Grande
strada di Philadelphia
di ...
Grande
strada di Philadelphia, dove annegare tutti i pensieri di stanotte
in un crollo nervoso, una scazzottata e forse vedere la fine di
tutto. L’inferno, non è altro che la città
che si apre e ti inghiotte, in un vorticoso imbuto di incroci
e stop.
Stop.
Anche i pensieri di Jad sono arrivati allo stop.
Controllano che nessuno riconosca la loro solitudine, e poi ripartono,
indomiti, sorpassando i buoni propositi di non pensare. Sgommano
a motore freddo e stridono, di continuo.
Jad cammina con le mani in tasca e troppi grilli per la testa,
disseminata di capelli lunghi una spanna che si rizzano senza
domandare nulla, nemmeno il permesso al gel di bassa leva.
Così,
con quei lunghi capelli dritti e le mani nelle tasche, Jad cammina
e pensa che non può finire tutto quella sera, e poi pensa
che può benissimo accadere, che il mondo può fotterlo
come vuole, quando vuole. Tanto vale non nascondersi e guardare
in faccia a questa lunga strada, ben sapendo che laggiù,
dove il rettilineo si piega, lui continuerà ad avanzare,
dirigendosi al ponte, lo superererà e poi avanzerà
di nuovo, giù e giù. O forse, allora non avanzerà
più, ma almeno dal ponte, con la giacca spostata dal vento,
sarà sicuro che la scelta è stata compiuta, e non
esiste altra possibilità di restare fregati.
O
ti suicidi, o vivi.
Accetta la sorte, fratello, e soccombi – Jad non crede che
nessuno verserà fiumi di lacrime -.
Soccombere non gli piace, però, e sarà proprio questo
a trattenere il suo salto nel fiume. Violenza, annodata alla sensazione
di essere stati fregati, ancora, dalla convinzione del libero
arbitrio, che in realtà è una bella palla per condire
l’auto-conservazione.
Fregati
da tutto quest’inferno, sogghigna Jad, impigliate le chiavi
nella giacca. Jad strattona con forza quelle chiavi maldestre,
chiavi che butterebbe volentieri dal ponte laggiù, perché
vuole smetterla di aprire serrature conosciute, perché
vuole anche lui provare finalmente il brivido di scassinare un
ingresso vietato, irrompere nella stanza e impossessarsi di tutto
ciò che gli pare: donne, alcol e qualche quadro. Per troppe
volte si è sentito chiuso fuori, persino quando i muri
non esistevano; Jad lo sa che abitare nei sobborghi è il
miglior cemento armato isolante che ci sia: tutti lo scostano
– almeno, quelli che contano.
E lei, lei che ha contato e conta più di tutta questa merda
infame, lei lo scosta da quando le ha proposto una strada scomoda.
Lei, Mary, Mary, Mary!
Jad
cammina con le mani tra i capelli e troppi grilli per la testa,
grilli di donne, che sono i peggiori, quelli da sfuggire più
che si può, allontanarli a costo di farsi crescere acidi
calli sulle mani. E lui, no! Lui ha pensato che quella piccoletta
potesse camminare con lui su questa linea di carreggiata, in mezzo
alla strada, perché lui non ha paura dei motori, e anche
lei non ha paura dei motori; gliel’ha detto una sera, quando
la loro prima sbronza li ha portati in centro alla statale, sulla
divisione di corsie, a improvvisarsi equilibristi. Senza soldi
nelle tasche, quella sera, ma pieni di birra, parole, cortesie
e violenze, carezze e schiaffi, amore e odio, ignoranza e consapevolezza.
Quella notte svuotarono il loro bel pacco di emozioni su un ponte
simile a quello davanti a Jad, e fecero l’amore con la sfrontatezza
di chi si sente Dio e decide di mettersi in gioco con tutto il
corpo, perché non c’è azione o ricordo che
possa svilire la propria grandezza.
Jad
si sentiva Dio, e poi Lucifero, si sentiva il mondo e il niente,
sentiva l’inferno prima dell’amplesso e l’illusione
di purgatorio nell’abbraccio di Mary, ma quando Mary l’ha
stretto con le sue unghie lunghe, lui ha provato il dolore di
quel Dio e di quel mondo che stava toccando – e amando -.
S’è piegato alla sorte e ha guardato come Mary si
inarcasse verso il cielo, senza nemmeno cercarlo con gli occhi:
lei in quel momento era con Dio, era col mondo. Vedeva il cielo
stellato e poi l’aurora boreale, con una nitidezza che faceva
male. E Jad lo sapeva senza aver bisogno di guardarla in faccia,
perché anche lui era nello stesso viaggio di Mary.
Ma adesso, solo per Philadelphia, Jad sente tutta la tristezza
che Dio prova per la sua solitudine, la tristezza che il mondo
ha per quella luna che non toccherà, se non annientandosi
e sbriciolandosi contro. Lui ha toccato, ha toccato!, però
in nome di quella notte sente le sue tasche più vuote,
i capelli più dritti e irosi, la piega della bocca beffarda
verso chiunque e qualunque cosa. Adesso, Jad, sente solo inferno
sotto le suole erose dalla lava di asfalto.
Jad,
Jad, riflesso della sua tristezza, amante della solitudine prima
di Mary, adesso si scosta dal centro della strada e prova il marciapiede,
come chiunque altro. Ma il chiunque non esiste, l’altro
non esiste, perché Jad è solo e nessuno s’interessa
a dove cammini. In fondo, però, il ponte e la fine della
strada si avvicinano e liberano un’attrazione vorace, assoluta,
spaventosa. Con quell’inesorabile ingrandirsi della ringhiera,
i particolari diventano macroaree, disseminate di altri dettagli
che prima Jad non avrebbe mai visto. Così era stato quella
notte: un continuo accorgersi di dettagli e superfici che Jad
esplorava su Mary, e lei con lui, e lui con lei, ora vicini ora
lontani, in un gioco di distanze e prospettive. Aversi e ritrarsi,
dalla passione alla negazione.
Devo
correggere il tiro, pensa Jad, dirigendosi direttamente al ponte.
Sotto, tutto è nero, in un baratro artificiale coperto
di notte. Velluto, trova Jad sotto i suoi occhi, che restano allacciati
al rumore di traffico e acqua smossa.
Jad sa che, se cadesse laggiù, proverebbe la paura più
eccitante della sua vita, acuto e ammagliante mistero. Si scapiglia
i capelli per quanto possibile, infila di nuovo le mani nelle
tasche ed estrae una fotografia rovinata: è Mary, e quasi
non si capisce nemmeno la sua identità, tanto quell’immagine
è stata sfregata contro la stoffa. Anche Jad se ne accorge,
e prova pietà per lei che non ha saputo lasciarlo con un
motivo, che non l’ha allontanato, ma s’è messa
a piangere dopo quel “non posso”.
Merda,
Jad!, se ti butti qua sotto rischi di non vederla più quella
stronzetta, magari abbracciata ad un altro, un riccone del centro.
Jad sorride a pensare a Mary come ad una “stronzetta”,
perché lei non si addice a quella parola: è la dolcezza
improvvisata, e non merita dispregiativi. Già, averla posseduta
su un ponte come un altro, a Philadelphia, dove le strade corrono
e nessuno le ferma, dove tu passi e nessuno ti vede, è
stato il peggior dispregiativo che Jad potesse dedicarle. Mary
meritava lenzuola pulite di un hotel cinque stelle – piano
attico – e quei calici di champagne delicati da abbinare
alle sue dita! Oppure, sarebbero bastate lenzuola meno bianche,
magari anche rattoppate, ma lenzuola di una piccola e linda casetta
a schiera, mentre i genitori sono fuori per lo shopping. Invece,
niente di tutto questo.
In quella notte, Jad è stato se stesso, l’ha amata
con disinteresse, sebbene lei si mostrasse coinvolta. Lo era davvero,
Jad? Jad scuote la testa e guarda la sua visuale muoversi, spostarsi,
farsi sempre più abbozzata, ma il pensiero di Mary lo perseguita,
sempre e comunque. È un tormento conosciuto, al di là
delle barriere di classe o delle palle sullo stemma. Jad lo sa
e capisce di essere dannatamente preso, dannatamente condannato.
Inizia a domandarsi cosa Mary pensi di lui, se ripensi a lui.
Con le mani stringe la ringhiera fino a stritolarla e cerca di
sfogare la sua rabbia contro il ponte. Ma il parapetto non si
allontana, perché è risoluto: non asseconderà
i desideri di un essere superfluo come Jad. Tutto resta immobile
quasi, se non per una impercettibile vibrazione nel metallo cavo.
La
ringhiera non cede: questo è il vero inferno di Jad, che
spererebbe di finire là sotto per un po’ di destino
che, invece, non c’è mai quando serve.
Jad,
fermo immobile, affonda nuovamente le mani nelle tasche e osserva
come la nuvoletta di vapore dalla sua bocca si condensi, davanti
alle luci di Philadelphia. Persino il vapore è bello, e
diventa un motivo per restare tra le strade nere: fare piccoli
soffi nel freddo, incessantemente, per portarsi davanti agli occhi
un po’ di nebbia londinese e smorzare le luci di questa
città americana, almeno per qualche secondo.
Lontano,
sul marciapiede, una sagoma scura dai capelli lunghi si avvicina,
impercettibile e fiera come la ringhiera del ponte.
Jad
si volta e non c’è nebbia londinese o pensiero che
possano adombrare quella visione. Lui vorrebbe sorridere, sorridere
e piangere insieme, ma è un uomo dei sobborghi con i capelli
lunghi una spanna e le mani in tasca. No, lui non sorriderà.
Lui continuerà a pensare che la vita è una merda,
e per questo necessità.
La
donna s’avvicina di nuovo, e lui vede la sigaretta accenderle
brevemente il viso, vicino alla bocca che era stata sua.
Jad fa un cenno con la testa, senza alterare l’espressione
del viso. Dentro ride. Dentro danza, sì, Jad, che non ha
mai messo un piede su una pista, stanotte improvviserebbe qualunque
ballo. Lui si scuote dal torpore e capisce che, a volte, persino
dall’inferno si può risalire.
Mary sorride, invece, e gli porge la sigaretta che lei stava fumando.
In quel tiro, Jad sente il vago sapore di rossetto sul filtro
e pensa di adorarlo, quell’odore e quel sapore. Adora lei,
del resto, la semplicità con cui gli aveva sussurrato di
volerlo, perché Philadelphia può diventare infinitamente
triste per un uomo e una donna infinitamente piccoli e infinitamente
soli.
Si guardano, Mary e Jad, si guardano come se tra loro non fosse
mai avvenuto quell’amplesso vorace, sul ponte. Le loro mani
si sfiorano appena, con una calma snervante, palmo contro palmo,
come un saluto primitivo. Poi si stringono, forte da farsi male,
ma entrambi sanno che a volte per risalire dalle fiamme, bisogna
caderci e rialzarsi, a nuova vita. Dall’inferno al paradiso,
e poi di nuovo all’inferno, per la vita di ogni giorno.
È
lunga la notte, a Philadelphia, è lunga come queste lunghe
strade dritte che s’incrociano per caso e s’intrecciano
con altre, facendo l’amore quando sono libere e nessuno
le vede. E stanotte sono libere, nessuno le vede: le strade fanno
l’amore tra loro, come in lontananza quei due, sul ponte.
E
tutto, persino quell’inferno di macchine accodate, sembra
improvvisamente il migliore dei mondi possibili.