Se
ne sta là, seduta. La penna, il foglio, la scrivania e l’oscurità
facile in cui stare. Persa nell’assenza dei contorni e degli
spazi, con l’unica certezza del suo respiro.
Si strappa a fatica da quell’abbraccio muto e incolore, e
accende la luce.
Mio caro, scrive curvando le o in cerchi perfetti, due vite chiuse
a recintare spazi bianchi, due margini da cui è possibile
cadere nel niente.
Mio. Prendersi come due capi usati, scovati fra i banchi di un mercatino
di paese, abbagliati dall’acquisto da non vedere il bottone
sul punto di cadere o l’orlo usurato della tasca. Già
logori di vita e di amori altrui. Sradicati, portati altrove da
vortici di vento come vecchi tronchi sterili. Rami secchi per brevi
fuochi, effimeri come il bagliore di una scintilla che t’inganna
di luce, ma non ritorna.
Lei pensa che si torna verso qualcuno, qualcosa che ti appartiene,
a cui si appartiene.
Mio caro, e sente quell’affetto, asciutto di odore e sapore,
abbandonarla come un’aura, lo vede incastrarsi in filigrana
fragile nelle due parole, la svuota e la lascia come una specie
estinta, incapace di riprodursi, forse stanca di lottare. È
lì, come un’impronta fossile e lei non può seguirla.
Lei è troppo lontana di corpo e carne, solida di solitudine.
Mio caro, e non c’è più niente oltre quella
sottile catena di lettere.
Non sempre si conclude quello che s’inizia. Ad un tratto la
fine si riavvolge sul suo stesso filo, come un gomitolo che si gonfia
sulle dita, e ad ogni giro imprigiona il suo inizio in un disordine
interno che attende di essere dipanato, liberato, per potersi poi
disperdere, forse, in un nuovo inizio.
Lei, ripercorre lentamente con un’unghia le due parole, accartoccia
il foglio e spegne la luce. Lo scintillio di una stella buca la
massa compatta del cielo, lei rimane a lungo a guardarla.
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Luna
piena
L’ora
di andare a letto è giunta. Peccato non potersene stare ancora
un po’ in terrazza e godersi il venticello che rinfresca la
sera e la pelle arrossata dal sole estivo.
“ E’ tardi Marianna, lava i denti e poi a letto!”
dice la mamma.
“ I denti, i denti”, sbuffa Marianna, “ me ne
fosse rimasto almeno qualcuno da lavare! Quelli che restano sono
tutti in fondo, chi vuoi che se ne accorga se sono puliti o no!!”
“ Lavali, così crescono più in fretta!”
ribatte la mamma.
“ Sarà, ma ho il sospetto che questa cosa qui non è
vera”, borbotta Marianna entrando in bagno.
La piccola finestra è aperta. Un bel pezzo di cielo è
perfettamente incastrato fra le tendine bianche, proprio come lo
zaffiro sull’ anello della mamma, uno splendido gioiello che
si riflette nello specchio di fronte. Marianna schiaccia il tubetto
del dentifricio e si guarda.
“ Beh! Un altro giorno è passato e non è spuntato
neanche l’ombra di un dente!” Fa una boccaccia e inizia
il rito, strofinando con pazienza e rassegnazione quel che resta
della sua dentatura. Strofina e sputa, strofina, sputa e si guarda,
risputa e si riguarda, ed ecco che nello specchio accanto al suo
visetto abbronzato appare l’immagine della luna piena che
luminosa si alza nel cielo.
“ Ciao!”, la saluta Marianna, mentre dalla bocca come
perline le schizzano bianche bollicine di dentifricio.
“ Buongiorno!” risponde la Luna con un grosso sbadiglio.
“ Ma tu parli?” dice Marianna stupita.
“ Certo, io sono educata e se qualcuno mi saluta io rispondo!”
replica la Luna con un tono leggermente polemico.
Marianna si risciacqua velocemente la bocca e rapida rialza lo sguardo.
“ Comunque è quasi notte, quindi dovresti dire buonanotte
e non buongiorno” risponde Marianna con il suo tipico atteggiamento
da “signorina so tutto io”.
“ Io mi sono appena svegliata e mi toccherà stare alzata
tutta la notte, e con questo buio e questo silenzio non è
molto divertente starsene da sola tutto il tempo.”
“ Ma il cielo è pieno di stelle, non sei da sola!”
“ Le stelle! Te le raccomando quelle! Se ne stanno sempre
alla larga e sono così lontane che se volessi chiacchierarci
un po’ dovrei urlare a squarciagola!”
“ Comunque ci sono tante persone che ti guardano da quaggiù
e ti fanno compagnia. Mia sorella, per esempio, quando è
innamorata passa le ore con il naso all’insù e ti fissa
con degli occhi! Mi sembra un pesciolino lesso.”
“ Non succede più come un tempo. Una volta mi dedicavano
canzoni, poesie. Ora, invece sembra che nessuno abbia più
il desiderio di un po’ di romanticismo. Forse sono diventata
troppo vecchia e brutta, nessuno ha più voglia di guardarmi
“, dice la Luna, e la sua voce si vela di tristezza.
“ Ma che dici! Forse sei solo un po’ pallida, un po’
di abbronzatura ti donerebbe!” ribatte Marianna.
“ Sì, lo so. Sono secoli che corro dietro al Sole,
ma lui è un dispettoso, quando mi vede spuntare, in gran
fretta va a nascondersi non senza avermi fatto prima uno sberleffo
facendomi luccicare il suo ultimo raggio proprio sotto il naso.
“ A questo possiamo rimediare” dice Marianna che già
armeggia con il fard della sorella maggiore.
“ Con questo le tue guanciotte avranno un po’ più
di colorito! E poi lo sai che i raggi del sole possono far male!”
E Marianna disegna due ampie pennellate nell’aria.
“ Ecco fatto, ora per favore dovresti fare un bel sorriso.
Te ne stai sempre con quell’aria seria seria . Mi sembri quell’antipatica
della mia maestra di matematica, invece la mia mamma dice che sorridere
fa diventare belle”.
“Ma tu lo sai che quassù non c’è neanche
una goccia d’acqua. Come posso sorridere se i miei denti sembrano
dei pezzetti di gorgonzola?”
“ Sei fortunata! Hai incontrato la persona giusta stasera,
io sono un’esperta! Per ora di denti ne ho pochi, ma so come
farli risplendere! “
E su e giù, destra e sinistra, con energia, Marianna spazzola
i denti dell’ astro riflesso.
“ Ora sei bellissima!”
“ Grazie!” E un candido sorriso si accende sulla faccia
luminosa della Luna.
“ Marianna!” chiama la mamma.
“ Ecco sono pronta!”
“ Luna, devo andare a letto. Buona notte!” dice Marianna
e appoggia la bocca sullo specchio per darle un grosso bacio sulla
guancia tonda.
La Luna le strizza un occhio.
“ Buonanotte piccola!” le sussurra nell’orecchio,
poi felice e sorridente riprende la sua passeggiata nell’immensa
notte blu.
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I
ragazzi certe cose non le sanno dire
Era
un tramonto vero,
di quelli che i pittori arrossano di arancio e qualche sbuffo rosa
e viola,
di quelli che i poeti usano per arrampicarsi sull’Olimpo.
Noi eravamo lì,
seduti sul muretto, dando le spalle al campetto dove giocavano a
tendersi le prime ombre.
Il mare ha avuto un ultimo fremito di colori, poi si è spento
in un altro grigio,
che non era ancora quello della sera.
- E’ bello stare qui- lui ha detto ed io ho riso,
perché i ragazzi certe cose non le sanno dire, ma lui quella
volta aveva detto proprio così.
Io ero felice abbastanza quanto mi bastava.
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Il
mio amico Jack
Lo
squillo si sovrappose a quello che stava udendo nel sogno.
Dannazione, non poteva svegliarsi proprio adesso!
Ma lo squillo si era intrufolato nel suo sogno con un’intempestiva
insistenza e benché cercasse di opporre resistenza al suo
risveglio e raggiungere l’onirico telefono , non ci riuscì
e annaspò per qualche attimo in quella ricerca ansiosa, finché
si accorse che l’ambiente in cui si trovava stava sbiadendo
piano piano fino a scomparire del tutto. Si ritrovò a scavare
nel buio della sua stanza con gli occhi che stentavano a mantenersi
aperti, mentre la mente brancolava come sbronza cercando di ricongiungersi
a quel corpo che sembrava non avere più muscoli né
ossa, ridotto ad una massa di carne, pesante e gelatinosa, che pareva
non appartenere a lei ma ad un lottatore di sumo.
“Driiin!!Driin!!”
“Dannazione!” farfugliò con le labbra ancora
intorpidite, mentre la lingua pastosa e asciutta, le si attaccava
al palato.
In qualche modo cercò di dominare il braccio indirizzandolo
verso il telefono.
“ Pronto! Ma chi è?” e stavolta le parole, alimentate
dalla rabbia, le uscirono molto più chiare.
Dall’altro capo del filo le giunse solo un impenetrabile e
irritante silenzio.
Riattaccò e imprecò contro chiunque avesse avuto l’indelicatezza
di svegliarla nel bel mezzo del sogno più strabiliante che
avesse mai fatto e chiudendo gli occhi si augurò che riaddormentandosi
potesse raggiungere il telefono che aveva lasciato squillare nell’
ovattato mondo della notte.
“Driin!! Driin!!, l’apparecchio riprese a produrre il
suo fastidioso suono.
Ora lei era completamente e irrimediabilmente sveglia .
“ Pronto!!” urlò con una voce che le sembrò
non essere la sua tanto era stizzosa e acuta.
“ Ehi!”, le disse una voce strascicata e irreale.
Le sembrò di essere finita in un incubo.
“ Non è possibile”, pensò “ sto
parlando al telefono col mio sogno!”
Cercò di convincersi di essere veramente sveglia accendendo
la luce e si mise seduta , appoggiando le spalle alla spalliera
del letto.
“ Ma chi parla?”
“ Ciao, amore!”
“ Sei tu! Ma sei impazzito? Lo sai che ora è?”
“ Sì, amore!”
“ Smettila, è finita! Devi lasciarmi in pace!”
“ C’ è qualcuno che ti vuole salutare, il mio
vecchio caro amico Jack!”
“ E chi c…. è?”
Una risata fragorosa seguì in risposta alle parole di Luisa.
“ Jack! Ti presento Luisa, la donna che ti ha già dimenticato.”
La risata si riaccese un po’ più amara, bassa, che
le sembrò quasi di confonderla con un pianto sommesso, malcelato.
Poi dall’altro capo del ricevitore Luisa sentì un tintinnio
di vetri e lo sciabordio di un liquido che veniva versato.
Doveva immaginarlo, era ancora una volta in compagnia della sua
bottiglia.
Ci sono donne che temono di essere tradite, quelle che si sentono
insicure o trascurate. Lei aveva avuto come unica rivale una bottiglia
di whisky! Già, proprio il caro amico Jack !
C’era sempre stato lui fra loro due. C’era il giorno
della sua laurea quando lui si era presentato ubriaco e si era addormentato
sulla sedia fra l’imbarazzo generale. Jack era stato il protagonista
alle loro nozze. Ma erano giovani allora, e innamorati!
Poi fu Jack a suggerirgli di mollarle il primo schiaffo, a cui ne
seguirono altri e poi altri ancora, sempre più forti e più
violenti finché non le restò che ammettere che Jack
aveva irrimediabilmente intrappolato la loro esistenza nel suo liquido
biondo che ne era diventato il padrone, e lei doveva uscirne.
Luisa dal suo letto si guardò intorno. Il passato le sembrò
lontano. Era serena ora.
La voce di Carlo era diventata sempre più intermittente e
le parole più incomprensibili, prima di riattaccare riuscì
a sentire appena che continuava a ripetere “ Sai, Jack è
mio amico, lui non mi abbandona, non mi tradisce….”
Il clic mentre interrompeva la telefonata le sembrò la nota
più dolce che avesse mai sentito. Scivolò sotto le
coperte senza spegnere la luce. Voleva addormentarsi guardando tutto
ciò che le era familiare, la sua stanza , il bicchiere d’acqua
sul suo comodino, il cuscino su cui aveva ricamato il suo nome,
i suoi abiti in disordine sulla vecchia poltrona. E con la certezza
di essere sola.
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A
proposito di quello che mi hai detto
Me
ne sto qui seduto sul divano e tutto è come sempre. La sedia
è dove l’hai lasciata, qui vicino, perché ti
piace appoggiarci i piedi scalzi mentre leggi quel libro che ti
sta prendendo così tanto, e se infilassi la mano fra i cuscini
sono sicuro che ci troverei qualche briciola dei biscotti al cioccolato
che ami sgranocchiare dopo cena.
C’è il posacenere sul tavolo basso. Mi sembra di sentirti
mentre fai finta di arrabbiarti perché trabocca di cenere
e di cicche, e alzi la voce e agiti le braccia e poi, con l’abilità
di una ladra, mi rubi la sigaretta che ho appena acceso, e la lasci
in quel tuo sorriso, con un’aria di sfida. Poi ti siedi accanto
a me e mi parli, dimenticandola fra le dita, lasciando che io la
guardi consumarsi a poco a poco, desiderandola come un trofeo perso
nella finale di una gara.
Ti guardo spesso sai, lo faccio di nascosto, per amarti mentre ti
versi nel bicchiere quel ridicolo goccio di whisky che lasci annegare
miseramente nel ghiaccio che lento si scioglie al calore della tua
mano. Sono certo che non ti piace bere quella roba, che lo fai solo
lasciarti guardare. E penso che sei bella quando accenni allegra,
qualche passo di danza. Ti succede quando credi di non essere osservata,
magari mentre ti prepari uno spuntino di là in cucina. Tu
pieghi le ginocchia appena appena e dondoli le anche, impercettibilmente,
e la testa segue il movimento.
Sarei capace di cantare la stessa canzone che in quel momento vibra
nella tua mente solo guardando il morbido flusso delle tue movenze.
Posso anche indovinare la tua rabbia seguendo le tue dita che nervose
tormentano una ciocca di capelli annodandola e sciogliendola con
l’abilità di un giocoliere. E mi piace ascoltarti quando
canti mentre fai il bagno, e invento mille scuse con me stesso per
passare mille volte accanto alla tua porta. Lo faccio solo per sentire
la tua voce che galleggia fra le bollicine del tuo bagno schiuma
e perché mi piace immaginare la tua faccia che si perde in
una nuvola di vapore e di pensieri.
Già, i tuoi pensieri.
E’ così facile intuirli ora che di te conosco ogni
mossa. Tu non riesci a nascondere niente sotto la tua pelle, ogni
tuo gesto mi parla a voce alta e mi rivela ogni tuo più piccolo
segreto, così come fai tu, quando ti siedi accanto a me incrociando
le gambe e mi parli della tua giornata. Ne racconti ogni particolare,
minuziosamente, come se ogni cosa successa avesse avuto la stessa
importanza di un evento sorprendente.
E vorrei dirti che a proposito di quello che mi hai detto, sì
, che non mi ami più, così mi hai detto, sai io non
ci ho creduto.
No , proprio non ho potuto.
Io ti guardavo stamattina mentre lo dicevi e intanto non riuscivo
a distogliere lo sguardo dalla tua bocca.
Non poteva essere vero, perché eri così adorabile
con quella briciola incastonata proprio lì nell’angolo,
dove le tue labbra si uniscono come la punta di una freccia. Io
carezzandoti appena con un dito ho lasciato che la briciola cadesse,
tu mi hai sorriso proprio come si sorride a qualcuno che si ama,
e ho aspettato che mi dicessi che era stato solo uno scherzo.
Volevo darti un bacio quando ti sei chinata lentamente e hai preso
quella borsa e sembravi una bambina che era stufa di continuare
il gioco e se ne andava, lasciando nel disordine la sua stanza dei
giocattoli.
Sì, volevo proprio baciarti e stringerti, ma non l’ho
fatto e neanche tu l’hai detto. Sì, quella cosa che
era stato solo un gioco, per ridere un po’, per prendermi
un po’ in giro.
E mi hai guardato. Ed era uno sguardo che non conoscevo. E’
stato solo allora che ho capito che era proprio vero che non mi
amavi più e che se ti fossi voltata per andare via non ti
avrei più rivisto.
E’ strano che ora me ne stia seduto qui sul divano pensando
a quello che è successo e ti parlo, come se tu potessi ascoltarmi
e rassicurarmi come sempre.
Invece guardo i tuoi occhi in cui è rimasta impressa come
in una fotografia quell’espressione strana, che io non avevo
mai visto e c’e quel rivolo di sangue che esce dalla tua bocca
, sì proprio lì, dove le labbra si uniscono come la
punta di una freccia.
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La
notte di una parola
Il
sasso per un attimo sparì seguendo una traiettoria silenziosa,
poi rimbalzò sull’acqua frantumandone la tranquillità
della sua apparente immobilità. Uno scoppiettio d’acqua
sordo, quasi un frullio d’ali, poi ancora silenzio. Il sasso
sparì nuovamente finché non bucò un punto misteriosamente
vuoto tanto era lontano. Lui non sapeva da cosa nasceva quella notte,
forse dalle tante che aveva liquidato semplicemente standosene ad
occhi chiusi, facendo il gioco del “ se fosse stato”.
Se fosse stato con un’altra.
Se fosse stato in un altro posto.
Se fosse stato un giorno di pioggia.
Se fosse stato ancora ieri.
Ma era una notte vera, senza luci, senza stelle, senza voci in lontananza.
Era notte ed era buio da perderci gli occhi.
“ Di’ qualcosa!”
La voce di lei sembrò emergere da quel buco d’acqua.
Pesante e stanca come dopo un lungo viaggio. Chiusa, come a volere
tenere ben stretto il segreto di quell’ Atlantide sommersa
dove lei viveva e si nascondeva.
“ Certezza….”
“ Che vuoi dire?”
“ Non so, qualcosa tipo che se lancio un sasso so che cadrà,
magari non so dove, ma di sicuro cadrà.”
Parlando continuò a guardare davanti a lui, ricostruendo
nella mente il volo del sasso. Ne seguì il percorso, disegnandone
la sequenza con fotogrammi tratteggiati nella massa compatta del
mare che sbavava cercando di lambire i suoi piedi, senza riuscirci.
Lo immaginò mentre pesantemente infrangeva la tensione della
superficie liquida, per cadere poi privo di peso sul fondo. Lo vide
posarsi sollevando una impalpabile danza di sabbia che frenetica,
eccitata si quietava nello spazio di un attimo, riconquistando il
suo ordine lasciandosi cadere silenziosa.
Era lì, di sicuro il sasso era lì dove lui pensava
che dovesse essere.
“ Non so” proseguì “ qualcosa tipo che
se dovessi immaginarti vorrei avere la certezza che i tuoi capelli
siano lunghi e neri.”
Come allora, pensò.
“ Sei libera?” le aveva chiesto.
Perché le aveva chiesto quella cosa? Poteva scegliere fra
milioni di domande, ti piace la marmellata d’arancia? Quale
colore preferisci?
Invece lui l’aveva incontrata in quel locale, ci aveva parlato
per un po’ e poi a bruciapelo gli era venuta fuori la domanda
più assurda del mondo.
Ecco, aveva pensato, ora la vedrò mentre mi girerà
le spalle, le guarderò la schiena nuda attraversata solo
da due sottili strisce bianche tese sulla pelle ambrata. Due binari
da percorrere con le dita, un viaggio, sì un viaggio. Non
la rivedrò mai più, aveva pensato con rabbia.
Un lieve ondeggiare dei capelli neri e poi svanirà fra la
folla, ingoiata da un’altra dimensione, dove i sì o
i no non hanno senso, dove la vita non ha interrogativi, non chiede
risposte. Una dimensione a lui ignota, incomprensibile.
Invece lei l’aveva guardato come se lo avesse visto solo in
quell’istante. Le guance le si erano gonfiate sollevandosi
mentre un sorriso divertito le era apparso sul viso.
“ Scoprilo!”
Scoprilo.
Girò appena la testa verso di lei, come se volesse accertarsi
che quella figura seduta nel buio fosse la stessa persona che aveva
pronunciato quella parola e la sorprese mentre nell’ombra
si passava le dita fra i capelli.
“Non capisci vero?”
“ No”. La voce di lei risuonò lontana.
Lui pensò al grande albero di magnolia nel giardino di casa
sua. Alle sue foglie dure e lucide che scintillavano immobili al
mattino, ai grandi fiori che si aprivano come fazzoletti inamidati
nel taschino di un abito da sera.
Da bambino riusciva a toccarne i rami, a volte un fiore sbocciava
basso, così basso da poterlo toccare, coglierlo.
Lui guardava i candidi petali ingiallire solo sfiorandoli. Una colomba
senza vita, senza volo, che sfioriva fra le sue dita.
Il grande albero era sempre lì, solido e forte. I rami robusti
si aprivano alti e lontani ormai, e degli alteri fiori s’intravedevano
piccoli lembi bianchi come straccetti lasciati cadere dal vento
fra il fitto fogliame.
Erano lì, lui all’alba ne percepiva il profumo, lieve
e irraggiungibile.
Come lei, pensò.
“ Sono stanco di cercare. Sono stanco di questo viaggio nel
buio. Sono stanco di cercarti.”
“ E’ finita vero?”
“Si”
Prese una manciata di sassi e la scagliò in mare. L’acqua
si animò di cerchi concentrici mentre le pietre la colpivano
con violenza col fragore di uno scroscio. E questo bastò
a coprire i passi di lei che si perdevano nel buio.
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Misfatto
d’Agosto
Era il 20 di
agosto e la giornata era calda e afosa come sempre in quei giorni
e neanche la vicinanza del mare dava un po’ di sollievo. La
calura tremolava in una soffice foschia all’orizzonte, e la
luce biancastra era accecante.
Erano le nove del mattino e tutto il paese era in fermento. All’alba
le sirene delle volanti e dell’ambulanza avevano risvegliato
gli abitanti prima del solito e la notizia si era diffusa come un
incendio fra le sterpaglie. Qualcuno, sentendo tanto trambusto,
era perfino corso in pigiama sulla strada, pensando che un pericolo
minacciasse la propria vita. In un attimo fra le stradine ancora
sonnacchiose erano iniziati a risuonare voci e nomi.
“Don Nicola, che succede?”
“ Hanno arrestato a De Riso!”
“Arrestato?”
“ Sì, sì. È una tragedia!”
“ Perché? Che è successo? Don Nicola! Don Nicola!
... Franco! Franco che è successo?”
“ Mah! Pare che hanno arrestato a Dipino!”
“ Dipino?
“ Sì, Dipino”
“ Don Nicola mi aveva detto De Riso?”
La confusione nelle prime ore era stata enorme. Ora nella piazzetta
assolata, una piccola folla si accalcava intorno al reporter. Non
era mai accaduto che un giornalista fosse giunto nel piccolo paese
per raccogliere a caldo qualche intervista, ma neanche, d’altra
parte, c’era mai stato niente di eccezionalmente rilevante
nella tranquilla vita di paese.
Incuriositi dai microfoni e dalle telecamere, la gente, a spintoni,
si stringeva in un cerchio sempre più stretto e vociante.
Ormai tutti sapevano perfettamente cosa avesse sconvolto il loro
tranquillo paesino in quel giorno di agosto. Tutti volevano dire
qualcosa, tutti volevano in qualche modo sentirsi protagonisti dell’evento,
tutti speravano di leggere il proprio nome sulle pagine dell’importante
quotidiano fossero state anche quelle di cronaca nera.
“ Sì, era un tipo calmo. Prendeva il caffè ogni
mattina al mio bar, poi leggeva il giornale. Ogni tanto scambiava
qualche chiacchiera. Sì, tranquillo.”
“ Io lo conoscevo di vista, anche se qui in fondo, chi più
chi meno, ci conosciamo un po’ tutti. Il paese è talmente
piccolo! Io ho sempre pensato però che fosse un tipo strano.”
“ No, no, che dite! Strano no. Viveva solo ormai, a me è
sempre sembrata una persona discreta e perbene, forse un po’
solitaria ma equilibrata. Ehi! Rosa di’ qualcosa tu! Signore,
signore fate parlare Rosa, lei era la sua domestica.”
“ Rosa! Rosa!”
Una donnetta vestita di nero, dall’aria spaurita venne sospinta
a forza verso il microfono.
“Rosa, Rosa, ià, nun te piglià scuorno!”
“E che devo dire? Lui voleva sulo ogni cosa a posto. Io facevo
il mio lavoro. Chi so credeva ca usciva pazzo!”
La piccola stazione di polizia era in subbuglio. Le autorità
al completo vi si erano riunite. Un fatto del genere non si era
mai verificato. Nessuno sapeva di preciso come ci si dovesse comportare,
ma per non sbagliare, sindaco e giunta comunale avevano deciso che
dovessero essere presenti. Si aggiravano , agitandosi come moscerini
alla luce di un lampione, nelle stanzette del comando, lanciando
ogni tanto occhiate curiose all’arrestato.
Il signor De Riso se ne stava seduto sulla piccola branda e fissava
insistentemente la parete di fronte. Se il suo sguardo non fosse
stato così vitreo, sarebbe sembrata semplicemente una pacifica
persona pazientemente in attesa.
La sua figura era composta, forse troppo minuta per la giacca di
lino bianca che, morbida e un po’ stropicciata, gli cadeva
sulle spalle magre. Le sue mani erano appoggiate sulle ginocchia
in un atteggiamento quasi femmineo. Il viso era magro e si allungava
in un mento puntuto e un po’ curvo che gli dava quasi l’aspetto
di un personaggio fiabesco. I capelli erano radi e neri, perfettamente
pettinati all’indietro a coprire un’ampia calvizie.
“ Sembra tranquillo, comandante!”
“ Gargiulo, non diciamo fesserie, quello può essere
capace di tutto! Non lo perdere di vista. Tranquillo!! Tranquillo!!!
Qui nessuno è tranquillo dopo quello che è successo!”
L’avevano trovata all’alba. Stesa sulle strisce pedonali,
le stesse dove, da qualche mese, lei ogni mattina faceva servizio
come vigile urbano.
Alle otto in punto raggiungeva, ligia al dovere, il suo posto. Usciva
da casa, con un passo scandito, regolare, quasi militare, stringendo
fra le mani il suo fischietto. Non era molto alta, ed era decisamente
bruttina, ma con quella divisa e il cappellino blu scuro dalla larga
falda bianca calato sulla fronte, si sentiva un’autorità.
Si piazzava al centro della strada e fischiando ininterrottamente
dirigeva il traffico che in estate era moderatamente più
intenso del solito.
Mai un sorriso, mai uno sguardo gentile, solo una serie infinita
di fischi che accompagnava sonoramente il passaggio di ogni singola
vettura e che s’interrompeva solo alla fine della giornata
col concludersi del suo turno di lavoro.
L’avevano trovata così, strangolata e precisamente
al centro della strada. Dove avesse trovato la forza per trascinarla
fin lì, quell’omino che all’apparenza sembrava
così fragile e mingherlino, sarebbe rimasto un mistero. Comunque
in qualche modo l’aveva fatto e a completare il suo piano
delittuoso le aveva messo nella bocca un fischietto.
Sì , l’aveva trovata lo spazzino. Sembrava che dormisse.
Poco distante seduto su una panchina c’era il signor Di Riso.
“ E’ morta! Adesso non c’ha più neanche
un po’ di fiato per fischiare!”
“ Madonna Santissima! Che avete fatto?”
Il signor Di Riso non aveva detto più nemmeno una parola,
neanche quando pochi minuti dopo era arrivata la prima pattuglia
di carabinieri.
Muto e senza reagire si era lasciato portare al comando. Quando
la sirena aveva iniziato a risuonare nel paese ancora addormentato
e la macchina aveva iniziato la sua corsa, lui aveva lanciato uno
sguardo al balconcino fiorito di casa sua.
Aveva sorriso.
La stanzetta dove era stato rinchiuso era piccola e fino ad allora
non era mai stata utilizzata come cella.
Il signor De Riso si era seduto in silenzio sul duro lettino. Sembrava
sereno.
“ Fate attenzione comandante! In macchina mi è sembrato
di averlo visto sorridere. Forse è pazzo.”
“ Allora signor De Riso, mi volete dire cosa è successo?”
“…”
“ Noi ci conosciamo, abbiamo preso il caffè insieme
tante volte e la buonanima di vostra moglie mi mandava sempre a
Natale un barattolino di marmellata di amarena, parlate!”
“…”
“ Signor De Riso, dite qualcosa!”
Il signor De Riso aveva abbassato leggermente la testa guardando
un punto sul pavimento grigio.
“ Io da quando Nannina è morta, tengo una sola cosa
che mi fa compagnia, il suo ricordo. Quella lì fischiava,
fischiava, fischiava come dentro a un film americano. Io glielo
avevo detto al comandante dei vigili, sì, sì, glielo
avevo chiesto con gentilezza, per favore comandante, diteglielo
di fischiare di meno. Ma quella il fischietto non se lo toglieva
mai dalla bocca, fischiava, fischiava. Io, sapete, tengo un terrazzino
al primo piano. Nannina c’aveva la passione dei gerani, io
me ne stavo seduto e la guardavo. Pareva un passerotto con quelle
mani. Ora Nannina non c’è più, ma a me mi piace
stare seduto lì a guardare il mare. Ma quella continuava
a fischiare, a fischiare, e io non riuscivo più a sentire
nemmeno il rumore dei miei pensieri, io guardavo il mare e ce l’avevo
nella testa, fiiii! fiiii! fiii! Ve l’ho detto, io tengo una
sola cosa che mi fa compagnia, i miei ricordi. Sapete era bella
Nannina, e come era bella quella musica che suonava con quelle foglie
secche.”
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La
prima volta
Lo
scroscio d’acqua del water forma un mulinello anche nella
mia testa. Con energia risciacquo i denti e la bocca cercando di
non pensare ai fiotti di vomito che poco prima mi hanno scossa e
svuotata. Il sapore forte del dentifricio a menta ora mi brucia
nella gola arsa.
Strofinare, strofinare, non pensare, non pensare. Vorrei consumarmi
dentro fino a non lasciare che un involucro privo tutto. Una buccia
senza più ricordi di stagioni, incolore, senza emozioni.
Mi impongo di non guardare nel minuscolo specchio che con la sua
cornice di plastica rossa interrompe la monotonia delle mattonelle
bianche e grigie. Che motivo c’è di scoprire quale
espressione scompone ora il mio viso? Cosa potrei scoprire se non
una me stessa che ho già incontrato mille volte. Fisso invece
l’alone giallognolo che la lampadina diffonde nell’opaco
lavandino, sembra una stella morente. Evito sempre la mia immagine
e prendo l’asciugamano sulla mia destra. E’ morbido,
l’annuso mentre mi asciugo, ha un buon odore di pulito.
Apro la porta del bagno e Ivoire è lì, ferma in un’attesa
che non ha ancore. Anche lei è solo un legno alla deriva.
Va tutto bene? Sì.. sì, non è niente, dico.
Sì non è niente, è solo affrontare questa fottuta
prima volta che ti lacera, che ti scortica, e non puoi farci niente
se non ti resta niente per evitarla.
Ivoire abbassa la testa e fissa per un attimo le sue gambe avvolte
nelle calze a rete nere. Lo so che lei ancora se ne vergogna, so
che vorrebbe dirmi più di quelle tre parole. Ma dirmi cosa
poi? Non farlo, vedrai che tutto s’aggiusta? oppure qualche
frase fatta tipo ci farai l’abitudine, non pensarci? No, meglio
questo silenzio verso cui già sento di non avere più
obblighi o rancore. Mi volta le spalle portandosi dietro il suo
profumo scadente. Mi siedo e fisso l’anta a specchio aperta
del piccolo armadio dove gli abiti, come flosci fantocci si abbracciano
stretti e si affollano in un disordine variopinto e chiassoso quasi
a prendersi gioco dell’immobilità di questa sera che
ristagna nella stanza e della pesante solitudine dei gesti. Guardo
Ivoire riflessa nello specchio mentre percorre i pochi passi che
la dividono dal letto. Si siede sul bordo e infila con una lentezza
quasi irritante i lunghi stivali di pelle lucida.
Le guardo gli abiti vistosi, provocanti, sono volutamente volgari
e stridono con i caldi colori del copriletto batik. L’ho vista
tante volte tornare a casa all’alba dopo il lavoro. Facevo
finta di dormire, invece la spiavo. Spiavo i suoi occhi spenti,
le labbra secche e sbiadite come carta velina. Ogni tanto richiudevo
gli occhi , avvertivo i suoi gesti, e percepivo la rabbia con cui
si svestiva. La guardavo poi addormentarsi, avvolta in quella tela
che nel sonno le aderiva al corpo come una corteccia e le ridonava
come per incanto una sorta di innocenza semplice e selvaggia, come
la sua terra troppo lontana da quella misera stanza di periferia.
Non parliamo, sì, lo sappiamo che in fondo non c’è
niente da dire e non c’è altro da fare ormai.
No, forse dovrei piangere ancora un po’, dovrei colmare in
qualche modo di voci e gesti questo fottuto vuoto che si è
comprato in poco tempo tutto quanto mi apparteneva, il profumo del
pane nel cestino della merenda, le mani che annodavano i miei capelli,
le filastrocche delle conte, le passeggiate al mare, ma ho fretta,
fretta di fissare dentro qualcosa d’importante, prima che
diventi impalpabile come pulviscolo fra i fasci di luce dei fari
abbaglianti e le occhiate meschine dei passanti.
La prima volta in cui avrei fatto l’amore doveva essere perfetta.
Sì, così mi dicevo, e lo era stata perfetta. Io e
Marco avevamo aspettato che nel cielo si alzasse la luna piena.
E il chiarore si era infilato fra le fessure delle persiane chiuse
per adagiarsi sulla nostra pelle. Ci eravamo scoperti così,
dimenticando la paura, e percorrendoci con le dita seguendo quella
luce fioca che si insinuava fra i nostri corpi timidamente nudi.
Afferro questo ricordo con un respiro profondo, sì voglio
afferrare tutte le incertezze e lo stupore di quella notte teneramente
nitida di carezze che aveva travolto d’amore e sensi i miei
sedici anni. Il sentore umido e salmastro delle lenzuola, gli scricchiolii
dei legni vecchi che ci faceva stringere di più, più
forte e ancora una volta, il caminetto spento che ci guardava, dove
riporrò tutto questo? come potrò mai conservarlo?
Il tempo, penso, ha rubato tante cose senza che io me ne rendessi
conto, si prenderà anche quei momenti, si prenderà
tutto quanto nascondendolo per sempre sotto cataste di squallidi
mugolii di piacere, sotto corpi senza volto e senza nome.
Mi guardo nello specchio, poi chiudo gli occhi e tutta la dolcezza
di allora riaffiora ancora viva, violenta. E vorrei essere cieca
per sempre.
Ivoire mi viene accanto e mi appoggia una mano sulla spalla.
“ Va tutto bene?”
“ Sì.. sì, non è niente.”
Mi alza il mento con un dito, sento la leggera pressione della lunga
unghia, i nostri occhi s’incrociano e le labbra s’inarcano
in un sorriso amaro. Non è niente.
Poi Ivoire prende un rossetto e con gesti lenti e precisi inizia
a passarlo sulla mia bocca.
Canta Ivoire, un canto sommesso, un canto d’Africa che le
resta in parte prigioniero in gola. Lei, donna ingannata, tradita,
violata, io la sua maschera, il dono degli dei in questa notte senza
più dio. Ci teniamo la mano e ancora non c’è
niente altro da dire. Siamo due radici di mangrovia che s’intrecciano
nel segreto di questa putrida palude, affondiamo, affondiamo.
È ora di andare. Fa freddo stasera, qualcuno comprerà
un po’ di calore.
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MI
SENTITE!!!!
DOPO
UNA SERIE DI MESSAGGINI SCAMBIATI CON TERESA,
E UN PAIO DI TELEFONATE ECCO CHE L'INCONTRO E' COMBINATO. APPUNTAMENTO
AL RISTORANTE " LE VIGNE". GIA'! QUALE POSTO PIU' IN TEMA!
L' AUTUNNO E' ARRIVATO E I NAUFRAGHI SI SA, NON SONO INSENSIBILI
AI PIACERI DI BACCO!!
A
DISPETTO DELLA NOTA LENTEZZA DI NOI MERIDIONALI ARRIVO IN PERFETTO
ORARIO COME UN OROLOGIO SVIZZERO, NE GONGOLO COME UNA PENDOLA.
NEL
TRAGITTO IN TAXI (COMUNQUE TROPPO BREVE!!) MI SONO RIPETUTA MILLE
VOLTE, " NON ESSERE TIMIDA, NON ESSERE TIMIDA, NON ESSERE TIMIDA...."
QUESTO HA PROVOCATO UN REPENTINO ABBASSAMENTO DI VOCE CHE HO CERCATO
DI CELARE SFODERANDO UN SORRISO ALLORCHE' HO RICONOSCIUTO I NAUFRAGHI
CHE SOSTAVANO ALL'INGRESSO DEL RISTORANTE.
ALL'INTERNO
L'AMBIENTE E' CALDO ED INFORMALE. MI SIEDO ACCANTO A TERESA QUASI
AD ANCORARMI AD UN MOLO NON PROPRIO SCONOSCIUTO, AVER GIA' PARLATO
CON LEI AL TELEFONO MI RENDE MENO NERVOSA.
ACCANTO
A TERESA SIEDE PAOLA,
MA LA MASSA DI LUNGHI CAPELLI BIONDI DI TERESA ME LA NASCONDE QUASI
COMPLETAMENTE.
QUALCOSA
DELLA SUA VOCE MI ARRIVA FILTRATA, MA RIESCO A COGLIERE UNA LEGGERA
R ARISTOCRATICA CHE LE GORGOGLIA NELLA GOLA, MA FORSE E' IL VINO
CHE VIENE VERSATO NEI BICCHIERI, NON SAPRRRREI!!!
SUPERIAMO
IL PRIMO MOMENTO D'IMBARAZZO D'OBBLIGO FIONDANDOCI SUI MENU', MA
E' L'ATTESA DEI PIATTI CHE METTE A DURA PROVA LA NOSTRA CAPACITA'
DI SOCIALIZZARE!!!
GIORGIO
MI STA DI FRONTE E MI SPARA LA PRIMA DOMANDA.
"
E ALLORA?"
DIO,
PENSO, FA CHE MI VENGA FUORI UNA COSA INTELLIGENTE, SOBRIA, SPIRITOSA,
COLTA, SIMPATICA, POETICA, INTELLETTUALE, SCHIANTOSA, INDIMENTICABILE
ECC..
"
E ALLORA?" RISPONDO!!!!
CACCHIO!
PENSO, QUESTA E' DAVVERO UNA RISPOSTA FENOMENALE, COMUNQUE
IL
GHIACCIO E' ROTTO,FRANTUMATO, ORMAI NON CI RESTA CHE LASCIARE ANDARE
LA BARCA....NON ESSERE TIMIDA...NON ESSERE TIMIDA...NON ESSERE TIMIDA...
OK! BEVO UN ALTRO PO' DI VINO!!!!
SBOCCONCELLANDO
DELIZIOSI GNOCCHETTI AVVIAMO LA CONVERSAZIONE. SI SPAZIA DA VERI
NAUFRAGHI SU OGNI ARGOMENTO, SBOCCONCCELLIAMO ANCHE QUELLI, UN PO'QUI,
UN PO' LI', SALTELLANDO DA ANEDDOTI PASSATI, AI FIGLIOLI, PASSANDO
DA QUALCHE COMMENTO IN VIVA VOCE SUGLI ULTIMI RACCONTI.
LUCA
E GRAZIA SONO VICINI, LUCA E' UN VERO MATTATORE, GRAZIA E' DOLCISSIMA.
TERESA
E PAOLA OGNI TANTO SI LANCIANO IN UNA FITTA CONVERSAZIONE, IO MI
SPORGO UN PO' PER AFFERRARNE QUALCHE PAROLA " RRRR.....RRRR....RRRR",
TERESA SI GIRA VERSO DI ME E SORRIDE E CI SCAMBIAMO QUALCHE IMPRESSIONE.
PAOLA SI SPORGE UN PO' PER AFFERRARE QUALCHE PAROLA " ....
.... .... .... ..." CI SCAMBIAMO UN SORRISO ATTRAVERSO LA TEMPESTA
DEI CAPELLI DI TERESA.
LA
SERATA SCORRE PIACEVOLMENTE E SI CONCLUDE CON BACETTI, SALUTI, ARRIVEDERCI,
A PRESTO.
A
PRESTO!!!
(...
l'altra campana)
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