che sta oltre il banco e mi guarda e il suo seno
sorride per offrire da bere. Questa notte, ancora una, ho trovato
una cuccia. Una camera bianca in cui posare le ossa. E se mi fermo
più a lungo? Mi potrei anche adattare: casellante di giorno
e amante di sera. Scende il buio e mi spegno, soffiando sulla
candela, una notte consunta di carezze consuete. Un orgasmo urlato
in sinergia con un treno, con quell’urlo da fiera con cui
il motore sorpassa le distese di case raccolte a paese.
Il
giovane uomo di valzer
Il mattino del dopo si annuncia di valzer. Mi vesto con calma,
abbottono i bottoni, guardo fuori dai vetri. Uno sguardo al disordine
ansante del letto. Esco ed aspetto il mio treno. Sul binario una
coppia di uomo e di donna, giocan tra loro aspettando il mio treno
o nessun treno o chissà. Forse il loro gioco è aspettare
e qualcosa verrà. Gentile e affettuoso lui le si prodiga
intorno. Scostante e distratta, lei, si perde in pensieri, ma
si ritrovano poi, in fondo a un sorriso, un viale alberato che
porta a domani. Camminano per mano e sembra che abbiano (e che
sempre avranno) cose in comune da fare. Bella lei? Bello Lui?
Belli insieme. Coppia normale, da jeans decorati, astratti dal
tempo, quasi evaporati. C’è un po’ di foschia,
non si vede poi bene, ma forse era sabbia, un bruscolino nell’occhio.
Non vedo poi bene. Ho lo sguardo appannato. Appannato di dentro.
Sono surriscaldato. Per far cessare l’appanno dovrò
abbassare qualche finestra all’interno che non riesco a
trovare. Uso i tergicristallo, quelli li so manovrare. Mi spazzano
via la pioggia di dentro. Come dici? Sono lacrime e si vedono
da fuori? Può darsi … può darsi, non stiamo
guardare! La commozione degli altri, negli altri sta male.
Tre
no
Arriva
il mio treno, anzi un treno sbagliato, ma pure ‘sta corsa
va verso un confine. Salgo lo stesso. Mi dirotto da solo. È
meglio partire e lasciare alle spalle un’altra notte, un
altro letto, un altro strazio. Il vagone è elegante, vietato
fumare, coi posti allineati che pare un po’ un pullman.
Sei sempre seduto alla spalle a qualcuno. C’è sempre
qualcuno che ti guarda di nuca. Ho poco bagaglio, mi muovo leggero.
Mi basta una borsa che appoggio di fianco. Così, per errore,
nessuno si siede. Deve proprio volerlo. Non è dato sbagliarsi.
Deve chiederlo, ma in fondo, i posti son tanti. Non c’è
molta gente il mattino buon ora che prenda un treno diretto al
confine. Ma ecco che sale. La guardo, mi guarda. È il sogno
che tutti hanno fatto da svegli. È bionda, è alta,
è snella e benfatta, si veste da uomo, ma si vede che è
donna. Si siede più avanti, poi si gira a guardare. Mi
vede che leggo, la vedo, lei legge. Un romanzo straniero, scritto
in inglese. Si gira di nuovo, mi guarda e sorride, poi prende
la borsa e viene da me. Mi si rivolge in inglese.
Mi scusi, non parlo
Parliamo in francese?
Mi sa che vien meglio
È lungo il tuo viaggio?
Non so. Non ho scelto. Tu vieni da lungi?
No, ma vado lontano.
Viaggi per studio o viaggi d’amore?
Viaggio di viaggi. Io vivo viaggiando.
Tour operator? O mosca cocchiera?
Non so ridere, sai, in lingue foreste
Ti capisco, davvero. Io non so ridere per niente.
Però ridere fai. E sai, dai che lo sai.
Sì, ma non di mattina. Se rido il mattino mi si formano
grumi, qui, sotto l’occhio sinistro .. o era il destro?
Quello è il destro, non sbagliare a contarli. Son due,
sai? Uno per lato del capo.
Vabbè, prima che languisca il parlare ,,, come dire ..
mi vorresti sposare?
Uhm, chiesto in francese come si fa a rifiutare? Ma dimmi di più,
convincimi un po’.
Dovrei provare a sedurti?
Non qui sopra un treno!
Oh, può essere bello! Ci hai mai fatto l’amore?
Di sicuro non seduta in vagone
Toilet? O Wagon-Lits?
Wagon-Lits !
Non ce n’è. Mi spiace, ma non è cosa da fare.
Però si può scendere …
Dopo il confine…
…?
…
Eddai!
Se mi guardi così è dura rinviare. Scendiamo!
Il padre
Prendiamo i bagagli e scendiamo alla prima. L’aria è
frizzante di pura montagna. Le case di legno hanno gli occhi socchiusi.
La signora che accoglie ha un’aria tedesca. Gli spigoli
duri, la bocca amara che tende al ribasso. I capelli raccolti
in crocchia severa. Di fuori, in giardino c’è un
padre che gioca ridendo coi suoi molti bambini. Forse non tutti
suoi, ma biondi di pelo. E l’uomo si fa locomotiva, cavallo
o nave spaziale. Non è giovane l’uomo, ma gioca da
giovane. Forte come un torello fa volare i bambini, sulla testa,
le spalle, li fa scendere da dietro, come un ascensore vivente
che si diverte a lasciarsi scalare. Mi perdo a guardare, Non ascolto
la donna. Capisco da gesti che sta chiedendo dei soldi. Eh già
la pensione. Pagamento anticipato. Colazione domani? No, meglio
di no. Tanto è compresa. E allora perché lo domanda?
Così so se un bricco in più dovrò metter
sul fuoco. Lo metta, lo metta. Se si butta è acqua sporca,
se si beve è caffè. Saliamo le scale. Chissà
se quell’uomo è il marito. E i figli? Che figli saranno?
E di chi? L’uomo è di sole, la donna di luna. Li
vedo anche insieme sorseggiare un passito, la sera davanti al
camino coi figli dormienti. E poi che accadrà? Faranno
l’amore? L’hanno fatto più volte per sfornar
quell’asilo! O magari son prestiti? O un asilo davvero.
Che qualcuno domani verrà a reclamare.
Il
vecchio
La notte non dormo. Non si può dire stia male. Ma sono
agitato. Qualcosa di dentro ribolle sbagliato. Sarà il
bricco sul fuoco? Mi alzo che è l’alba e me ne vado
da solo. Le strade deserte, la luna sui monti. Da un bosco un
lupo mi saluta da lupo. Riconosce un suo pari. Lo saluto pur io,.
Nel linguaggio dei lupi. C’è una nuova stazione che
mi attende a partire. Film di notte e di freddo, di tempo sereno
che si srotola fuori dal campo visivo. Vedo il lupo che corre
(o forse un cane, chissà) nel ruscello che scorre qualche
metro più in giù. Vedo un vecchio che avanza e cammina
a fatica. Un vecchio che ancora lavora perché porta fascine
su spalle che penso odorose di muschi e licheni. Le ossa gli dolgono
e fanno rumore. Potresti sentirne gli scrocchi a distanza, ma
sembra avanzare e deciso ad andare; inarrestabile sembra procedere
innanzi. Come una ruota che gira stridendo, ma gira e procede
e niente la ferma. Sono gli ultimi sforzi. È stato lungo
il cammino. E quando è partito magari pensava che fosse
soltanto una tratta, magari breve e in fors’anche in discesa.
Non pensava di lasciare mogli, nipoti, dolori e piaceri, amici
trovati e poi morti man mano. Non un solo amico che non abbia
tradito. Non un solo amico che non l’abbia tradito. Non
una notte passata a dormire, senza incubi in testa né oscuro
sentire. E il cammino, da breve, si era presto allungato. Troppo,
troppo, troppo.
Epilogo
– Binario. Morto
Il mattino si affaccia a gettare la sveglia alle mucche al pascolo,
agli armenti, alle greggi, ai cacciatori feroci che mi voglion
sparare, che mi prendon di mira dall’alto del piano. Ma
la mia fuga, se è fuga, può quasi finire. Appena
oltre quei monti, quel ghiaccio lontano. Tra pochi minuti il confine,
qualche chilometro in là l’occasione di chiudermi
una porta alle spalle e gettare la chiave dove non la si possa
trovare.
Un
tunnel.
Nel buio una curva.
Una scintilla.
Estraggo pure io.
Brilla la lama che vola nel buio.
Un colpo centrale sul petto.
Molto forte.
Rumore
Buio
Poi
nulla