Lettera
dall’inferno
di ...
Oggi
23 dicembre compio cinquant’anni. Ma questo mia cara tu
lo sai già.
E sì, non è più come averne venti o quaranta,
a cinquant’anni un’idea più chiara della mia
vita dovrei essermela fatta. Ti ho mai detto che spesso ultimamente
mi è capitato di chiedermi a cosa devo aver pensato quando
sono nato? Sono sicuro che avere quegli occhi puntati addosso
che mi fissavano pieni di stupore deve essere stato un gran bell’impatto.
Va bene, mi sarò detto, vediamo cosa mi riserverà
il resto, ormai sono qui, non è che posso tornare indietro.
E poi cazzo sono un uomo, e questo non mi sembra mica un inferno.
Per un po’ è andato tutto liscio, anzi direi una
vera pacchia, ma anche questo lo puoi immaginare, qualche volta
se ancora te ne ricordi ti ho parlato della mia infanzia.
Sono stato curato, ben nutrito e coccolato e il peggio che mi
è potuto capitare è stato farmi scappare la pipì
a letto. - Non importa tesoro- mi diceva la mamma - non lo diremo
a nessuno.- Ma poi mia sorella sghignazzava e mi stuzzicava con
battutine sarcastiche che avevano sempre a che fare con l’acqua,
con le fontane o con qualche sperduto laghetto di montagna. Allora
io capivo che la mamma gliene aveva parlato, ma quel che non capivo
allora era il perché, intuivo solo che era qualcosa che
aveva a che fare col fatto che loro fossero entrambe donne ed
io invece un maschio. Che ci fosse una specie di battaglia, o
forse direi meglio un perfido e sottile gioco fra i sessi lo compresi
dopo, quando ne iniziai a sentire l’odore, delle donne dico.
Mia cara tu non puoi capire cosa succede ad un ragazzo di quattordici
anni quando una ragazza gli siede accanto nel banco. Anche se
mi ripetevo continuamente di non farlo, il mio sguardo era come
calamitato da una forza oscura, demoniaca, verso quelle tenere
protuberanze e usavo tutte le strategie per riuscire almeno a
sfiorarle e godere di quell’inafferrabile piacere che mi
prendeva, anche se poi mi tormentavo nell’ansia di saperne
di più, di averne di più.
Però al tempo stesso, per quanto mi arrovellassi non riuscivo
a spiegarmi come quella stessa frenesia non fosse reciproca. Quello
che vedevo negli occhi delle ragazze era sempre una controllata
indifferenza come se quella carne e gli effetti che essa poteva
provocare non gli appartenesse. Ma c’erano altre cose che
avrei dovuto sapere per avere la risposta e presto imparai a conoscerle.
I giochi degli sguardi, la morbidezza di un gesto erano i primi
segnali, allora era il momento giusto, ma prima soprattutto bisognava
creare la mossa diversiva, ma anche la più fondamentale
per giungere al successo. Era necessario innamorarsi o almeno
comportarsi come se lo fossi davvero.
Ecco che scoprii che le ragazze non te la danno se non hanno almeno
l’alibi dell’amore, il primo e unico anche quando
diventava l’ultimo, o quello più tenero, o quello
più spensierato, ma doveva essere amore.
Mia cara tu non puoi neanche immaginare quanto sia snervante camminare
ore ed ore mano nella mano, e fare mille telefonate idiote interminabili,
comprare ridicoli peluche con il terrore che qualcuno ti possa
vedere e inventarsi i nomignoli più sciocchi invece di
usare il nome di lei, solo per arrivare a fare un’ora di
sesso. Ma io ero pronto a tutto e per lungo tempo disponibile
ad accettare le regole di questo gioco perverso, seppure complicate,
spesso misteriose e il più delle volte basate sull’interpretazione
di semplici sensazioni.
Una volta però ci fu una, mi sembra si chiamasse Rosa.
Ecco con lei fu diverso. Facemmo l’amore una volta sola.
Quando finimmo, io che ormai avevo una certa esperienza, iniziai
ad accarezzarla, almeno per quel tanto che bastava per mitigare
quel senso di colpa che sembrava avessero tutte le ragazze a quell’età
dopo averlo fatto. Ma lei aprì gli occhi e guardandomi
fisso in faccia mi disse - ehi senti non metterti strane idee
in testa bella scopata ma ora per favore lasciami dormire solo
un po’ ché ai miei ho detto che non rientravo troppo
tardi.- Lo disse così, tutto d’un fiato, senza pause
o esitazioni prima di rigirarsi volgendomi la schiena.
Benché quella frase insolita m’avesse lasciato disorientato,
né ci furono altri incontri, Rosa, sì credo che
il suo nome fosse proprio questo, rimase nelle mie fantasie giovanili
molto a lungo.
Ho saputo che è morta qualche tempo fa, un cancro sembra.
In città si diceva che facesse la puttana, ma anche se
così fosse che Dio l’abbia in gloria almeno per tutta
la felicità che il suo ricordo e quella frase mi hanno
donato in questi lunghi anni.
E poi sei arrivata tu. Cazzo se eri bella! Bella da far sparire
di colpo tutto quanto il resto. Le ubriacate il venerdì
sera con gli amici, il garage dove eravamo convinti che con la
nostra musica avremmo fatto impazzire milioni di persone, l’appuntamento
sacrosanto al campo di calcio per la partita del sabato sera,
tutte le altre donne dell’universo, tutto quanto sparito,
spazzato via dal tuo profumo, dal tuo sguardo intrigante. E niente
reggeva il confronto con quella tua arietta un po’ snob
che avevi quando mi sorridevi.
E quando ti muovevi, se solo ci penso ancora adesso mi manca il
fiato, quando tu ti muovevi mi ronzavano in testa solo queste
due parole “la voglio”.
Ma se ti muovevi così, era perché anche tu lo sapevi,
perché le donne, ormai lo so ho cinquant’anni ricordi,
quando camminano così vogliono spingerci solo a fare il
primo passo dentro il loro territorio, è lì che
si sentono veramente a loro agio. E varcato il confine si entra
nella terra del demonio.
E poi è andata che anche tu mi volevi. A me quasi non sembrava
possibile, ma dopo ho dovuto crederci perché quando quella
sera mi giocai il tutto per tutto e azzardai un timido bacio,
tu mi ficcasti la tua lingua calda in bocca. Se il cibo degli
dei era l’ambrosia il suo sapore doveva essere quello delle
tue labbra! E se veramente esistevano gli angeli, quando cantavano
in cielo intonavano le note della tua risata!
Mia cara te lo ricordi quanto ridevamo insieme? A starti accanto
la vita scivolava dolce e lenta come miele.
Quanto c’hai messo a rovinare tutto? Due, tre anni? No,
non ti ci è voluto molto a trasformarti in quella che sei
adesso, e a fare della mia vita un vero inferno. Hai cambiato
quasi impercettibilmente prima le piccole cose di poco conto,
facendole morire lentamente senza che me ne accorgessi. Sono morte
le risate, i tuoi capelli scuri, il bacio del mattino, le cenette
improvvisate con le poche cose che ci ritrovavamo in frigo.
- Caro, per oggi dovrai accontentarti per la cena, ho incontrato
Luisa che mi ha fatto perdere un sacco di tempo, mi dispiace –
- Ma che vuoi che sia, per una volta un panino fa lo stesso amore
mio- rispondevo io. E senza che me ne rendessi conto a andata
a finire che a cucinare per entrambi fossi quasi sempre io.
- Potresti anche cambiare menù, di tanto in tanto- mi hai
detto ultimamente – ma in fondo perché te lo chiedo,
l’ho sempre saputo che sei un uomo senza fantasia - hai
poi aggiunto.
Ecco vorrei dirtelo ora dove è finita la mia fantasia,
perché io ne avevo, mia cara. È sepolta sotto le
migliaia di sì che ti ho risposto in questi anni passati
insieme, quando mi chiedevi se avessi abbassato la tavoletta in
bagno, o se non avessi ragione tu a dire che Carla non era altro
che una stupida con quattro soldi in tasca, e se non fosse fantastico
poter passare tutte le vacanze estive sempre con tua sorella (
e i suoi orribili marmocchi e quel cretino del marito aggiungo),
se non fosse il caso di pensare ad una casa più grande,
magari con terrazza perché ormai ce l’hanno tutti,
se invece di quel week-end a Londra non sarebbe stato meglio rimandare
e accettare l’invito della zia ( noiosissima aggiungo) che
ci teneva così tanto a riunire la famiglia nell’anniversario
della morte del suo povero Vittorio, e per non parlare dei -mi
dispiace caro, sono veramente troppo stanca, mi perdoni vero?-
A proposito, ti ringrazio per il regalo di compleanno che mi fai
ogni 23 dicembre quando ti concedi grattando via appena un po’
del tuo grigiore, e anche se dubito che tu ti stia chiedendo se
mi è piaciuto, voglio rassicurarti e dirti ancora una volta
sì.
L’ultimo dei milioni di sì in cui sono sprofondato
sempre più giorno dopo giorno annaspando nella cenere in
cui hai ridotto tutti questi lunghissimi anni.
Ma forse a questo punto è inutile che io continui ad andare
avanti.
La lettera mia cara te la lascio bene in vista. Vorrei che stavolta
quando rientri sia la prima cosa ad attirare la tua attenzione,
e non se come sempre entrando, ho spostato leggermente di traverso
il tappeto dell’ingresso. Anzi già che ci sono ora
te lo posso dire, negli ultimi anni spesso lo facevo apposta per
darti lo spunto per una delle tue scenate, perché dopo
esserti incazzata non mi rivolgevi la parola per tutta la serata
ed io non ero costretto ad ascoltarti mentre raccontavi quelle
inutili cose stupide che sapevi dire.
Ogni volta erano sempre le stesse cose banali, che ti era sembrato
di aver visto la moglie di Tonino con un tizio, che il parrucchiere
invece di farti la tinta mogano l’aveva fatta color castagna,
che il macellaio aveva cercato d’imbrogliarti sul peso della
carne. E ci perdevi le ore a dirmi tutto questo, e tu sempre a
lamentarti o a sentenziare dall’alto della tua perfezione
e guai se mi azzardavo a contraddirti.
La tua voce petulante mi rimbombava nelle orecchie perfino quando
sognavo. E ogni notte sognavo sempre la stessa cosa. Sognavo di
essere finito all’inferno e la pena che dovevo scontare
in eterno era quella. Sì, ascoltare la tua voce piatta
e senza più emozione che echeggiava ininterrottamente.
Ecco a questo punto, se ancora non ti fosse chiaro, voglio che
tu sappia che oggi 23 dicembre, giorno del mio cinquantesimo compleanno
per la prima volta nella vita mi sento di nuovo vivo. Ho raccolto
tutto il mio coraggio e ho strappato me stesso dalle fiamme.
Sono fuggito. Ora mia cara sono solo, e finalmente fuori dall’inferno.