L’inferno
è nelle viscere…
di ...
L’inferno
di ogni mattina non inizia nei sotterranei del metrò che
brulicano di esseri schivi e indaffarati… L’inferno
non è nelle viscere della terra, ma nelle mie viscere,
e nelle sue viscere.
Si cammina infagottati, in questo inverno freddo, assenti agli
altri, distratti, di corsa.
I corridoi si snodano in labirinti conosciuti che i passi percorrono
autonomamente, mentre la mente continua a sonnecchiare. Immagini
inchiodate alle pareti scorrono rapide senza dire niente alla
coscienza; brusii sfiorano appena le orecchie intirizzite e anestetizzate
dal vento. Ci si lascia inghiottire da vagoni che trasudano vapori
caldi e puzzolenti; ci si impila e pigia tra corpi sudati e sporchi,
che ti toccano lascivi approfittando del caos. Ci sono occhi che
ti senti addosso dall’inizio alla fine, che dai tuoi occhi
partono giù fino al collo, al seno, alla pancia, e osano,
ancora di più, e scendono giù, giù, indugiano
solo un po’, poi rapidi raggiungono i piedi e poi di nuovo
su, per fermarsi a scrutare lentamente le parti più pronunciate
e quelle che, solo esse, rimangono nude: il collo, è il
collo che sento osservato, e mi sembra di sentirmi mordere da
vampiri famelici che desiderano ciò che le loro donne,
troppo velate, non mostrano ad occhi indiscreti.
A tutto si fa l’abitudine, e si ottundono i sensi, e continua
a dormire la mente, nel viaggio verso
il vero inferno. Il traghetto di Caronte va a motore e ne carica
tanta di gente, di tutte le razze, tutte le mattine. Gente che
non vedi, gente che non ascolti, gente che non c’è.
L’indifferenza regna sovrana, in questo mio mondo; si è
indifferenti e insensibili; si è numeri che viaggiano silenziosi;
si è macchine di produzione; non ci si chiede più
il perché di questi viaggi mattutini, dove portano, cosa
ti danno. Sei indifferente anche a te stesso.
Poi ecco che… All’improvviso un giorno si scopre che
le persone possono farti male e ti fanno tanto male quanto più
le rendi importanti, quanto più investi sogni e aspettative
sul loro modo di guardarti… Ci sono nomi che ti risuonano
dolcemente in petto, anche se chi li possiede non ha niente di
dolce, se non un raro sorriso…
E’ allora che cominci a guardarti intorno, ad osservare
le figure accanto a te, ma lo fai appena in tempo per vederle
fluire via, una alla volta, anonime e vaghe, verso le scale che
riporteranno loro e te in superficie. Esci allo scoperto, ed è
prima di tutto a te stesso che ti scopri, dissolvendo reticenze
e menzogne, trovandoti, nella nebbia dei tuoi dubbi.
La nebbia avvolge l’aria, in questi giorni; affascinante
nebbia… La nebbia che falcia le gole, la nebbia che dà
cibo alla mia fantasia, con quel suo alone di mistero, che vorrei
allungare la mano nella curiosità di ciò che potrei
trovarci dentro: magari una mano da stringere, magari la sua mano,
per allacciarmi ad essa e non lasciarla mai più…
Devo affrettarmi, in questa mattina nebbiosa, per arrivare in
ufficio prima di lui. Sempre, devo arrivare prima di lui, e prima
delle altre. Essere puntuale, essere efficiente: solo questo conta.
In ufficio tutto tace; il ticchettio delle tastiere non ha ancora
cominciato ad animare questo mio giorno. Non è ancora iniziato
il rito propiziatorio. Ci sono solo io, qui, in questo momento
e pregusto il piacere che verrà, verso metà mattinata,
subito dopo la pausa caffè.
E’ l’amore che muove i miei passi, ora lo so; è
l’amore che mi porta a tornare qui anche quando non vorrei,
quando la pigrizia e la stanchezza mi vorrebbero a letto, quando
lo scoramento, le umiliazioni, le offese vorrebbero le mie dimissioni.
Sono ancora qui, ed è l’amore che mi ci vuole.
Quando lui arriva, non ha bisogno di battere le mani; io e le
mie colleghe siamo ai nostri posti, pronte ad eseguire i suoi
ordini prima ancora che li pronunci. Unico uomo in questa stanza,
unica ambizione, unico personaggio sulla scena, unico bersaglio
dei riflettori dei nostri occhi.
Lavoriamo in silenzio, per ore, senza guardarci, senza guardarlo,
sappiamo che presto la danza avrà inizio e lui non saprà
scappare ai nostri giochi. Nostro padrone e signore, nostro dominatore,
alla sua volontà sono mosse le nostre mani, come in trance
seguiamo il copione non scritto dei suoi desideri. E’ Mira,
la prima ad alzarsi, quella che ha la scrivania più vicina
alla sua. Accosta sicura le mani al suo collo, le lascia scivolare
nell’incavo della gola, i suoi occhi di fuoco negli occhi
di lui.
Il Sacrificio purgativo avrà inizio tra qualche secondo.
Io osservo la scena sapendo già cosa accadrà. Uno
strano formicolio si impossessa del mio stomaco, una strana voglia
di cibo proibito, di sapori sconosciuti ai più, di scoperte
non più nuove, di sicurezze diaboliche, di certezze in
quello che si ripete, uguale a ieri e a due giorni fa, e a tre
e a quattro giorni fa, da due mesi, da quando ho incontrato quegli
occhi sfuggenti, da quando ho visto quel sorriso affiorare a labbra
scarse di buone parole; da quando ho capito che nel suo ventre
c’è qualcosa di succoso e buono, non posso più
farne a meno.
Lui si è lasciato prendere, intanto, dalle mani di Mira.
Ora è steso sulla scrivania, altare del suo potere, lei
è cavalcioni su di lui, la larga gonna a coprirgli le ginocchia;
gli inonda il viso con i lunghi e ricci capelli neri; gli preme
sulle guance labbra rosse di sangue caldo che scorre sotto la
pelle in un tumultuoso fiume di passione.
Io resto seduta, e osservo, alzando lo sguardo al di sopra dello
schermo del pc. Ricordo quando tutto questo ha avuto inizio. Lui,
che mai perde il controllo, aveva perso il potere su se stesso.
Invano entrava ed usciva dal bagno, ma niente usciva dal suo corpo,
nessuna efficacia avevano i massaggi sulla pancia gonfia e indurita.
Non disse niente, ma io sentii la sua richiesta di aiuto. Con
un cenno solo del mio capo avviai il rito che si ripete incessante,
ogni dì, alla stessa ora, e che farà capire a lui
che niente può più senza di me. Perché sono
io, in realtà, che dirigo il tutto. Luna e Rosi sono ora
lì accanto, che danzano e cantano litanie antiche e magiche;
le luci si sono offuscate senza che nessuno abbia toccato gli
interruttori, le tastiere continuano il loro ticchettio senza
che nessun dito si muova su di esse. Io e le mie colleghe siamo
impegnate in altro. E’ solo il mio pensiero, che si muove
di me. Loro agiscono secondo i miei comandi, che sono i suoi;
le vedo oltre il velo appannato dei miei occhi eccitati per quello
che avverrà. E non avverrà certamente troppo presto.
Perché ho calcolato tutto: ogni intervallo, ogni mossa,
ogni parola, ogni emozione. Perché il piacere va assaporato
un po’ alla volta, prima di giungere al culmine.
Mentre Mira continua le sue carezze, i suoi baci e massaggi su
di lui, lui ride, facendosi parrucca dei capelli di lei, divenuti
serpenti striscianti, su quel viso tanto amato e desiderato. In
adorazione, resto, a comandare l’intercedere dei canti e
delle danze e lo zampillare di fuochi fatui improvvisamente apparsi
ai quattro angoli della stanza.
A grandi grappoli, Luna mangia uva rossa e bianca, il succo le
cola dalla bocca al mento, si pulisce le mani sui pantaloni di
lui, guardandolo fisso, sfidandolo, mentre lui ride, soffocato
dalle lingue dei serpenti. Rosi prende a mordergli le braccia,
e questo lo fa ridere ancor più forte. E’ nostro,
non ci scapperà. E’ nostro, lui, e tutto, di lui,
lo è. Ed ecco che arriva, forse troppo rapido, non ho resistito
questa volta, il momento migliore, l’apice degli apici,
la vetta delle vette, la cresta dell’onda, la cima del baobab.
Mira, senza preavviso alcuno, affonda la mano nella sua carne,
all’altezza dell’intestino: questo si deforma, non
si produce ferita, non ne esce sangue, eppure lei trae fuori ciò
che io volevo; sarà alleviato allora il suo dolore e mangerò
io quanto di più desiderabile possiede. Vedo la mia mano
allungata a prendere ciò che mi spetta per portarlo alla
bocca. L’amore… l’amore è una goduria;
tutto ciò che è suo lo è. Niente di più
sublime…
- Appena può, per cortesia, mi stampi questa lettera.
Non doveva, non ora, non doveva farlo!!! Ritiro la mano di scatto.
Tutto svanisce d’incanto, Mira è alla sua scrivania,
e lo sono Luna e Rosi. Non sento più il gusto della sua
merda nella bocca, non ne sono più colorate le mie mani,
niente odore, niente sapore, niente amore, niente godimento. Ecco
l’inferno!
L’inferno è lui, che non è altri che il mio
capo-ufficio, che mi chiama “signorina“ e mi impartisce
ordini senza guardarmi negli occhi, ché per lui non ci
sono nemmeno. L’inferno è nelle sue viscere, che
non posso possedere, e nelle mie, che si sciolgono in un pianto
di diarrea.