1) "Rue d'Enfer"
2) "Affaccia bedda"
3 ) "Grande strada di Philadelphia"

4) "Lettera dall'inferno"
4 ) "Era una bellissima giornata"

6) "Inferno nelle viscere"
7) "L'inferno dentro"
8) "Lo specchio dell'anima"
9) "L'ubriaco"
10) "Selena"
 
 

 

 

 

"Inferno"

Grande strada di Philadelphia
di ...

Grande strada di Philadelphia, dove annegare tutti i pensieri di stanotte in un crollo nervoso, una scazzottata e forse vedere la fine di tutto. L’inferno, non è altro che la città che si apre e ti inghiotte, in un vorticoso imbuto di incroci e stop.

Stop. Anche i pensieri di Jad sono arrivati allo stop.
Controllano che nessuno riconosca la loro solitudine, e poi ripartono, indomiti, sorpassando i buoni propositi di non pensare. Sgommano a motore freddo e stridono, di continuo.

Jad cammina con le mani in tasca e troppi grilli per la testa, disseminata di capelli lunghi una spanna che si rizzano senza domandare nulla, nemmeno il permesso al gel di bassa leva.

Così, con quei lunghi capelli dritti e le mani nelle tasche, Jad cammina e pensa che non può finire tutto quella sera, e poi pensa che può benissimo accadere, che il mondo può fotterlo come vuole, quando vuole. Tanto vale non nascondersi e guardare in faccia a questa lunga strada, ben sapendo che laggiù, dove il rettilineo si piega, lui continuerà ad avanzare, dirigendosi al ponte, lo superererà e poi avanzerà di nuovo, giù e giù. O forse, allora non avanzerà più, ma almeno dal ponte, con la giacca spostata dal vento, sarà sicuro che la scelta è stata compiuta, e non esiste altra possibilità di restare fregati.

O ti suicidi, o vivi.
Accetta la sorte, fratello, e soccombi – Jad non crede che nessuno verserà fiumi di lacrime -.
Soccombere non gli piace, però, e sarà proprio questo a trattenere il suo salto nel fiume. Violenza, annodata alla sensazione di essere stati fregati, ancora, dalla convinzione del libero arbitrio, che in realtà è una bella palla per condire l’auto-conservazione.

Fregati da tutto quest’inferno, sogghigna Jad, impigliate le chiavi nella giacca. Jad strattona con forza quelle chiavi maldestre, chiavi che butterebbe volentieri dal ponte laggiù, perché vuole smetterla di aprire serrature conosciute, perché vuole anche lui provare finalmente il brivido di scassinare un ingresso vietato, irrompere nella stanza e impossessarsi di tutto ciò che gli pare: donne, alcol e qualche quadro. Per troppe volte si è sentito chiuso fuori, persino quando i muri non esistevano; Jad lo sa che abitare nei sobborghi è il miglior cemento armato isolante che ci sia: tutti lo scostano – almeno, quelli che contano.
E lei, lei che ha contato e conta più di tutta questa merda infame, lei lo scosta da quando le ha proposto una strada scomoda. Lei, Mary, Mary, Mary!

Jad cammina con le mani tra i capelli e troppi grilli per la testa, grilli di donne, che sono i peggiori, quelli da sfuggire più che si può, allontanarli a costo di farsi crescere acidi calli sulle mani. E lui, no! Lui ha pensato che quella piccoletta potesse camminare con lui su questa linea di carreggiata, in mezzo alla strada, perché lui non ha paura dei motori, e anche lei non ha paura dei motori; gliel’ha detto una sera, quando la loro prima sbronza li ha portati in centro alla statale, sulla divisione di corsie, a improvvisarsi equilibristi. Senza soldi nelle tasche, quella sera, ma pieni di birra, parole, cortesie e violenze, carezze e schiaffi, amore e odio, ignoranza e consapevolezza.
Quella notte svuotarono il loro bel pacco di emozioni su un ponte simile a quello davanti a Jad, e fecero l’amore con la sfrontatezza di chi si sente Dio e decide di mettersi in gioco con tutto il corpo, perché non c’è azione o ricordo che possa svilire la propria grandezza.

Jad si sentiva Dio, e poi Lucifero, si sentiva il mondo e il niente, sentiva l’inferno prima dell’amplesso e l’illusione di purgatorio nell’abbraccio di Mary, ma quando Mary l’ha stretto con le sue unghie lunghe, lui ha provato il dolore di quel Dio e di quel mondo che stava toccando – e amando -. S’è piegato alla sorte e ha guardato come Mary si inarcasse verso il cielo, senza nemmeno cercarlo con gli occhi: lei in quel momento era con Dio, era col mondo. Vedeva il cielo stellato e poi l’aurora boreale, con una nitidezza che faceva male. E Jad lo sapeva senza aver bisogno di guardarla in faccia, perché anche lui era nello stesso viaggio di Mary.
Ma adesso, solo per Philadelphia, Jad sente tutta la tristezza che Dio prova per la sua solitudine, la tristezza che il mondo ha per quella luna che non toccherà, se non annientandosi e sbriciolandosi contro. Lui ha toccato, ha toccato!, però in nome di quella notte sente le sue tasche più vuote, i capelli più dritti e irosi, la piega della bocca beffarda verso chiunque e qualunque cosa. Adesso, Jad, sente solo inferno sotto le suole erose dalla lava di asfalto.

Jad, Jad, riflesso della sua tristezza, amante della solitudine prima di Mary, adesso si scosta dal centro della strada e prova il marciapiede, come chiunque altro. Ma il chiunque non esiste, l’altro non esiste, perché Jad è solo e nessuno s’interessa a dove cammini. In fondo, però, il ponte e la fine della strada si avvicinano e liberano un’attrazione vorace, assoluta, spaventosa. Con quell’inesorabile ingrandirsi della ringhiera, i particolari diventano macroaree, disseminate di altri dettagli che prima Jad non avrebbe mai visto. Così era stato quella notte: un continuo accorgersi di dettagli e superfici che Jad esplorava su Mary, e lei con lui, e lui con lei, ora vicini ora lontani, in un gioco di distanze e prospettive. Aversi e ritrarsi, dalla passione alla negazione.

Devo correggere il tiro, pensa Jad, dirigendosi direttamente al ponte. Sotto, tutto è nero, in un baratro artificiale coperto di notte. Velluto, trova Jad sotto i suoi occhi, che restano allacciati al rumore di traffico e acqua smossa.
Jad sa che, se cadesse laggiù, proverebbe la paura più eccitante della sua vita, acuto e ammagliante mistero. Si scapiglia i capelli per quanto possibile, infila di nuovo le mani nelle tasche ed estrae una fotografia rovinata: è Mary, e quasi non si capisce nemmeno la sua identità, tanto quell’immagine è stata sfregata contro la stoffa. Anche Jad se ne accorge, e prova pietà per lei che non ha saputo lasciarlo con un motivo, che non l’ha allontanato, ma s’è messa a piangere dopo quel “non posso”.

Merda, Jad!, se ti butti qua sotto rischi di non vederla più quella stronzetta, magari abbracciata ad un altro, un riccone del centro. Jad sorride a pensare a Mary come ad una “stronzetta”, perché lei non si addice a quella parola: è la dolcezza improvvisata, e non merita dispregiativi. Già, averla posseduta su un ponte come un altro, a Philadelphia, dove le strade corrono e nessuno le ferma, dove tu passi e nessuno ti vede, è stato il peggior dispregiativo che Jad potesse dedicarle. Mary meritava lenzuola pulite di un hotel cinque stelle – piano attico – e quei calici di champagne delicati da abbinare alle sue dita! Oppure, sarebbero bastate lenzuola meno bianche, magari anche rattoppate, ma lenzuola di una piccola e linda casetta a schiera, mentre i genitori sono fuori per lo shopping. Invece, niente di tutto questo.
In quella notte, Jad è stato se stesso, l’ha amata con disinteresse, sebbene lei si mostrasse coinvolta. Lo era davvero, Jad? Jad scuote la testa e guarda la sua visuale muoversi, spostarsi, farsi sempre più abbozzata, ma il pensiero di Mary lo perseguita, sempre e comunque. È un tormento conosciuto, al di là delle barriere di classe o delle palle sullo stemma. Jad lo sa e capisce di essere dannatamente preso, dannatamente condannato.
Inizia a domandarsi cosa Mary pensi di lui, se ripensi a lui. Con le mani stringe la ringhiera fino a stritolarla e cerca di sfogare la sua rabbia contro il ponte. Ma il parapetto non si allontana, perché è risoluto: non asseconderà i desideri di un essere superfluo come Jad. Tutto resta immobile quasi, se non per una impercettibile vibrazione nel metallo cavo.

La ringhiera non cede: questo è il vero inferno di Jad, che spererebbe di finire là sotto per un po’ di destino che, invece, non c’è mai quando serve.

Jad, fermo immobile, affonda nuovamente le mani nelle tasche e osserva come la nuvoletta di vapore dalla sua bocca si condensi, davanti alle luci di Philadelphia. Persino il vapore è bello, e diventa un motivo per restare tra le strade nere: fare piccoli soffi nel freddo, incessantemente, per portarsi davanti agli occhi un po’ di nebbia londinese e smorzare le luci di questa città americana, almeno per qualche secondo.

Lontano, sul marciapiede, una sagoma scura dai capelli lunghi si avvicina, impercettibile e fiera come la ringhiera del ponte.

Jad si volta e non c’è nebbia londinese o pensiero che possano adombrare quella visione. Lui vorrebbe sorridere, sorridere e piangere insieme, ma è un uomo dei sobborghi con i capelli lunghi una spanna e le mani in tasca. No, lui non sorriderà. Lui continuerà a pensare che la vita è una merda, e per questo necessità.

La donna s’avvicina di nuovo, e lui vede la sigaretta accenderle brevemente il viso, vicino alla bocca che era stata sua.
Jad fa un cenno con la testa, senza alterare l’espressione del viso. Dentro ride. Dentro danza, sì, Jad, che non ha mai messo un piede su una pista, stanotte improvviserebbe qualunque ballo. Lui si scuote dal torpore e capisce che, a volte, persino dall’inferno si può risalire.
Mary sorride, invece, e gli porge la sigaretta che lei stava fumando.
In quel tiro, Jad sente il vago sapore di rossetto sul filtro e pensa di adorarlo, quell’odore e quel sapore. Adora lei, del resto, la semplicità con cui gli aveva sussurrato di volerlo, perché Philadelphia può diventare infinitamente triste per un uomo e una donna infinitamente piccoli e infinitamente soli.
Si guardano, Mary e Jad, si guardano come se tra loro non fosse mai avvenuto quell’amplesso vorace, sul ponte. Le loro mani si sfiorano appena, con una calma snervante, palmo contro palmo, come un saluto primitivo. Poi si stringono, forte da farsi male, ma entrambi sanno che a volte per risalire dalle fiamme, bisogna caderci e rialzarsi, a nuova vita. Dall’inferno al paradiso, e poi di nuovo all’inferno, per la vita di ogni giorno.

È lunga la notte, a Philadelphia, è lunga come queste lunghe strade dritte che s’incrociano per caso e s’intrecciano con altre, facendo l’amore quando sono libere e nessuno le vede. E stanotte sono libere, nessuno le vede: le strade fanno l’amore tra loro, come in lontananza quei due, sul ponte.

E tutto, persino quell’inferno di macchine accodate, sembra improvvisamente il migliore dei mondi possibili.