1) "Rue d'Enfer"
2) "Affaccia bedda"
3 ) "Grande strada di Philadelphia"

4) "Lettera dall'inferno"
4 ) "Era una bellissima giornata"

6) "Inferno nelle viscere"
7) "L'inferno dentro"
8) "Lo specchio dell'anima"
9) "L'ubriaco"
10) "Selena"
 
 

 

 

 

"Inferno"

L’inferno è nelle viscere…

di ...

L’inferno di ogni mattina non inizia nei sotterranei del metrò che brulicano di esseri schivi e indaffarati… L’inferno non è nelle viscere della terra, ma nelle mie viscere, e nelle sue viscere.
Si cammina infagottati, in questo inverno freddo, assenti agli altri, distratti, di corsa.
I corridoi si snodano in labirinti conosciuti che i passi percorrono autonomamente, mentre la mente continua a sonnecchiare. Immagini inchiodate alle pareti scorrono rapide senza dire niente alla coscienza; brusii sfiorano appena le orecchie intirizzite e anestetizzate dal vento. Ci si lascia inghiottire da vagoni che trasudano vapori caldi e puzzolenti; ci si impila e pigia tra corpi sudati e sporchi, che ti toccano lascivi approfittando del caos. Ci sono occhi che ti senti addosso dall’inizio alla fine, che dai tuoi occhi partono giù fino al collo, al seno, alla pancia, e osano, ancora di più, e scendono giù, giù, indugiano solo un po’, poi rapidi raggiungono i piedi e poi di nuovo su, per fermarsi a scrutare lentamente le parti più pronunciate e quelle che, solo esse, rimangono nude: il collo, è il collo che sento osservato, e mi sembra di sentirmi mordere da vampiri famelici che desiderano ciò che le loro donne, troppo velate, non mostrano ad occhi indiscreti.
A tutto si fa l’abitudine, e si ottundono i sensi, e continua a dormire la mente, nel viaggio verso
il vero inferno. Il traghetto di Caronte va a motore e ne carica tanta di gente, di tutte le razze, tutte le mattine. Gente che non vedi, gente che non ascolti, gente che non c’è.
L’indifferenza regna sovrana, in questo mio mondo; si è indifferenti e insensibili; si è numeri che viaggiano silenziosi; si è macchine di produzione; non ci si chiede più il perché di questi viaggi mattutini, dove portano, cosa ti danno. Sei indifferente anche a te stesso.
Poi ecco che… All’improvviso un giorno si scopre che le persone possono farti male e ti fanno tanto male quanto più le rendi importanti, quanto più investi sogni e aspettative sul loro modo di guardarti… Ci sono nomi che ti risuonano dolcemente in petto, anche se chi li possiede non ha niente di dolce, se non un raro sorriso…
E’ allora che cominci a guardarti intorno, ad osservare le figure accanto a te, ma lo fai appena in tempo per vederle fluire via, una alla volta, anonime e vaghe, verso le scale che riporteranno loro e te in superficie. Esci allo scoperto, ed è prima di tutto a te stesso che ti scopri, dissolvendo reticenze e menzogne, trovandoti, nella nebbia dei tuoi dubbi.
La nebbia avvolge l’aria, in questi giorni; affascinante nebbia… La nebbia che falcia le gole, la nebbia che dà cibo alla mia fantasia, con quel suo alone di mistero, che vorrei allungare la mano nella curiosità di ciò che potrei trovarci dentro: magari una mano da stringere, magari la sua mano, per allacciarmi ad essa e non lasciarla mai più…
Devo affrettarmi, in questa mattina nebbiosa, per arrivare in ufficio prima di lui. Sempre, devo arrivare prima di lui, e prima delle altre. Essere puntuale, essere efficiente: solo questo conta.
In ufficio tutto tace; il ticchettio delle tastiere non ha ancora cominciato ad animare questo mio giorno. Non è ancora iniziato il rito propiziatorio. Ci sono solo io, qui, in questo momento e pregusto il piacere che verrà, verso metà mattinata, subito dopo la pausa caffè.
E’ l’amore che muove i miei passi, ora lo so; è l’amore che mi porta a tornare qui anche quando non vorrei, quando la pigrizia e la stanchezza mi vorrebbero a letto, quando lo scoramento, le umiliazioni, le offese vorrebbero le mie dimissioni. Sono ancora qui, ed è l’amore che mi ci vuole.
Quando lui arriva, non ha bisogno di battere le mani; io e le mie colleghe siamo ai nostri posti, pronte ad eseguire i suoi ordini prima ancora che li pronunci. Unico uomo in questa stanza, unica ambizione, unico personaggio sulla scena, unico bersaglio dei riflettori dei nostri occhi.
Lavoriamo in silenzio, per ore, senza guardarci, senza guardarlo, sappiamo che presto la danza avrà inizio e lui non saprà scappare ai nostri giochi. Nostro padrone e signore, nostro dominatore, alla sua volontà sono mosse le nostre mani, come in trance seguiamo il copione non scritto dei suoi desideri. E’ Mira, la prima ad alzarsi, quella che ha la scrivania più vicina alla sua. Accosta sicura le mani al suo collo, le lascia scivolare nell’incavo della gola, i suoi occhi di fuoco negli occhi di lui.
Il Sacrificio purgativo avrà inizio tra qualche secondo. Io osservo la scena sapendo già cosa accadrà. Uno strano formicolio si impossessa del mio stomaco, una strana voglia di cibo proibito, di sapori sconosciuti ai più, di scoperte non più nuove, di sicurezze diaboliche, di certezze in quello che si ripete, uguale a ieri e a due giorni fa, e a tre e a quattro giorni fa, da due mesi, da quando ho incontrato quegli occhi sfuggenti, da quando ho visto quel sorriso affiorare a labbra scarse di buone parole; da quando ho capito che nel suo ventre c’è qualcosa di succoso e buono, non posso più farne a meno.
Lui si è lasciato prendere, intanto, dalle mani di Mira. Ora è steso sulla scrivania, altare del suo potere, lei è cavalcioni su di lui, la larga gonna a coprirgli le ginocchia; gli inonda il viso con i lunghi e ricci capelli neri; gli preme sulle guance labbra rosse di sangue caldo che scorre sotto la pelle in un tumultuoso fiume di passione.
Io resto seduta, e osservo, alzando lo sguardo al di sopra dello schermo del pc. Ricordo quando tutto questo ha avuto inizio. Lui, che mai perde il controllo, aveva perso il potere su se stesso. Invano entrava ed usciva dal bagno, ma niente usciva dal suo corpo, nessuna efficacia avevano i massaggi sulla pancia gonfia e indurita. Non disse niente, ma io sentii la sua richiesta di aiuto. Con un cenno solo del mio capo avviai il rito che si ripete incessante, ogni dì, alla stessa ora, e che farà capire a lui che niente può più senza di me. Perché sono io, in realtà, che dirigo il tutto. Luna e Rosi sono ora lì accanto, che danzano e cantano litanie antiche e magiche; le luci si sono offuscate senza che nessuno abbia toccato gli interruttori, le tastiere continuano il loro ticchettio senza che nessun dito si muova su di esse. Io e le mie colleghe siamo impegnate in altro. E’ solo il mio pensiero, che si muove di me. Loro agiscono secondo i miei comandi, che sono i suoi; le vedo oltre il velo appannato dei miei occhi eccitati per quello che avverrà. E non avverrà certamente troppo presto. Perché ho calcolato tutto: ogni intervallo, ogni mossa, ogni parola, ogni emozione. Perché il piacere va assaporato un po’ alla volta, prima di giungere al culmine.
Mentre Mira continua le sue carezze, i suoi baci e massaggi su di lui, lui ride, facendosi parrucca dei capelli di lei, divenuti serpenti striscianti, su quel viso tanto amato e desiderato. In adorazione, resto, a comandare l’intercedere dei canti e delle danze e lo zampillare di fuochi fatui improvvisamente apparsi ai quattro angoli della stanza.
A grandi grappoli, Luna mangia uva rossa e bianca, il succo le cola dalla bocca al mento, si pulisce le mani sui pantaloni di lui, guardandolo fisso, sfidandolo, mentre lui ride, soffocato dalle lingue dei serpenti. Rosi prende a mordergli le braccia, e questo lo fa ridere ancor più forte. E’ nostro, non ci scapperà. E’ nostro, lui, e tutto, di lui, lo è. Ed ecco che arriva, forse troppo rapido, non ho resistito questa volta, il momento migliore, l’apice degli apici, la vetta delle vette, la cresta dell’onda, la cima del baobab. Mira, senza preavviso alcuno, affonda la mano nella sua carne, all’altezza dell’intestino: questo si deforma, non si produce ferita, non ne esce sangue, eppure lei trae fuori ciò che io volevo; sarà alleviato allora il suo dolore e mangerò io quanto di più desiderabile possiede. Vedo la mia mano allungata a prendere ciò che mi spetta per portarlo alla bocca. L’amore… l’amore è una goduria; tutto ciò che è suo lo è. Niente di più sublime…
- Appena può, per cortesia, mi stampi questa lettera.
Non doveva, non ora, non doveva farlo!!! Ritiro la mano di scatto. Tutto svanisce d’incanto, Mira è alla sua scrivania, e lo sono Luna e Rosi. Non sento più il gusto della sua merda nella bocca, non ne sono più colorate le mie mani, niente odore, niente sapore, niente amore, niente godimento. Ecco l’inferno!
L’inferno è lui, che non è altri che il mio capo-ufficio, che mi chiama “signorina“ e mi impartisce ordini senza guardarmi negli occhi, ché per lui non ci sono nemmeno. L’inferno è nelle sue viscere, che non posso possedere, e nelle mie, che si sciolgono in un pianto di diarrea.