Affaccia
bedda
di ...
Affaccia
bedda di ‘stu finistruni
vucca cu vucca ti vurria parlari
mi la chiantasti ‘sta spina ‘nto cori
mi la chiantasti sta spina d’amuri
Ogni
volta che il zu Giugiù svoltava il vicolo per immettersi
nel corso, l’antica serenata tornava a cantargli nel cervello,
ormai grigio per la vecchiaia. Tutta la sua vita era stata un
grigiore, privata dei colori più belli della gioventù.
E neanche nella vecchiaia, indesiderata quanto la vita, riusciva
più a godere della chiare e luminose giornate invernali.
L’aspettava la solita panchina della villetta, alla fine
del corso principale. Un paio d’ore a guardare i passanti,
due chiacchiere se a sedersi accanto era uno dei pochi amici o
qualcuno con cui valesse la pena di parlare.
Per lui erano veramente pochi coloro con cui ne valeva la pena.
E anche costoro, se gli chiedevano di rievocare i suoi ricordi,
diventavano insopportabili e annerivano il suo poco tempo. Si
alzava aiutandosi con il bastone e scappava, zoppicando ancor
di più.
E
nun ti lassu no, manco si moru
mancu si vaju a lu ‘nfernu a piniari
Finiva
la sua serenata sempre sotto il balcone di quella casa rossa,
ripetendo per due volte la strofa finale. Svoltò per il
corso. Alzò gli occhi al balcone.
E
nun ti lassu no…
Restò
impietrito, alla vecchia serenata difettarono le parole. Si sentì
mancare. Gravò sul bastone quasi a piegarlo. Si aggiustò
gli occhiali per guardare meglio in alto e trovò la voce.
- Che… che state facendo? Che state facendo!
Due muratori stavano scrostando il muro dell’edificio.
- Buon giorno zu Giù. Finalmente i figli si sono messi
d’accordo e, dopo cinquant’anni, hanno deciso di rifare
il prospetto. – uno dei muratori batté col palmo
sul muro - Questo ormai non era più rosso, era colore ruggine.
- Che… che state facendo…
Il vecchio si tolse gli occhiali scuri e si asciugò una
lacrima. L’altro muratore indicò dei buchi sulla
parete, quasi dei colpi di piccone.
- E anche questi pertugi che sembrano… - infilò il
dito in uno dei buchi – sembrano…
- Colpi di mitraglia. Di mitraglia!
Gerlando riuscì a gridare, a farsi capire prima di appoggiarsi
al lampione del corso, prima di bagnarlo delle sue lacrime. E
furono lacrime e grida di pianto covate per più di cinquant’anni.
E
nun ti lassu no, manco si moru
mancu si vaju a lu ‘nfernu a piniari
L’aveva
annunciata così a Carmela la notizia della sua partenza,
alla fine della serenata, sotto il balcone del suo grande amore,
appoggiato alla facciata rossa che stingeva ancora le mani. Lei
pianse e si sporse dalla ringhiera per regalargli una lacrima.
Gerlando la colse al volo e portò quella stilla alla bocca.
- Non piangere. Perché ho pure una bella notizia: tuo padre
mi ha promesso che appena torno per la prima licenza, mi fa salire
in casa. Ci fidanziamo Carmelì. Ci fidanziamo!
Carmela mischiò il riso al pianto.
- Quando Giù, quando?
- Presto. Subito, appena torno. Alla prima licenza.
Scappò via per non piangere pure lui. Ricacciò in
gola le lacrime e corse cantando.
E
nun ti lassu no, manco si moru
mancu si vaju a lu ‘nfernu a piniari
E
all’inferno gli sembrò di andarci davvero. In guerra
e imbarcato. Ma su una nave ospedale a pattugliare le coste africane,
a cercare di soccorrere i feriti di Libia. Della guerra conobbe
i tristi suoni e gli orrori, le carni lacerate, gli arti monchi,
gli squarci delle schegge, i lamenti e i pianti dei moribondi.
E le speranze dei sopravvissuti, l’odio per il nemico e
per l’alleato.
Su quella nave del dolore, primo, secondo e terzo di poppa e di
prua, di babordo e di tribordo, non indicavano più le tolde
del bastimento. Erano le divisioni dell’ospedale: feriti,
gravi, gravissimi e moribondi. I ponti di quella nave erano gironi
dell’inferno.
A Tripoli raccoglievano i feriti da imbarcare e portare in Italia,
se la vita, insensibile alle cure, non li abbandonava per mare.
Quando lasciavano il porto, quella nave gli sembrava sempre più
il battello di Caronte.
Gerlando passò mesi e mesi su quel triste bastimento, in
attesa della sperata licenza, in attesa di tornare dalla sua fidanzata.
Carmela! Era lei l’unico conforto su quella nave dei fantasmi.
I fantasmi di quelli che morivano sul quel legno e che lui rivedeva
ogni volta che cercava di prendere un po’ di sonno, i fantasmi
che gli rubavano i pensieri della sua amata.
Unicamente nelle lunghe notti di guardia durante la navigazione,
riusciva a restare da solo con Carmela. Le cantava la sua serenata,
ripassava mentalmente l’ultima lettera e, se scordava anche
una sola parola, la tirava fuori dalla giubba bianca e la ripassava.
Poi baciava la carta dove lei aveva posato le sue labbra e riponeva
il foglio. Solamente lassù al timone, pur con l’apprensione
di uno scontro col nemico o con il sibilo di un siluro, era un
sollievo. Perché sul ponte di comando i pianti e i lamenti
non ci arrivavano.
Quando la campagna d’Africa fu al culmine e quasi persa,
dovette imparare anche a curare i feriti, ed era sempre più
il tempo passato a far l’infermiere che a tenere la barra.
Gli attimi in cui riusciva a dimenticare quell’inferno galleggiante,
erano solo quando riceveva la posta. Solo in quel momento dimenticava
tutto l’orrore della guerra. Gerlando si andava a chiudere
nella cabina, e se c’era già qualche altro marò
di riposo che si dondolava sull’amaca, lo faceva uscire.
Perché quando apriva la lettera di Carmela non ci doveva
essere nessun altro. Leggeva a malapena e doveva sillabare ogni
parola della sua amata. Iniziava a leggere balbettando, poi ripassava
più spedito e sicuro e infine declamava le parole dell’amata
ad alta voce, cantando quasi. E baciava il foglio, si stringeva
al petto quella pagina che era un pezzo della sua Carmela.
Poi d’improvviso non ricevette più posta. D’improvviso,
ma se ne accorse dopo due mesi di speranze. A Catania, dopo l’ultimo
sbarco di feriti, per poco non aggredì il postino che aveva
negato la sua attesa corrispondenza. La nave ripartì subito
per la Libia e lui non fece in tempo a mettere in pratica la sua
fuga fino a casa. La casa di Carmela. Ma per fare rientro non
dovette aspettare molto.
Una mattina, all’alba, un’incursione aerea americana
si abbatté sul porto di Tripoli. Le bombe e le mitraglie
scatenarono un inferno piovuto dall’alto. Anche la nave
ospedale fu colpita e affondata. Gerlando fu ferito alla coscia,
sentì lo schianto del femore spezzato da un frammento di
granata. Riuscì a non svenire e, quando la nave si inabissò,
rimase a galla. Nuotò fra lingue di fuoco, fra carcasse
di natanti e di esseri umani. Raggiunse la vicina banchina ma
non ce la fece a salire da solo. Si afferrò a una cima
legata ad una bitta e attese che passasse quest’altro inferno.
Poi quando finì l’attacco aereo, i soccorritori lo
udirono e lo tirarono sul molo.
Fu curato a Tripoli e il desiderio e la speranza di rivedere Carmela
lenì il dolore e accelerò la guarigione. Appena
poté abbandonare il letto partì per la convalescenza.
Affaccia
bedda di ‘stu finistruni
vucca cu vucca ti vurria parlari
mi la chiantasti ‘sta spina ‘nto cori
mi la chiantasti sta spina d’amuri
Scese
dal treno e cominciò a correre. Lui correva, e cantava,
anche se il suo era solo un passo lento e zoppicante.
E
nun ti lassu no, manco si moru
mancu si vaju a lu ‘nfernu a piniari
Alzò
gli occhi al balcone della casa rossa. Riconobbe di spalle il
padre di Carmela. Chiamò ma non ebbe risposta. Chiamò
ancora, inutilmente. Spinse il portone e entrò. Salì
la scale e davanti alla porta raggelò. Un cartoncino listato
di nero dedicava “Per mia figlia”. Gerlando non udì
la sue nocche sul legno. Il suo cuore gli rimbombava nelle orecchie,
nella testa, nel cervello, nelle vene, nei suoi pensieri. Quell’uomo
che gli si era promesso in suocero aprì la porta. Rimase
a fissarlo per attimi lunghi quanto un’eternità.
Scoppiò a piangere e lo abbracciò. Poi, in silenzio,
lo prese sottobraccio e lo portò sul balcone.
Carmela era affacciata, attirata dal rombo nel cielo. Stava guardando
in alto quando la mitragliata del caccia americano colpì
la casa rossa e il suo petto. A quell’incursione ne seguirono
altre, per preparare lo sbarco in Sicilia. Mitragliavano ogni
giorno e si pensava che dovessero proprio approdare a Porto Empedocle.
Invece per l’attracco gli alleati scelsero Gela. Ma Carmela
era morta. Per niente. Per niente, come tanti, come tutti. Era
morta lo stesso anche se non combatteva. Era morta per mano dei
liberatori. Per gli americani bombardavano le case. Per gli americani
che sparavano anche alle pale dei fichi d’india. Perché
avevano il colore delle divise, dicevano loro.
Indicò a Gerlando gli occhielli scrostati sul muro. Riprese
a piangere e baciò la lapide rossa della sua casa.
Gerlando si diede un pugno sulla gamba invalida.
- Perché? Perché lei? Io! Io dovevo morire. Io merito
la morte. Perché, anche se mai ho impugnato un’arma,
la divisa l’ho indossata e sono andato a portare la guerra
in terra d’altri. Io dovevo morire. Io che dall’inferno
ho fatto ritorno ma solo per lei, solo per Carmela…
L’uomo a lutto cercò consolazione nelle sue stesse
parole.
- Non è stata la sola: sono stati in tanti qui a morire.
Sono stati in troppi a morire, seppur lontani dalla guerra. Pure
dopo lo sbarco. Anche i bambini. Uccisi dalle bombe aeree inesplose.
Anche qui. Anche qui è stato un piccolo inferno. E per
me lo sarà per sempre. Per sempre. Tutti i miei momenti
li passo qui, qui fuori sul balcone. A pensare alla mia bambina.
A piangere su questo muro ferito. A piangere per un buco in meno
su questo muro. Fino a quando avrò vita.
I
muratori erano scesi dal ponteggio e cercavano di confortare il
vecchio.
- Zu Giù? Si sente male?
Avevano preso una sedia dal bar vicino e l’avevano fatto
sedere.
- Zu Giù, vuole che lo portiamo all’ospedale?
Il vecchio scosse la testa.
- No no. Lasciatemi qua. Qua, seduto a guardarvi. A guardarvi
mentre… mentre cancellate il mio… il mio sepolcro
di guerra.
- Vuole stare qua a guardarci? E vabbè! Come vuole vossia,
zu Giù. Ma… ma perché piange?
- Cinquant’anni… Ho cinquant’anni di lacrime
da versare.
Traduzione
Affaccia
bedda di ‘stu finistruni
vucca cu vucca ti vurria parlari
mi la chiantasti ‘sta spina ‘nto cori
mi la chiantasti sta spina d’amuri
……………………………………
E nun ti lassu no, manco si moru
mancu si vaju a lu ‘nfernu a piniari
Affacciati bella da questo balcone
Bocca a bocca (da vicino) vorrei parlarti
Me l’hai piantata questa spina nel cuore
Me l’hai piantata la spina dell’amore
………………………………………….
E non ti lascio neanche se muoio
Nemmeno se vado all’inferno a penare.