Rotola la vita
di Maria Laura (poesia di
Tonino)
Racconto storie, lo faccio per mestiere. Qualche volte anche per
vivere, anche se capita sempre più di rado. Le graffio
alla memoria se sono fortunato, più spesso le rubo alle
canzoni. Una volta scrivevo le canzoni, ma anche questo è
successo tanto tempo fa. Adesso che ci penso non so se è
vero oppure è una delle mie bugie.
Dicono
che sono bugiardo, anzi mi chiamano il bugiardo, non male per
un mediocre come me, precipitato dalle stelle di un cielo distante
a quelle di un biliardo di periferia. Sì va bene, beccato,
è una canzone: ma che male c'è se mi piace definire
il mio tempo stiracchiandolo qua e là sul ritmo e sui versi
che qualcun altro ha scritto per me.
Per
lo spazio di un istante chiunque può essere paroliere dei
miei sogni, lo spartito però è mio e ogni giorno
lo invento e scrivo e sono sicuro che qualcuno là nell'immensità
mentre rotola la vita sta pensando a me.
E
vabbè...
Ho fuliggine nel cuore, mani grandi e voglia di fuggire. Ora che
ci penso ho sempre voluto fuggire perché io vagabondo che
son io vagabondo che non sono altro....
Un
tempo - brache corte, lunga fame,
birille, pallonate, "figurine",
Natale schiaccianaso alle vetrine -
l'aria sapeva d'aria, di legname,
di pane, vino, gatti, d'erba e strame,
di fumi che in paciose serpentine
narravano tepori di cucine,
locomotive nere, sogni, brame...
Neanche questa è mia.... L'ho scovata dondolante legata
alle mollette di un filo obliquo di un sogno lungo un giorno,
mani graziose appendevano la trama, scostando, garbate, da lenzuola
fradice un pollicino di bambino col naso appuntito e un mento
birichino rivolto verso il cielo.
Non
aveva nome la donna, ma morbida carne, profumo d'amore nutrito
a miele e antica saggezza, scuro lo sguardo cerbiatto, maliziosa
la bocca sporcata da un rosso rubino. Nato da un suo desiderio,
sgusciato dal morbido di vesti che giocavano lievi col vento d'un
terrazzo distante dal mondo, quel pinocchietto bambino. Sorridevano
al sole, candeggina dei poveri, i cuori strappati dai petti ruotavano
raggi distanti, conditi dal riso di madre e bambino. Mammagrassotella,
paneburromarmellata, figlio panciavuota nel gioco incerto del
destino, sospesi al parapetto d'una terrazza cieloterra, colonna
sonora il fischio ineuguale d'un treno filante.
Un
treno che uguale ha fissato nel buio degli occhi pinocchiobambino,
straccetti puliti a vestito, rinfagottato nel verde di un paltò
rivoltato, ricordo pesante di un soldato d'amore distratto. Natale,
la fiera, la neve che sciacqua il dolore, vetrine lavate a miseria,
spaghetti spezzati raccolti nello zucchero di un blu di carta
di mare. E pane, pane, tanto pane giocato in forma di treno caricato
a doni per un gesubbambino di pasta e di ceci.
Un
mezzo rossovino nelle mani di mammapiccina rideva e strideva la
mestizia degli occhi, mentre il cuore diceva: si mangia, si mangia,
si vive bambino...
Nerofumo
la cucina, larga piazza di paese dei balocchi, incollati a spezzate
mattonelle sogni frammentati in figurine, balocchi di bambino
senza soldi, rubate ai ricchi spreco e pianto, fintodore di caldarroste
buone, il legno della tavola coperta di lenzuola da stirare, mentre
il camino sfrigola carbone e mammamore riempie il vecchio ferro,
pesante più di vita, allegro come amore da donare a bimbo
pinocchietto, mentino auguzzo e sguardo spaventato. Frittelle
di farina, acqua e mele raccontano del tempo che incatena, magro
di carne, grasso di sogni profumano di sugo, tagliatelle, fagiolini,
zucchine, polpettine coi piselli. La levo di miseria questa mamma
la porto nel più bello dei suoi sogni, la cullo come fata
di montagna, intreccio di colore i bei capelli. Domani sono grande,
lo tiro nella rete quel pallone, ti giuro mammabella mammamore
ti rendo quella vita che m'hai dato con gli interessi di una vitapiena.
Dividere
col gatto pane e latte, muso a muso in ciotole di rame, sconfiggere
i morsi della fame gettando l'amo ghiotto dentro al fiume.
Scrosci
d'acqua remoti confusi alla memoria, salici antichi viscide le
foglie capaci a trattenere storie e menzogne di un bambino onesto
che correva scalzo e stracciato lungo un sentiero che sembrava
fiume ed era amore vero. Non torna Pinocchio dalla pesca, non
c'è miracolo alcuno nella cesta vuota, non torna a nutrire
la madre, afferra il nero del treno e vola per mete lontane, negli
occhi del cuore le mani congiunte in preghiera di giovane donna,
lo sguardo sgomento di mammadolore.
E'
bella la storia che canto, incerto il destino del vecchio bugiardo
che un tempo era bimbo. Ma forse la morte è quella che
resta nel vago tramonto di un sole d'inverno che ferisce lo sguardo,
riscuce ferite, le lecca col sale, ci ficca impietoso le dita,
allarga lo sguardo. C'è un altro bambino adesso vicino
al padre bugiardo e vuole, pretende sapere dove s'appende il gancio
della sua di vitapaura. Allora non serve, non vale mentire, bisogna
che dorma la pace dei giusti la mammabambina. Avanti Pinocchio
scrivila adesso la verità che salva, la folla di uomini
in festa finita la guerra e il dolore, la pancia di mamma che
cresce e tu infilato nel cuore.
Quel
nonno cattivo che grida, che caccia la mamma e il bambino, quel
segno di sfregio nel libro, il tuo diennea, la doppia enne rossa
rubino.
Bisognava
salvarla, bisognava amarla, Pinocchio fuggito da mammaturchina.
Scivola
lento dolceprofilo sul filo teso del ricordo. Su e giù,
come un ragnetto agile sul setale della tela. Apre e chiude usci
perduti, confonde rimpianti diversi, evoca, enfatizza. Fa male.
Ma, Signore, non liberare nos a malo. Non da questo male che ci
tiene ancorati alla terra, che ci fa sentire vivi. Non da questo
male che è ricordo, che ci assicura, con la forza della
sua eterna, naturale violenza, un cantuccio riposto in questo
mondo. Che il dolore diventi preghiera, intercessione ai vivi
perché non dimentichino, per non dover subire a loro volta,
passato il breve memento pro vivis, l'oltraggio insanabile dell'oblio.
E adesso sei tu figlio che chiedi: "Quanti megabyte di memoria
abbiamo in testa, papà?"
Improbabile
la domanda che affiora sulle tue labbra, sei troppo piccolo per
rammentare eppure è a te che debbo consegnare i tasselli
del mio cuore. A te che adesso mi stringi nel gelo di questa stanza
d'ospedale, a te bimbo che non vorrei soffrissi quel lutto ch'io
conosco: foro vigliacco di proiettile che brucia, distrugge, eppure,
cauterizza la pezza ruvida messa lì a tentare di nascondere
noi a noi stessi. Noi, poveri inutili replicanti di chi, prima
di noi, con più diritto e più pena, ha ereditato
la terra.
Già,
quanti megabyte di memoria avanzano alla perdita improvvisa di
sé? Quante volte, ogni giorno, occorrerà che tu
figlio troppo piccolo per tentare di fermare fotogrammi sbiaditi
di una favola forse vissuta, ripeta a te stesso come era tuo padre,
il suo volto, i sorrisi, i giochi, il colore dei capelli, le sue
sciocche bugie, perché avida e crudele la vita non cancelli
quella processione di sensazioni in perenne fuga? Quante volte,
per avere la certezza di non perdere il tuo tesoro e poter ereditare
quella terra che mani generose e distanti ti consegnano da un
tempo finito. Quante volte, perché il rumore pasticciato
del mondo, non confonda quella melodia della vita che viene da
lontano, perché il vigore operoso dell'esistere superi
il travaglio utile del tempo e affiori come generosa, vitale sorgente.
Quante volte, perché a tua volta tu figlio mio possa placare
nell'abbraccio solido di un ingannevole "mi ricordo",
quelle ansie che io ormai porterò di là con me da
mammasoloamore.
S'offusca
lo sguardo, si invischia nel mondo sperando fermare il tempo bugiardo.
Adesso la sento di nuovo la vecchia canzone: "Un tempo brache
corte..", adesso la vedo fossette che ridono, mani arrossate
che stendono amore. Scriviamola insieme figlio che resti l'ultima
vera preghiera e fa che domani sgranando rosari, intrecci il suo
viso col mio, col tuo, con quello di un uomo che ancora è
desiderio lontano.
Signore,
noi ti preghiamo, prendi il nostro corpo, prendi la nostra anima,
ti regaliamo il cuore e tutti i suoi inutili battiti.
Signore,
noi ti preghiamo, per noi stessi e per tutti quelli che prima
di noi ti hanno amato e glorificato, conservaci la forza buona
del ricordo.
Signore,
noi ti preghiamo, smarriti in questa valle di lacrime, che nessun
diluvio venga a travolgere la nostra memoria.
Signore
tu che hai dato ai nostri nati vestigia di te e hai consegnato
ai vecchi la memoria della nostra storia, non riprenderti questo
dono prezioso.
Signore,
accogli la nostra supplica e il nostro grido giunga a te, confuso
all'invocazione muta dei tanti peregrini sospesi, per breve tratto,
all'incerta balaustra della collettiva parabola.
Tarsie
di mosaico rapprese nelle menti, fantasmi di un'umanità
che teme il lucore forte dell'indagine.
Trascorse
le luci della ribalta: Signore ti preghiamo, non lasciare che
cali il sipario.