Doppio Misto

GOOOL!
di Tonino (poesia di Kosta)

Fuoruscì, il nostro, da lividi dedali ambulatoriali in un promettente mattino di marzo: in corpo, velenosamente schierato, l'ennesimo esercito chemioterapico lanciato all'assalto di legioni cancerose ultraresistenti, alla stregua di postmoderni "bugianen" pervicacemente radicati nel proprio territorio. Mosse decisamente alla volta dell'osteria di fronte dove - nel cuore d'una battaglia senza esclusione di colpi, della quale vaghi sentori lo pervadevano causandogli momentanei tremori - ordinò un ridente bicchiere di rosso.

A questo ne seguirono svariati altri, tutti sommessamente ingollati ad avidi sorsi nel solito angolo scrostato, l'occhio fisso ai ghirigori del pavimento, l'orecchio teso a quel sordo clangore endogeno che via via, ciecamente, s'andava ammutolendo. Pensava pazientemente (già: perché ormai che altro era se non un "paziente"?) al cosiddetto "ordine naturale delle cose": nient'altro che un ininterrotto guerreggiare, dalla sua più intima ed infinitesimale particella subatomica alla più lontana e gigantesca supernova. Tutt'un cosmo in sempiterna lotta senza quartiere, "mors tua vita mea"...

«Un altro!», sibilò all'oste. L'aspersione doveva proseguire: gli indomiti guerrieri, sudati, disidratati, necessitavano di alcolici tributi al valore. Chi stesse avendo la meglio non era affatto chiaro: i più galleggiavano ormai bocconi in un rossore senza vergogna, vivi e morti, vincitori e vinti, preda d'un marasma "barberico" travolgente. Fu proprio allora che entrò nel locale quel tizio dall'aria stranita, emaciato, nerovestito, un malinconico ghigno a lampeggiargli ad intermittenza la plumbea maschera. Si guardò a fatica attorno, posizionò un'inquietante smorfia sulla faccia del nostro e, indice puntato, sparò a sorpresa: «Cosa beve, amico?».

Colpito - ma non affondato - questi replicò piuttosto prontamente: «Rosso... Grazie».
«Allora, due rossi... E un caffè, nero e bollente... E corretto grappa!».
Gli si sedette di fronte, lo sconosciuto, fissandolo con sempre più ostentata opacità, aspirando boccate incredibilmente lunghe da un fetido centimetro di cicca e rilasciando da naso e bocca collosi nuvoloni con foga luciferina.
«Sarà mica lui, il re degl'inferi... Vuoi vedere che è venuto a prelevarmi?», congetturò il nostro in un accesso d'incandescente paranoia. Ma il tizio ora, ammantato d'un ebete sorrisetto, biascicava confusamente di posti noti, conoscenze comuni, diagnosi, terapie...

E lo riconobbe, infine: massì, era proprio lui, il dottor Tino Stanko, il luminare, il rinomato primario di quell'affermata clinica del capoluogo che qualche anno prima, dopo svariate costosissime visite, gli aveva neluttabilmente diagnosticato il terribile male che ora in effetti lo divorava.

Cristo santo, com'era cambiato quell'uomo! Almeno 20 chili in meno, scomparso l'autorevole pizzo brizzolato, capelli radi e bisunti, abiti logori... Gli occhi, soprattutto, s'erano tremendamente trasformati: dai saettanti bisturi blu-elettrico d'un tempo agli immoti temperini incolore di adesso.

«Ma è proprio lei, dottore?!».
«Eh sì!... Sì sì, sono io, non dubiti: proprio, assolutamente, io!... Eh... La vita, mio caro... 'Sta cazzo di vitaccia! - esclamò il medico dopo una poderosa sorsata -. Fottuto... M'ha fottuto... Ha fottuto anche me... E per sempre!».
«Ma che diamine le è capitato, dottore?».
Silenzio.

Rotto seccamente, dopo attimi d'impaccio, da una tosse stizzosa e un malcelato rutto. E da una risataccia sguaiata, scomposta, quasi folle.
Ancora silenzio.
«Già...», bisbigliò il nostro.
«E lei come va, eh?... Come va, dunque, vecchio mio?», domandò il dottore al nostro in un clownesco soprassalto.
«Bah!... Va verso la fine, dottore... Verso la fine... Sono in chemio, antidolorifici e chemio... E vino, troppo... E pensieri, brutti... E paura, tanta...».
Silenzio.
«Già...», esalò il dottor Stanko.
Lunghi minuti di ghiaccio solidale. Fugati infine dal caldo gorgogliare d'altro vino in gola.
Poi il medico, di botto rumorosamente in piedi, bicchiere levato, aria invasata, violaceo, prese a declamare sconnessamente, a tutto fiato: "Tu che, mansueto, accosti l'esistenza ai divinizzati patiboli, ai postriboli dove pietà si offre come sottomarca dell'amore... Abbiamo un tumore da recitare in due... E ricordati, io sono il personaggio principale e tu la comparsa".

Ricadde pesantemente sulla sedia, rovesciandosi del vino sui calzoni ed ammiccando al nostro con occhi allucinati. L'oste lo fissò a bocca aperta, fra lo stupito e il preoccupato. Due ragazzotti, entrati poco prima, pagarono i loro chewing-gum e se ne andarono dandosi di gomito, ridacchianti, sull'eco d'un «Minchia, che esaurito!».
Il nostro era semplicemente basito.
«Sa, ho preso a scrivere - bofonchiò il medico -. Cosa non fa fare, eh, cosa non fa dire la disperazione?!... Ma forse lei non ha ben compreso, mio caro... Beh, posso spiegare...».
«Ma no, dottore, no no. Credo d'aver capito. Sa, scribacchio anch'io: pensierini, rimette. Da sempre, anche prima dell'arrivo del famigerato... personaggio principale. Stile ermetico il suo, anche arzigogolato direi. Tuttavia accattivante, incisivo. Intrinseco messaggio profondo, di vasta portata. Davvero un bell'assist per chi abbia voglia di offrire il destro a pensose galoppate sulla fascia... Peccato che in rete io non ci andrò più... Hehehe!».
«Lei mi sorprende, mio caro, e davvero piacevolmente... Ma si consoli: lei non è certo il solo a non poter mettere a segno gli assist... Versiamo, dunque, e river-siamo... E versifichiamo... E riversi-fichiamo... Hahaha!».
Continuarono a trincare, incessantemente. Uscirono dall'osteria ben dopo l'ora di chiusura - ubriachi fradici, dopo aver sbevazzato di tutto, berciato ogni canzonaccia ad ugola spiegata e scarabocchiato a due mani deliri assortiti - ed unicamente in seguito alle reiterate minacce dell'attonito oste di telefonare alle forze dell'ordine.
«Venga, dottore, venga... Ho l'auto qui nei pressi... L'accompagno io a casa». Barcollarono fino al parcheggio, scontrandosi anche fra loro più volte e sghignazzandoci su a gogò fra pesanti pacche di sghimbescio. Fecero pipì assieme contro un albero stonando "Son contento di moriiire, ma mi dispiaceee...". Giunti alla vettura, vi entrarono a stento fra testate e spallate ed ancora innumerevoli risate. Infine partirono a manetta, senza aver manco lontanamente pensato alle cinture di sicurezza.
«Eh sì... Siamo tutti comparse in questa cazzo di tragedia... Mansuete comparse... Pazienti commedianti, esclusi a priori da qualunque intervento sul copione... Dannatissimo cancraccio di merda!».
«Perché... Anche lei, vero, dottore?».
«E come, no?!».
Silenzio.
Strada.
Fari sempre più pericolosamente vicini.
Un clacson incazzato a riportarli di brutto sulla destra.
Tossicchiamenti.
Sospironi.
Strada.
«Ehi, guardi là che luci... Quante... Ma che diavolo è, un TIR?».
«Già... Un TIR... Enorme!».
Ferina occhiata reciproca. L'ultima. D'intesa. Via sulla fascia sinistra a fari spenti e giù d'acceleratore.
Quattro secondi scarsi, poi lo schianto. Assolutamente fuori copione. Imprevisto. Esiziale.

Mille rumoracci a sovrastare quel ghignante, inaudito, concomitante «GOOOL!».