Doppio Misto

Rigare dritto
di Enriquez (poesia di Tzunami)

"I ride by night, I travel in fear,/ no matter what I do, or where I drive, / nobody ever sees me, when I ride by."
(Giro di notte, viaggio con la paura,/ non importa cosa faccia, o dove vada, / nessuno mi nota, mentre me ne sto andando.)
Stolen Car, Bruce Springsteen, 1979

"I got a cold mind, to go tripping cross that thin line,
I'm sick of doing straight time."

(Ho una mente lucida, per camminare giusto sulla riga di mezzo,
sono stufo di rigare dritto.)
Straight Time, Bruce Springsteen, 1995

Uscii nell'86. Carcere, minima sicurezza, otto anni.
Mi trovai fuori, in un mattino di giugno di quasi vent'anni fa. Mi trovai fuori senza un soldo e senza mutande di ricambio.
Camminai fuori dalla città, vuota e stanca, ancora e già alle sette di mattina, con il sole che scaldava di brutto.
Trovai, il giorno stesso, un lavoro nei campi. Erano ormai i giorni di mietere grano, orzo ed avena, in giro per le pianure, intorno alla città. "Abbiamo bisogno di un uomo di fatica", mi disse un contadinotto che aveva una faccia da galera più brutta della mia, "sei il benvenuto", mi disse, quando il giorno prima mi sentivo solo un bene andato.
Cominciai allora, con quella falcetta in mano e le corde per legare i covoncini e tagliare i palmi delle mani, cominciai allora a rigare dritto. E fu quando mi sentivo ormai in grado di camminare diritto, sulla linea bianca in mezzo alla strada, come quando provi al pulotto che non sei bevuto o fatto, fu allora che la conobbi.
Semplice, era la figlia del contadinotto. Biondina, piuttosto grassottella, una carina ragazza di campagna. Lavoravamo insieme nei campi, sotto un sole ormai di luglio, che spaccava il triplo di quello di un mese prima. O ero io, che dopo otto anni mi ero abituato solo alla luce elettrica. Fredda.
Il contadinotto, alla fine dell'estate, mi disse che non c'era più bisogno, almeno fino alla primavera seguente, ma che "se ti sposi la mia ragazza, sono obbligato a tenerti" e così feci.
Ormai, la sottile linea bianca che stava sulla mia strada si era allargata; il giorno che mi sposai, la linea era ormai tanto larga da coprire tutta la strada.

Semplice, rigavo dritto.

Ci trasferimmo, un paio d'anni più tardi, in una zona appena fuori città. Lei sapeva tutto del mio passato, tranne le cose che non avevo mai raccontato neppure a nessuno degli avvocati, così che, non so bene se fu per caso, o per sua decisione, la nostra casa si trovò ad avere una finestra del piano di sopra, dalla quale si vedeva il carcere.
Lontano, ma si vedeva.

Ma io rigavo dritto.

Pigliai al volo un lavoro da muratore e mi ritrovai a lavorare per più di cinque anni in un immenso cantiere vicino a casa. Una nuova zona residenziale. L'ultimo palazzo che costruimmo era proprio a due sputi da casa nostra. L'ultimo palazzo che tirammo su, mi coprì per sempre quella finestra del piano di sopra. Quella da cui si vedeva il carcere.

Non lo vedevo più, ma io stavo rigando dritto.

L'anno in cui la ditta mi trasferì in un altro cantiere, nacque nostra figlia. L'anno in cui la ditta mi trasferì in un altro cantiere, ché quello di prima era finito, là trovai uno che era uno dei miei zii. Fu uno dei miei zii per otto anni, fino al giugno '86.
Lavorava anche lui, lo zio, ed anche lui stava rigando dritto. Almeno, rigava dritto dall'alba al tramonto.
Di notte arrotondava. Ancora il vecchio vizio di far correre macchine rubate. Macchine che scottavano, per dirla un po' scontata.
Negli anni, dovevo essere cambiato parecchio, perché lo zio ci mise molto a riconoscermi. Ci mise molto ed ora vorrei che ci avesse messo ancora di più. Vorrei che quello zio non mi avesse riconosciuto per niente.
"Ehi", mi avvicinò un pomeriggio, "ehi, ci serve un uomo di fatica, per dopodomani notte", mi disse, con lo stesso sorriso con il quale ti fregava, dentro, se volevi un servizio carcerario extra.

"Ci serve un uomo di fatica", mi disse. Ma io stavo rigando dritto.

Così, rifiutai, ma quando cala la notte, anche le cose più sbagliate sembrano giuste. Così, dopo un paio di birre insieme al tipo che sorrideva, questi mi presentò ad altre vecchie conoscenze, mettendomi davanti ad un mucchio di vecchi vizi.
"E meglio se ti ricordi chi sono i tuoi amici", mi disse. E le birre diventarono quattro, cinque, poi non so quante e non so come, la sera dopo uscii di casa senza salutarla.

Senza farmi sentire.

Prendere una macchina dal parcheggio del bar per camionisti, lungo la statale, fu facile. Fu semplice, come se non fosse passato un giorno di campagna, un'ora a tirar su muri, un secondo a rigare dritto.

Avevo un appuntamento, un paio d'ore più tardi. Stavo guidando un'auto rubata, come non facevo da troppo tempo per rendermene realmente conto.
Arrivato all'ultimo incrocio, quello che porta sullo stradone dove il tipo sorrideva facendo correre le auto che i suoi vecchi amici gli procuravano, arrivato là, svoltai sulla strada opposta, quella che porta sulle colline.
La strada era vuota, buia. Nello specchietto retrovisore, le luci della città si allontanavano sempre di più. Sempre di più, la strada saliva.
Ero solo e mi trovai a portare la macchina proprio a cavallo della riga di mezzo, una lunga riga bianca, ininterrotta, su cui la macchina, nonostante le infinite curve, rigava dritta. Dritta come se fossi su un'autostrada. Solo.
E continuando a salire mi trovai a pensare che tutti sappiamo che la vita è un'autostrada, ma solo in salita, che va su ma che, se guidi bene, non importa quante curve ci siano, devi sempre rigare dritto.

Arrivai su una delle colline, dove una radura tra gli alberi, proprio sul ciglio della strada, lasciava spazio all'auto, che parcheggiai.
Scesi e mi girai indietro, guardando le luci della città, che sembravano ora più lontane, visto che, a volte, le cose che guardi dagli specchietti retrovisori, possono sembrarti più vicine di quanto siano, in realtà.
In realtà, non posso dire se fossi in grado di scorgere le luci di casa mia, che dovevano per forza essere ancora accese, ché lei doveva per forza essere sveglia, ad aspettarmi. Non posso dirlo, ma in realtà posso dire che scorgevo benissimo le luci del carcere. Le vedevo limpide, di fronte a me, che se ci fosse stata una strada per raggiungerle, sarebbe stata diritta ed io, per raggiungerle, sarei andato dritto.

Ma io, dritto, ci stavo già andando, mi dissi.

Così, aprii il coperchio del serbatoio, vi infilai un ramo secco al quale diedi fuoco e mi incamminai giù per la strada.
In discesa si cammina bene ed ero giunto già al terzo tornante, quando udii la sorda esplosione della macchina che avevo rubato. Ora quella macchina scottava davvero e lo zio non stava di certo sorridendo.
Poco più in giù di metà salita, un'auto mi suonò da dietro, illuminando la strada di fronte a me. Dicendomi che stavo camminando sulla riga di mezzo.
L'auto mi si affiancò sulla destra, il tipo al volante mi chiese se avessi bisogno di un passaggio. Gli dissi di sì, senza aggiungere altro.
Dopo qualche curva, mi chiese se la macchina che stava bruciando sulla collina fosse la mia, "no, perché ho chiamato la polizia e non vorrei portarne via il conducente." Gli risposi che "no, non so di chi sia", gli risposi che "avrei chiamato io, la polizia, ma non ho con me un telefono."
Il resto del viaggio fu silenzioso e silenziose, le luci della città si avvicinavano, appiattendosi e confondendo quelle del carcere tra le altre.
Ormai giunti di fronte a casa mia, mi chiese se potessi togliergli una curiosità, prima di lasciarmi scendere mi chiese "potrebbe dirmi perché stava camminando sulla riga di mezzo? Potrebbe essere pericoloso, camminare sulla riga di mezzo", mi chiese.

Gli risposi che "stavo rigando dritto" e scesi.