I Tarocchi di "Arancia" (Work in progress)

Il Matto (Arcano Maggiore 0)

 

Frank Drummer

Da una cella a questo luogo oscuro -
la morte a venticinque anni!
La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro,
e il villaggio mi prese per scemo.
Eppure all'inizio c'era una visione chiara,
un proposito alto e pressante, nella mia anima,
che mi spinse a cercar d'imparare a memoria
l'Enciclopedia Britannica!

Edgar Lee Master

Ore 8.30 del mattino. Lunedì. La tesserina magnetica scorre nella fessura producendo un piccolissimo Bip.
Alle spalle tre quarti d’ora di viaggio allucinante, nel traffico della città, schiacciato come una bestia su un autobus strapieno. I corpi strusciano, premono, ma egli avverte nitidamente il campo di forze che tutti hanno attivato per proteggere il prezioso contenuto di borse e tasche. E quel contatto forzato lo invade. Un’angoscia profonda. Come la sensazione di essere violentato nell’anima e nei pensieri.
Ore 8.30 del mattino. Lunedì. Bip.
C’è ancora da percorrere il lungo corridoio che va dall’ascensore alla porta, protetta da un sistema di sicurezza, del centro di calcolo. Molti uffici si affacciano sul corridoio. Molte facce.
Nelle prime stanze ci sono persone che incontra solo al mattino, compiendo il tragitto obbligato dall’ascensore al ced. Da quelle porte sporgono sorrisi che, mano a mano, sfumano in saluti sempre più asciutti.
In fondo, il corridoio è chiuso da una porta di vetro. Occorre ancora una volta far scorrere la tesserina magnetica nella fessura perché si apra con un lieve ronzio. Al di là, l’open space dove trascorre la sua giornata lavorativa.
“Ciao a tutti”
Silenzio assoluto. I vicini di scrivania distolgono lo sguardo.
A tratti, piccoli gruppi si alzano per andare a bere il caffè. Lui aspetterà che siano ritornati, poi andrà da solo. Guardingo, sperando di non incontrare nessuno.
Improvvisamente affiora il ricordo di quel suo collega, Venerdì scorso, sull’autobus. L’ha salutato. L’altro ha semplicemente girato la testa, come se non lo avesse visto. Un gesto cui è abituato ma che, fuori dal solito contesto, lo ha ferito profondamente.
In ufficio fa finta di non esistere. Lavora, quando ne ha voglia. Per il resto del tempo scrive. Tanto normalmente riesce a svolgere in poche ore il lavoro che gli è stato assegnato per l’intera settimana.
Sente, alle sue spalle, i commenti sulla partita di ieri, i racconti della giornata in montagna con moglie e figli. Ricorda, vagamente, quando ancora tentava di partecipare. Ma ci deve essere qualcosa di spezzato nel suo modo di comunicare. Anche i primi giorni, quando ancora tutti lo salutavano, le sue frasi provocavano sguardi vuoti.
Talvolta è necessario, assolutamente necessario, parlare con un collega per risolvere un problema di lavoro. Allora toglie dalla tasca una maschera e parla. File, vista logica, allocazione di disco, job description, flusso operativo, diagramma, chiave d’accesso.
Sono momenti felici, sporadici, fugaci.
Sa di non poter pronunciare altre parole. Sono le stesse che usano gli altri, eppure provocano sempre quel senso di straniamento, di separazione, di alienazione.

Otto ore. Poi il percorso inverso. E lungo il corridoio i saluti secchi sfumano nuovamente in sorrisi ma, ogni giorno, il punto dove fiorisce il primo sorriso si fa sempre più vicino all’ascensore.
17.30. Lunedì. Bip.
E davanti tre quarti d’ora di carro bestiame e di corpi invadenti e di campi di forze, violenti in modo sconcertante.
Poi la porta di casa chiude fuori il mondo, lasciando penetrare solo il rumore nevrotico della strada.
Dentro, solamente un urlo inespresso. Qualcosa che potrebbe trapelare da ogni parola.
Per questo non ha il telefono

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Il Bagatto (Arcano Maggiore I)

"L'intelligenza agente è per l'intelletto possibile dell'uomo
ciò che il sole è per l'occhio,
il quale, finché sta nelle tenebre,
rimane visione in potenza"

(Al Farabi)

Ti ho riconosciuto appena ho incrociato i tuoi occhi e ho raggiunto la certezza che fossi tu quando ti ho visto tessere una fitta rete di parole intorno a me.
Giovane e fulgido come un raggio di sole, attendevi solo il mio sguardo per liberarti ed iniziare il giuoco.
Hai posto sul tavolo, di fronte a me, la tua spada. Come una resa, una rinuncia. Ed io l’ho creduto ma era solo un’illusione. Una delle tue meravigliose costruzioni d’inganni e felicità.
Abbiamo bevuto insieme dalla coppa il vino delle tue terre.
Insieme. Mentre io scrutavo nel fondo dei tuoi occhi, cercando di infondere nel mio sguardo tutta la saggezza e la conoscenza che la vita mi aveva dato, ansiosa di conoscere le origini del tuo sapere.
Non mi fu dato.
E non mi fu dato di penetrare nella profondità del tuo cuore, che mantieni gelosamente chiuso. Forse anche a te stesso. Sicuramente a me, a noi.
E solo troppo tardi ho compreso che non era la paura del potere misterioso della luna a trattenerti. La tua è una scelta. La tua vita scorre su binari differenti dal mio scavare tra le radici antiche.
Ma sei penetrato come un vortice nella mia casa e, per un poco, hai tenuto sotto controllo, per me, la materia. Come se tu impugnassi il bastone di un potere a me ignoto, gli oggetti si piegavano al tuo volere come mai hanno fatto davanti a me. Mi hai donato un breve periodo di riposo. Traducendo per me il linguaggio delle cose. E conducendomi nel mondo con un vigore che mai avevo conosciuto.
Ma io sono un’adepta del lato nascosto della luna. Ho desiderato domare e incanalare la tua potenza secondo i miei desideri.
Credevo che la mia conoscenza fosse più antica. Credevo che ti occorresse attraversare le acque profonde del lago che mi tenne prigioniera.
Non ho capito, non ho capito che la tua volontà era già stata forgiata da riti antichi. Ho dimenticato Sarastro, tuo padre e maestro.
Così un giorno hai raccolto la spada e la coppa e hai ripreso il tuo cammino.
E’ rimasta incompiuta la borsa di cuoio in cui, insieme, avremmo riposto ciò che serviva a porre le basi di una casa. Non mia, non tua. Una semplice Casa.
Adesso, intorno a me, la materia ha ricominciato a vivere di vita propria.
E tu più non guardi nello specchio che ti ho donato.
Continui il tuo giuoco altrove.
Non hai bisogno di laghi profondi.
Hai, al tuo fianco, l’immensa potenza della determinazione.
Hai la forza terribile e splendida di un raggio di sole.

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La Papessa (Arcano Maggiore II)

“Io non ho amore, non ho casa,
niente per cui io possa vivere.
Tutto, ogni cosa che mi piace
Diventa bella e mi supera”

Rainer Maria Rilke da “Il Poeta”

Sai, camminavo come sempre, tenendo chiuso nell’anima il gorgo di dolore e di tristezza che tormenta da sempre le viscere più profonde del mio essere.
Camminavo pregando che mi fosse concesso di morire.
Camminavo pregando che, per favore, mi fosse permesso di riposare. Sarei stata disposta a pagare qualunque prezzo.
Non avevo mai visto i luoghi in cui mi stavo addentrando. Ero partita dalla stazione conoscendo quella città per luogo pieno di misteriosi anfratti e, nel labirinto di vicoli, mi ero perduta perché non avevo più, al mio fianco, la forte guida del mio raggio di sole. Lo avevo spento, come fosse una candela, stringendolo troppo tra le mani.
Ero partita dalla stazione cercando una piazza, con una porta antica, davanti alla quale mi proponevo di piangere ed abbandonare un poco del mio dolore. Ma ormai mi ero perduta e i vicoli diventavano sempre più simili a pertugi e cunicoli. Sembrava salissero, ma io sentivo che mi stavano in realtà portando sempre più in basso, nel profondo dell’ombra, verso la porta del regno che non desideravo conoscere.
Iniziai ad avere paura e mi fermai, guardandomi intorno.
Cercando. Cercando.
E così ritrovai dentro di me le domande dell’infanzia. Quelle talmente ovvie e talmente profonde che nemmeno osiamo ricordare di averle poste. E forse nemmeno allora le ponemmo, ben consapevoli, già da bambini, che i nostri genitori sono ciechi di fronte a ciò che non è fatto di materia.
Ferma, volgendo lo sguardo intorno a me e all’interno di me, vidi la porta.
Tante davano sul cunicolo, marce e maleodoranti. Solo quella sembrava potersi aprire e, tra le crepe antiche del legno, scorgevo le tracce della lacca celeste che un tempo l’ornava.
Dentro di me temevo che l’avvenenza di quell’unica porta si aprisse sul male assoluto. Che potesse perdermi per sempre. Ma ero già persa. Già da tempo. E la mia perdizione era in grumo di dolore che mi attanagliava il petto.
Non pensai nemmeno di bussare. Preferii penetrare nascostamente, dato che non sapevo cosa avrei potuto dire a chi mi avesse aperto se non “voglio entrare qui”.
E salii la scala. E trovai la soglia di una grande stanza.
C’erano lenzuoli, spessi di strati di polveri immobili, che formavano sagome imprecise di arredi. Il pavimento di terra.
Ancora una volta ebbi paura. Terrore. Il mio cuore tremava e le gambe cedevano e il respiro era trattenuto come se il luogo fosse l’antro delle più atroci pestilenze.
Ma sentii la tua voce. “Sei venuta, finalmente, per liberarmi?”
Una voce di donna, non velata dal tempo, non arrochita dal silenzio. Una semplice voce di donna.
Chi sei e cosa vuoi da me, ho paura e voglio andare via e tornare tra i cunicoli che mi condurranno nel profondo regno della morte. Chi sei e cosa pretendi che io possa fare per te, ma non lo vedi quando profondo è il mio dolore?
Questi furono i miei pensieri, ma le chiesi solo: “Chi ti tiene prigioniera?”
“La follia degli uomini” rispose, chiamandomi per nome, “e il dominio del potere piccolo e del possesso” e dopo una lunga pausa aggiunse “e il tuo dolore”.
Così trovai in me la follia e la saggezza per calpestare la terra che copriva le mattonelle del pavimento, scoprendo, mentre camminavo, che nelle impronte dei miei piedi si intravedevamo preziose maioliche bianche e nere disposte come su una scacchiera. E soffiando sul lenzuolo vidi che non era un sudario ma un iridescente velo, luccicante e prezioso. Celeste come la lacca della porta.
E dietro al velo, il tuo abito era ancora fresco e il tuo mantello rosso, potente. E gli antichi simboli di saggezza che reggevi, intatti.
E mentre mi dicevi.” Non potremmo apprezzare la felicità se non avessimo sofferto” io alzai lo sguardo verso il tuo viso e, sotto al diadema che incoronava i tuoi capelli, riconobbi il mio.

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L'Imperatrice (Arcano Maggiore III)

Ed ecco sulla riva del Dia fra scrosci di onde
Arianna vede fuggire Teseo all’orizzonte
sulla nave che veloce s’allontana e il cuore
presa dal delirio non vuol credere ai proprio occhi,
ora strappata alle illusioni del sonno
si ritrova abbandonata sulla spiaggia deserta.
Batte coi remi il mare, l’ha dimenticata, fugge,
lasciando che i venti disperdano le sue promesse.
E con sguardo disperato la figlia di Minosse
lo segue da lontano, tra le alghe, una baccante
di marmo, travolta da un’ondata d’angoscia;
lo segue, i biondi capelli scomposti, senza nastri,
il petto scoperto, senza che lo veli una veste,
senza un laccio che leghi il suo seno di latte:
scivolate dal corpo quelle vesti giacciono
sparse ai suoi piedi: un gioco per le onde del mare.
Ma lei non si cura di nastri o di veli che cadono:
a te con tutto il cuore, Teseo, con tutta l’anima,
a te con tutta la sua mente si avvinghia perduta.
Sventurata: con le sue continue torture,
seminandole il cuore di spine, Ericina
l’ha fatta impazzire il giorno che Teseo, lasciato
il golfo del Pireo, giunse arditamente
a Gortina nel palazzo del re iniquo.
Caio Valerio Catullo

Le pareti di questo corridoio sono altissime.
Cammino lentamente. Sfiorando le pietre con le dita. Attraverso un passaggio. Un altro corridoio. I muri sono sempre identici, lisci, scuri. Senza segni.
In fondo, un’apertura. Dà su una stanza perfettamente quadrata, con molte porte. Ne scelgo una e cammino ancora per un corridoio. Cieco questa volta. Torno indietro per scegliere, nella stanza quadrata, un nuovo varco. Ma quando riattraverso il passaggio, la stanza è perduta.
Non ho idea di come sono capitata qui dentro. Mi sono svegliata ed ero qui. Forse sono nata qui. Non ho nessun ricordo nitido di qualcosa di diverso. Solo vaghe sensazioni. Tracce. Forse sogni o desideri. Non ricordo cosa sia un ricordo, né il mio nome, il mio volto, la mia storia.
So solo che non dovrebbe essere così, che questa prigione angosciosa è la condanna per chi ha fatto molto male, ma io non so a chi ho fatto del male, né in che modo.
Mi siedo, appoggiandomi alla parete, per aspettare il culmine del giorno. L’unico momento in cui, se sono fortunata, riesco a scorgere qualche raggio di luce. L’unico momento in cui mi raggiungono vaghi ricordi di un passato che forse fu il mio. In un tempo lontano. In un luogo lontano.
Perché saranno almeno mille anni che vago per questo labirinto.

Ecco, in un rapido bagliore, l’immagine di un corridoio diverso. Una porta di vetro sul fondo che può essere aperta solo con una chiave magica. Con tracciati simboli di cui non ricordo il senso. Possedevo quella chiave, che permetteva di entrare ed uscire, la possedevo.
Le alte pareti hanno permesso al raggio di luce di fare un’apparizione fugace. E’ già andato via. Io ricordo, ancora per qualche istante, di aver ricordato. Poi più nulla. Solo pareti e aperture in cui vagare nuovamente. Ma perché continuo a camminare? Perché non rimango semplicemente immobile? Perché non riesco ad arrendermi all’idea che non esiste una via d’uscita? E quand’anche trovassi l’uscita? Saprei sopportarla? O forse l’ho già trovata molte volte e sempre, terrorizzata dalla luce, mi sono rituffata nei dedali infiniti della prigione?
Mezzogiorno è terminato e con esso i pensieri.

Cammino lungo un corridoio. E svolto, cammino. Trovo stanze e porte e lunghi camminatoi. E passaggi e gallerie. Cammino. Ancora. Da sempre. Cammino. Mentre fuori il pomeriggio sfuma lentamente in sera e la sera in notte. Poi la notte si stempera nel mattino. Ma io non lo so. Percepisco solo l’incipiente arrivo di un nuovo mezzogiorno e mi siedo ad aspettarlo.
Ed ecco, all’apparire del sole, il tuo volto amato che si allontana. Ti vedo raccogliere la spada e volgermi le spalle, camminano verso il mare.
Io ti restituii la vita perduta, ma tu mi abbandonasti in questo luogo di dolore e solitudine. Lacerata, folle d’angoscia, condannata a peregrinare nei meandri oscuri del dolore.

Guardo tutti coloro che vagolano. Ogni cosa è predisposta affinché non vi incontriate mai. Sono ciò che tu devi cercare. Sono la via per uscire dal labirinto, sono la luce assoluta. Sono colei che ha le ali.
Già una volta in un tempo passato, fosti la mia sacerdotessa. Non lo ricordi?
Allora fu più facile, per te, trovare la porta. Ma a ben altro destino sei chiamata, adesso. Da mille anni, tu credi, stai vagando per il labirinto ma io ti dico da molto più di mille vite. E vi rimarrai. Vi rimarrai ancora perché non sai vedere. Cerchi i ricordi nei bagliori del mezzogiorno, ma non ti servono. Ti illudi che ti consolino, invece ti legano sempre di più alla tua agonia.
Cerca altro, nel lieve baluginio dei raggi di sole.
Non ti rendi conto? Passo dopo passo, una storia dopo l’altra, una vita dopo l’altra, il labirinto si è fatto sempre più complesso. Questo è l’ultimo. Tutto ti può accadere. Può essere che tu debba rimanere qui ancora per altre mille vite, può essere che nel prossimo bagliore tu percepisca la scala.
Qui, oggi, tu sei chiamata a scorgere la luce sfolgorante della tua verità.
Io, incessantemente, ti parlo e ti guido, ogni giorno quando il sole raggiunge l’apice del cielo.
Tu non ricordi il tuo nome ma io te lo dico Hai-agne, pura al sommo grado, Adriela, molto luminosa. Annapurna, vetta di luce. Anche se le storie che narrano di te, semplicemente ti chiamano Arianna.
Tu sei perduta nei meandri dell’angoscia perenne perché hai permesso che l’amore per un uomo ti portasse lontano dalle sfere celesti cui eri chiamata. Di questo oceano luminoso io sono l’imperatrice e ti chiamo.
Sulle tue spalle, coperte da lunghi capelli, anche tu hai ali adatte a raggiungere il luogo del tuo destino.
Abbandona il dolore e alza lo sguardo.
Io sono qui.

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L'Imperatore (Arcano Maggiore IV)

"Ho fiducia in ciò che mi è già stato
detto e che mi ha permesso di arrivare
fin qui. Non sono sicuro di potermi
fidare di qualcosa o di qualcun altro".
"Così, benché una volta tu abbia già dato
fiducia a qualcuno che ti ha dato le
informazioni iniziali, non ti è stato
insegnato un modo per sapere di chi
fidarti".
"È proprio così".

Pir Shattari


“NO!”
Ho gridato forte e non me ne sono nemmeno accorta.
“NO!”
Io non voglio entrare in questa stanza. Ricordo perfettamente che cosa vi è successo.
L’uomo non mi guarda. Rimane seduto, con le caviglie incrociate offrendomi il fianco sinistro. Ai suoi piedi un tulipano in piena fioritura e sul suo petto il sole e una falce di luna. I suoi occhi sono scurissimi e vividi. Io non rientro nel suo campo visivo. Eppure, è pienamente consapevole della mia presenza.

***

Questa mattina ho deciso di andare al lavoro con l’automobile, per essere certa di arrivare in orario all’appuntamento. E’ un uomo importante, non bisogna farlo aspettare. E’ stato mentre camminavo sull’asfalto dissestato del parcheggio che ho urlato di no. Uno strano modo di urlare: sono caduta scaricando tutto il peso sulla caviglia destra. La più fragile.
Per terra, con il contenuto della borsa sparso davanti a me, ho incominciato a piangere come una bambina. E non per l’intensità del dolore.
Non è la prima volta che un momento fondamentale della mia vita è segnato da una slogatura della caviglia destra.
E’ stato così quando ancora sognavo di danzare, prima che la mia vita fosse completamente invasa. Avevo un provino, una selezione. L’unica speranza di fare qualcosa di quei dieci anni di esercizi alla sbarra e di punte dei piedi doloranti. Dovetti rinunciare. Quella volta e tante altre ancora. Tante.
Per terra, piangevo, tenendomi la caviglia con tutte e due mani. A tratti, dietro di me, i passi di altre persone che si avviavano frettolosamente verso le loro auto, le sentivo passare e poi vedevo le loro schiene severe. Che strano posto è questo.
L’appuntamento di stasera è veramente importante. E’ qualcosa che potrebbe dare una svolta fondamentale alla mia vita e io voglio rimettermi in piedi. Ma il dolore è intenso, non posso proprio appoggiare il piede, non ho niente cui aggrapparmi. Non riesco a rialzarmi da sola.
Così, per terra, continuo a piangere.
Finalmente un uomo si china su di me. Dice che stava guardando dalla finestra e quando ha visto che non mi rialzavo è uscito. Apposta per me. Mi vergogno delle mie lacrime, davanti a lui. Gli spiego che sto piangendo più di rabbia che di dolore. No, non credo che sia rotto. Non serve un’ambulanza. Mi aiuta ad alzarmi e mi porta la borsa. Lascio che uno sconosciuto tenga la mia borsa, con dentro soldi, cellulare, documenti e il mio prezioso quaderno. Ma come potrei non concedergli questa fiducia dopo che è uscito di casa alle sette del mattino solo per aiutarmi? Gli do perfino le chiavi dell’auto perché la apra per me. Mi mette seduta al posto di guida e se ne va, disprezzando un po’, credo, tutto il chiasso che ho fatto.

La caviglia è conciata male veramente.
Dovrei tornare a casa, chiamare qualcuno e farmi portare ad un pronto soccorso. Invece provo a guidare l’auto. Nel traffico intenso posso solo andare molto piano e riesco a barcamenarmi, tra freno e acceleratore, tenendo rigidamente il piede a martello. Ogni frenata è dolorosa ma devo farcela. Se prendessi un giorno di malattia non potrei recarmi all’appuntamento.
Solo quando arrivo in ufficio mi accorgo che i miei pantaloni nuovi si sono strappati nella caduta. La giornata di lavoro scorre troppo lentamente. Il dolore non diminuisce. Rinuncio al pranzo, per non camminare fino al bar.
Poi, ancora freno e frizione, lentamente, fino a questo antico circo. Posteggio lontano e devo percorrere un lungo tratto zoppicando. Ma questa è la strada, il cancello, il piano esatto.
Eppure nessuna porta che si affaccia sul pianerottolo. Ridiscendo le scale e chiedo ancora informazioni. La porta c’è, bisogna saperla vedere.
Finalmente ne distinguo i contorni, mascherati tra i disegni della parete. Intuisco come aprirla. Sono orgogliosa di essere riuscita ad entrare. Nonostante il grido, sono ugualmente qui. Aspetto che mi sia concessa udienza.


Ed ora sono nella stanza e l’uomo non mi guarda. E’ seduto di profilo. Tiene le caviglie incrociate. Ha occhi nerissimi e penetranti e un viso strano.
Tace.
Io gli racconto di labirinti e di spiagge deserte e di ferite antiche. Di gomitoli donati e di tradimenti. Gli narro di un’immagine in cui capelli bruni e d’oro si mescolano e che ho sognato il mio uomo che baciava una donna di nome Luce. Parlo al suo profilo silenzioso. Gli racconto della setta di seguaci del monaco francese da cui sto fuggendo. Mi rincorrono, ma io sto fuggendo. Gli chiedo protezione dalle seduzioni di quell’uomo infingardo e crudele per il quale provo la stessa dedizione totale e lo stesso amore che, fanciulla, provai per chi trafisse la mia anima e il mio corpo. A stento sopravvissi, allora. Ed oggi fuggo, zoppicando.
Come è di rito, tre volte mi darà udienza e poi saprò se sarò accolta nella cerchia degli adepti. Da questo dipende la mia vita e il mio futuro. Sono qui a chiedere che mi venga insegnata la via per compiere la trasformazione alchemica. Sono qui per chiedere di essere iniziata.

Tre volte mi diede udienza. Infine incominciò a parlare. Osservavo il suo profilo e la sua barba evocava saggezza. Mi disse che ancora lunga era la mia strada. Che quella non era la porta per me, che cercassi altrove. Era stabilito che avrei accettato il suo responso qualunque fosse stato. Ma le sue parole facevano più male della caviglia tumefatta. Mi riconsegnava al mio viaggio solitario. Ma mi diede un brandello di carta con l’indicazione per trovare il luogo dove giace il tappeto della mia memoria e, forse, del riposo dal lungo peregrinare.

Sono passati due anni da quell’ultima udienza. La mia caviglia è guarita, eppure, seduta di fronte al tappeto, sto ancora gridando di no.
Ho paura del monaco francese e temo che la fragile guida del mio cuore, che non siede su un perfetto trono di pensieri, che è satura di un sapere nascosto e antico, fatto di onde che battono ritmicamente la spiaggia e di profondità tiepide e scure, non sappia proteggermi dalla volontà di un potere virile e violento che mi rincorre quando, la sera, cerco invano riposo.

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Il Papa (Arcano Maggiore V)

Se incontri un buddha per la strada, uccidilo
(antico proverbio buddhista)


Occhi celesti, che irradiano un senso di profonda bontà.
Vorrei potermi fermare qui, per sempre, e cogliere dalle tue labbra la Verità.
Ma scopro che il mio sguardo si posa con sufficienza sui fedeli inginocchiati ai piedi del tuo seggio. Ascolto le domande. Conosco già le risposte che darai.
Vorrei, vorrei sapermi inginocchiare anche io e bere le gocce di illuminazione che lasci cadere dalle labbra dischiuse. Dissetarmi. Riposare. Porre nelle tue mani il mio destino.
Vorrei, vorrei che gli altri mi accogliessero come una sorella, vorrei che tu mi fossi Padre e Maestro.
Ma se esiste una strada, io so che devo trovarla da sola.
Vorrei che l’azzurro luminoso dei tuoi occhi mi attraversasse, che mi leggesse e dipanasse il labirinto.
Ti guardo. Pongo la mia semplice domanda.
“Puoi augurarmi “Buon Viaggio?”

(La tua mano, coperta da un guanto candido, si alza. Indice e medio uniti. Pollice ed anulare formano un cerchio. Ricordi di un antico mudra. Sigillo e chiave. Ancora, leggeri, bagliori di azzurro. Ma la mia memoria evoca la voce del monaco francese.)
Non ti sto chiedendo di benedirmi, non credo alle benedizioni. Chi sei tu per poter benedire o maledire? Ti sto chiedendo di augurarmi buon viaggio anche se non so stare qui, tra i tuoi seguaci. Non so fondermi in questo organismo, che vive di vita propria ma pulsa al ritmo del tuo respiro. E’ il tuo respiro la Verità?
So che appena la porta si chiuderà, la mia breve esistenza di cellula sarà dimenticata. Da loro, da te. O forse per te rimarrà il vago ricordo di un fallimento?
“Puoi augurarmi “Buon viaggio?”
Dolci occhi azzurri che mi guardano tristemente. Eppure sono già trasparente.
La mano lentamente si riappoggia.
Chiudo la porta alle mie spalle senza far rumore. Per non disturbare.

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L'Innamorato (Arcano Maggiore VI)

“Nell’amorosa quiete delle tue braccia”
da Chanson triste di Jean Lahor


Come sei bello, amore mio, come sei bello.
I tuoi occhi sono laghi profondi e vellutati in cui vorrei perdermi per sempre e per sempre dimenticare il mio nome “nell’amorosa quiete delle tue braccia”.
Abbracciami. Per sempre, abbracciami.

Ti ho incontrato molte volte, lungo il sentiero, splendido e ardente.
Ti ho visto, con le mani strettamente serrate sul petto in un abbraccio immaginario. Essenza pura della passione che non ha nome.
Vibri. Come un flauto attraversato da un vento di vita. E stai, immobile ed estatico, lasciando che il tuo cuore sia attraversato e ferito da frecce acuminate. Nobile. Paladino di colei cui hai offerto l’acqua che sgorga dalla fonte più pura.
L’hai scelta per un baluginio di luce tra le chiome, per un riflesso d’ambra negli occhi, per un incedere leggero, per una mano lieve e affusolata, per l’eco di un nome, per una nota pura nella voce. E per lei soffri e bruci. Per lei.
Per lei guardi le stelle, la sera, che scendono ad abbeverarsi nel fiume tranquillo.
Per lei ascolti, attonito, il suono della terra scossa profondamente dalle tempeste.
Per lei, ad occhi chiusi, ti perdi nel frangersi lento delle onde del mare.
E tu l’ami d’amore, ma non è lei che ami.
Ami il riverbero profondo del tuo stesso amore.
Ami il turbamento che ti rapisce.
Ami il vento che da voce alla musica arcana dell’emozione.
La prima volta che ti ho incontrato, la scia del tramonto si allunga delicatamente sull’acqua. E fu per la curva tenera della mia nuca infantile che il tuo cuore iniziò a vibrare. Ed io, allora, ti amai. Perché il velluto dei tuoi occhi mi ammalia. Perché desidero essere la sorgente a cui ti abbeveri, sollievo per il tuo ardere doloroso, alimento per i tuoi lapilli di gioia.
Da allora, molte volte ti ho incontrato, lungo la strada.
Accadeva che fosse per me, quel tuo palpito. Talvolta. O che ad un altro nome affidavi i tuoi sogni. Ma sempre, incontrandoti, ti ho amato. Di tenerezza lieve o di passione. Bruciando io stessa nel tuo fuoco o, lentamente, come una candela posta accanto al camino, sciogliendomi di commozione.
Come sei bello, amore mio, come sei bello.
Ed io sono stata, a seconda del tempo e del fluire della vita, colei che, severa, ti chiama a percorrere l’ardua strada. Oppure colei che ti offre il volo della follia del cuore e l’abbandono nel nodo di membra del talamo sacro.
Perché in me vivono tutte le donne.
Ma non è me che ami. Mai. Quando cadi in ginocchio accarezzando i miei lunghi capelli che imprigionano la luce del sole calante, non è me che ami, mio dolce fanciullo.
Quando mi porgi in pegno l’anello, non è me che ami.
Quando sospiri sul mio petto il nome di lei, non è me che ami e non lei.
Ora devo chiederti di lasciarmi passare. Ho un lungo cammino da percorrere, anche se vorrei, vorrei incontrarti ancora.
Il mio cuore è lacerato, ma non c’è riposo per me nell’amorosa quiete delle tue braccia.

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Il Carro (Arcano Maggiore VII)


“Sulla mia topolino amaranto dai siedimi accanto …”
Paolo Conte


Prima rimango per un po’ a spiarti, nascosta tra gli arbusti, mentre, falci l’erba del pascolo più lontano, poi, rassicurata della tua indifferenza, esco dal bosco per lavorare al tuo fianco.
Raccolgo l’erba dai luoghi troppo umidi e ombreggiati, perché non marcisca, e la faccio asciugare al sole. Ripongo quella già asciutta sul carro, in fasci ben ordinati. Tu non mi guardi mai. Mi ha colto un tremito di paura quando, in un attimo di riposo, contemplando il lavoro già fatto, ti sei stupito di quanto tutto procedesse velocemente. Ma subito hai ritratto lo sguardo da me e hai esclamato: “di questo passo riuscirò a falciare anche l’altro appezzamento, prima che inizi a nevicare. Avrò foraggio per tutto l’inverno e il latte più buono della valle.”
Si, avrai il latte più buono della valle. Il foraggio è tutto ben asciutto, ma non troppo secco.
Al calare del sole mi piace stendermi a riposare sul fieno profumato, nel carro, mentre lo conduci verso il borgo. Mi piace lasciarmi cullare dal movimento lento del bue. Ma, non so perché, prima della curva ti volti a guardare il risultato del tuo lavoro ed io ho paura di essere vista e scappo giù e corro verso il bosco. Se un giorno non ti volterai, se mi condurrai alla fattoria con te, sarò la più bella del borgo, sarò la tua sposa.

Devo essermi addormentata, qui, sul fieno fragrante, mentre una donna anziana raccontava storie ai bambini.
Una donna gentile. Quando mi ha vista arrivare, non ha fatto domande. Mi ha offerto una coperta e una tazza di latte appena munto e mi ha lasciata riposare.
Ora il sole filtra fra le assi di legno. Rimango ancora un po’ distesa, godendo l’abbandono del mio corpo stanco. Lascio scorrere nella mente le immagini dei sogni e quelle del viaggio senza tentare di distinguerle. Rimango sotto l’influsso intensamente magico di questa suggestione confusa.
Poi, sciolgo il bozzolo di coperta e paglia che mi avvolge e scendo la scala del fienile.
L’aia è luminosa e frizzante. Bevo abbondantemente alla fontana e mi lavo con l’acqua gelida. Provo a fare un po’ di rumore, ma nessuno, dalla casa, si affaccia. Congiungo le mani all’altezza del cuore e saluto il sogno ed il luogo.
Cammino lungo una strada che si snoda tra i campi coltivati, costeggiata da muri di pietra coperti di muschi.
La case si fanno sempre più fitte e lentamente cambiano aspetto.
Quando il sole arriva all’apice del cielo mi accorgo di essere giunta alla periferia di una città. Mi inoltro per le strade, larghe e dritte. E’ la città in cui sono nata. Sono stata lontana per così tanto tempo!
La foggia degli abiti è diversa, il selciato è fatto di un materiale strano e liscio. Non riconosco nemmeno l’odore dell’aria. Ma certamente è la mia città. La capisco dalla parlata degli abitanti e da qualche scorcio inequivocabilmente legato al mio passato.
Le strade sono affollate e una strana agitazione percorre i capannelli di persone. Sta per accadere qualcosa.
La gente si fa sempre più fitta, gli uomini prendono sulle spalle i bambini.
A poco a poco la folla si fa silenziosa.
Eccolo!
Il carro procede senza scosse sul selciato grigio.
Un principe forte e bellissimo si erge, indifferente alle urla di giubilo della folla, che fa ala per lasciarlo passare e poi lo segue acclamando.
Nessun bue trascina il carro. Si muove per la forza sprigionata da entità bianche e nere che lottano al suo interno.
Il giovane guarda davanti a sé, non saluta la folla, ma al suo passaggio pare si diffonda un senso di fratellanza. Un rapido bagliore dei suoi occhi azzurri mi accarezza e io mi illudo di leggere, in quel veloce movimento delle ciglia, un invito.
Non oso accoglierlo, né mi unisco alla moltitudine acclamante.
Mi reco, invece, nel luogo dove ho vissuto, tanto tempo fa. Mi pare che si chiamasse casa.
E’ rimasto qui, polveroso e abbandonato come l’ho lasciato. Lo visito come fosse un museo. Osservo con distacco il piano imbottito dove solevo addormentarmi e la scatola nera che osservavo, in silenzio, quando emetteva immagini e suoni.
Poi entro nella stanza delle fontane. Questo era il luogo che amavo.
Siedo sul bordo della vasca più grande. Il cannello è opaco e secco.
Poi, senza che io sappia come o perché, l’acqua inizia a sgorgare dai miei occhi. Sento gocce di pioggia che scorrono lungo la pelle, poi cadono tintinnando. Come perle.
In breve tempo la vasca ne è piena. Piccole sfere luminescenti.
Allungo la mano per raccoglierle, stupita.
Il mio pugno ne è pieno. Rabbrividisco. Nel calore della mia mano, lentamente, si sciolgono.

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Non ho ancora la forza (un lapsus)

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
alle spalle
.
Lasciatemi così,
come una
cosa
posata
in un angolo
e dimenticata

(da Natale di Giuseppe Ungaretti)

Perle di ghiaccio frantumano la luce disegnando vaghi bagliori sulle pareti.
Tolgo un po’ di polvere con le mani. L’intera stanza è rivestita di pietre lisce, lucide, celesti.
C’è silenzio intorno. Il frastuono della strada è attutito dall’abbandono.
Percorro il corridoio. Polvere. Polvere ovunque. E oggetti svuotati da ogni significato.
Eppure questo luogo mi appartiene.
Solo dopo un lungo viaggio, irto di avventure e di incontri, Odisseo giunse nel luogo ove nacque. Eppure non conobbe pace. Ancora gli fu richiesto di camminare, camminare, fino a quando non avesse incontrato genti che non conoscevano il mare.
Ed ecco io pure, a metà strada, trovo il luogo in cui sono nata.
Non ci sono Proci da sconfiggere, tra le polveri di queste stanze.
Nessuno sposo mi attente dopo aver conservato, intatti, amore e fedeltà.
Non c’è la mia gente, qui intorno che vive e canta.
E nemmeno anelavo il ritorno.
Queste stanze si sono levate tra me e il compimento del mio viaggio come un miraggio. Una sirena che canta suadente parole di sonno e di acqua. Perché io mi distenda qui, in questo angolo abbandonato dei ricordi. Perché la polvere mi ricopra come fossi una cosa. Perché il mio nome venga dimenticato.
Silenzio. Oblio.
Il tintinnio subliminale delle perle di ghiaccio si fa lentamente percepibile. Una musica dolce, lenta. Promette che sarò accolta nel mondo immobile degli oggetti. Che non ci sarà dolore, che la polvere mi coprirà dolcemente, come neve delicata sui campi, come petali portati dalla brezza.
Riposo, si riposo. Oblio.
Non voglio ricordare. Non voglio narrare. Non voglio più sentire il dolore. Che io sia assorbita dal tempo.
Ora mi sdraierò tra le coperte grigie. E lentamente diverrò come un fiore che, tra le pagine di un vecchio libro, perde il profumo ma non i colori.
Ecco. Chiudo gli occhi. Sento il tocco lieve delle prime particelle di polvere che si posano sui miei capelli. Percepisco fuggire nell’aria un bagliore di luce rossa. Un lieve alito di vita che mi abbandona.
Finalmente!
Il tintinnio leggero accompagna la lenta mummificazione della mia anima.
La musica si fa sempre più suadente mentre respiro questa polvere grigia, profondamente, perché arrivi fin nel mio cuore.
Riposo. Oblio.

NO! Niente sogni. Non voglio!
Silenzio! Silenzio!

Ho abbandonato la speranza. Ho disertato il viaggio.
Desidero solo che la polvere copra il dolore.
Domani, magari domani. Ora lascia ch’io dorma.

(*) Nda. Terminato il carro ho aperto il libro da cui traggo gli spunti per questi … racconti? Indecisa sulla direzione da scegliere ho letto attentamente non solo la carta immediatamente successiva, ma anche molte altre dopo.
Quando ho iniziato a lavorare sul nuovo brano ero convinta che l’arcano maggiore numero otto fosse “La Forza”. Ho pensato quindi di ripartire dalla casa abbandonata che la protagonista visita alla fine de “Il Carro” perché trovasse la forza di farla rivivere. Non sono riuscita. Ho ripreso in mano il testo alla ricerca di una spunto per scoprire che l’arcano numero 8 è La Giustizia. La Forza è molto più avanti. E’ il numero undici. Buffo! Non credo ai tarocchi eppure per la forza non è ancora giunto il momento!

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La Giustizia (Arcano Maggiore VIII)

“Il termine Giapponese MU significa “nessuna cosa”.
Come “Qualità”, mu punta il dito fuori dal processo
di discriminazione dualistica, dicendo semplicemente:
nessuna classe, “non uno, non zero, non si, non no”.
Afferma che il contesto della domanda è tale per
cui la risposta sì e la risposta no sono errate e
non dovrebbero essere date.
Il suo significato è: “non fare la domanda”.
Robert M. Pirsig
Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta

Ho sempre avuto paura delle lame. Anche dei coltelli da cucina. E tu, nella tua apparente fragilità, impugni davanti a me una spada.
Temo il colpo, temo lo scorrere del sangue.
Eppure torno a sedermi qui, di fronte a questo tappeto che delimita lo spazio tra di noi.
Lancio parole sulla tua bilancia. Mentre osservo attenta il tuo bellissimo volto. E, come se fosse uno specchio, vi cerco le tracce dello scorrere del tempo. Lievi.
Mi reco qui perché giustizia sia fatta, perché sia posto un rimedio al male.
Lo sai?
Una volta credevo che quella spada dovesse abbattersi sugli iniqui.
Dal mio letto, intrappolato in una scatola di bucce d’arancia essiccate, creavo con la mente, per loro, un destino crudele. Evocavo una spada impazzita dove odio e terrore potessero evaporare.
Lo sai?
Il male esiste davvero. Te ne ho raccontato la storia per ottenere vendetta.
Giustizia sia fatta. Che siano puniti. Si abbatta su di loro il destino. Morte. E ancora non è sufficiente.
Ma anche tu versi parole sulla bilancia. Mentre osservi, attenta, il mio volto. E vi cerchi le tracce dello scorrere del tempo.
Lo sai?
E’ ancora forte il mio desiderio di una giustizia piccina. Mi sia restituito ciò che doveva essere mio, sia consolato il dolore, le ferite siano curate con erbe potenti e profumate, ma soprattutto, soprattutto gustino lo stesso dolore, i malvagi.
(Dalle tue labbra scendono lievi foglie d’autunno che ondeggiano nell’aria densa prima di posarsi le une sulle altre a bilanciare le pietre che io getto con forza.)
A cosa serve la spada, piccola madre?
Perché nonostante la dolcezza del tuo sguardo, la temo.
Ho accarezzato col polpastrello tenero il filo luccicante. Ho guardato le gocce di sangue che formavano sul tappeto piccole macchie.
Poi mi sono seduta con le gambe incrociate e gli occhi bassi. Respirando lentamente in hara. E ho atteso.
Il monaco francese cammina silenzioso alle mie spalle. Nudi i piedi sfiorano il tatami.
A cosa serve la spada, piccola madre?
Seduta, attendo il colpo e lo temo.
Il giorno in cui per la prima volta sentii il rumore sordo del bastone sulla schiena di un fratello iniziai a tremare. Dovetti conoscere il dolore. Con un lungo respiro sciolsi il mudra e congiunsi le mani. Reclinai la testa, offrendomi spontaneamente al kyosaku.
Ma tu non accetti richieste.
A cosa serve la spada, piccola madre?

Sull’acqua limpida del lago tranquillo
galleggiano e lentamente si allontanano
rami secchi di salice.

Lievi tracce di sangue
disegnano il loro vagare.

Onde leggere
disciolgono
l’antico dolore
dell’odio.

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L'Eremita (Arcano Maggiore IX)

“Il contrario di solitudine non è compagnia. E’ intimità”
Andrea Bocconi – Il Matto e il Mondo


Ricordo di averla vista appesa accanto alla porta della casa sul lago per tutta la mia infanzia. Oramai non la usavi quasi più. Solo ogni tanto, per lavorare in campagna. Certamente! Oramai era quello il tuo angolo di quiete. Di silenzio.
Era di cotone, reversibile. Nera all’esterno e azzurra all’interno. O viceversa.
Una vecchia giacca da montagna. Cimelio dei tempi in cui avevi un sogno.

(Il tuo sogno. Abbandonato e lentamente trasformato in un deserto verde.
File di abeti perfettamente allineati che intersecano perpendicolarmente filari di pini. Assi cartesiani per determinare la finzione matematica di una vita.
Alberi stranieri. Tre metri esatti di distanza. E la tua consapevolezza vigile che non avresti mai visto la morte irrompere nello schema regalandogli corse di scoiattoli)

L’ho voluta per me il giorno in cui ho lasciato l’infanzia, il giorno in cui ho iniziato il mio viaggio portando sulle spalle uno zaino troppo pesante.
Uscii dall’infanzia da sola e mi avvolsi in quel poco che restava del tuo sogno.
Percorsi infiniti ponti, stupendomi perché il mondo si dischiudeva ai miei piedi. Credendo di percepire, nitido, nell’aria, l’odore dell’eternità. Ma forse era solo il gusto acre dei miei anni fragili e dirompenti.
Avevo conosciuto, attraverso il tuo sguardo, il sole sulle montagne. Lasciato vagare i miei occhi su tappeti d’oro.
Rosso e oro, l’autunno.
Ma le mie pareti di roccia furono le strade e la città la vallata su cui riposava il mio sguardo.
Avvolta nella tua vecchia giacca, il lato azzurro sempre all’interno, a contatto col mio cuore, potevo senza timore far scricchiolare, a piedi scalzi, pozzanghere gelate nelle fredde albe di Gennaio.
A tratti mi accompagnavo ad altri camminatori, giovani e acri, per poi ritrarmi nel sentire che le loro strade erano semplicemente strade.
E scoprii di essere sola. Pure la solitudine era un riparo intimo e caldo.
Era una tana, un nido. Era una sorgente.
Fu per amore di una donna che tu, un tempo, richiudesti le ali del tuo sogno e spegnesti la febbre dell’ascesa. E fu a lei che io cedetti il tuo manto in cambio di una bella giacca di lana bianca. Perché stessi più calda, mi disse. Eppure, in quel momento preciso, io iniziai a tremare.

Questo è l’inizio della storia che mi ha portato qui. Solo l’inizio. Il resto è stato un lungo vagare. Perché la solitudine si è trasformata in una lama di coltello.
Il giaccio sotto i piedi nudi, le lunghe strade, i ponti. Coltelli.
Le parole che intersecavano i miei passi. Coltelli.
Coltelli i colori delle foglie di castagno e gli aghi d’oro dei larici.
Coltelli le libellule sullo stagno.
Fu allora che bussai alla porta del monaco francese.
Solo ora, ora che sono giunta fin a qui, posso raccontarti di lui e smettere di fuggire.
Tremo ancora di freddo ma, vedi, non ho più paura, non di lui, non dei suoi seguaci.
Perché egli mi accolse. Eppure le sue parole furono per me coltelli.
Era destino, il mio destino, che il viaggio fosse freddo e solitario.
Fuggii. Conosci già il resto della storia.

E adesso è quasi sera.
Ho colto una piccola lampada che il tardo pomeriggio ha acceso lungo viale.
Cammino lentamente, che la sua luce fioca mi permetta di non ferirmi i piedi sulle lame di ghiaccio.
Adesso è quasi sera.
Cammino curva, ad assorbire il lieve calore emanato dalla fiamma gialla.
Cammino. Ancora.
Dell’antico cimelio dei tuoi sogni è rimasta soltanto una tela di ragno, gettata distrattamente tra gli stracci.
La stringo forte intorno a me. Appena percepibile il trapelare dell’azzurro.
Lascio che mi compenetri perché la solitudine possa tornare ad essere sorgente.
E adesso, che è quasi sera, lentamente percorro un ponte. Ancora.
Ancora.

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La Ruota della Fortuna (Arcano Maggiore X)

Il servitore del re trova impedimento su impedimento.
Ma la colpa non è sua

I Ching Esagramma 39 - Chien – L’impedimento

Galleggio leggera nell’uovo prenatale.
E non ci sei, non ancora, tu, intorno a me, madre.
Una fioca penombra traslucida pulsa al ritmo sincopato di due cuori appena sfasati.
Questo è lo stato in cui tutte le possibilità sono aperte.
Quello che succederà tra poco, quello, non lo potrò scegliere.
In questo piccolo uovo salato potranno avere inizio infinite storie.
Galleggio, in questo vaso tiepido e inconsapevole.
Il mio contenitore fragile scivola lungo i canali che mi condurranno al primo giro che la ruota compirà per me.
La prima minuscola radice che mi avvinghia alla vita, il tuo primo conato di vomito, già questo deciderà quali stelle il cielo configurerà sulla mia nascita. E se sarà con un sorriso, con un fremito di speranza che scruterai l’assenza di macchie rosse sulla biancheria, sorrideranno.
Ma tu, mamma, hai pianto.
Hai disegnato per me il difficile destino di una bambina non amata.
La sorte avrebbe potuto mettermi accanto in fratello solidale, un padre amorevole. Non lo ha fatto.
Tante, tante cose dipendono dalla ruota della fortuna.
Per molti di coloro che vagano nel labirinto della vita il percorso è semplice, quasi non si accorgono dei corridoi ciechi che si aprono ai lati del loro cammino. Per altri, che hanno aperto gli occhi nel crocicchio più scuro, la strada è difficile e solitaria.
Ma ecco (dormivo) apro gli occhi e trovo accanto a me uno sguardo dolce.
Ecco (dormivo) mi svegliano parole d’amore. L’amore, finalmente, l’amore che tu, madre, mi hai negato.
Lo bevo, me ne nutro. Dunque anche per me c’è una casa. Occhi e mani che accendono un fuoco. Lascio che il mio cuore si scaldi. Piano.
Piano, accanto al camino, la tenerezza scioglie le mie lacrime.
Il pianto è una cortina di solitudine.
In silenzio rimango a guardare il fuoco che si spegne. Inesorabilmente.
Ho freddo adesso. Freddo. Ancora.
Altri, altri sanno trovare dentro di sé il calore.
Io, io ho atteso così tanto qualcuno che accendesse il nucleo caldo della mia anima che ho imparato quali parole, quali sguardi spengono il dolore che ho intorno. Ma non il mio. Non ancora.
Certo, un alto breve amore potrà donarmi un po’ di riposo. Lo berrò come una tazza di the dopo una giornata di cammino. Poi lo guarderò spegnersi lentamente. Lo saluterò con la mano mentre si allontana. Non sarà questo giro della ruota a determinare il cambiamento.
Aspetto.
Cerco, cammino, scavo, salgo scale interminabili, scendo nel profondo delle caverne.
Soprattutto aspetto.
Perché nonostante la mia incessante ricerca, forse anche intravedere l’inizio del mio sentiero dipende dalla ruota della fortuna.

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La Forza (Arcano Maggiore XI)

“L’uomo si deve decidere a diventare ciò che è”
(Soren Kierkegaard)

“Non devi avere paura. E’ solo un leone di montagna. Da molti anni il suo spirito dimora nel mio cuore.
Saranno i suoi ricordi di cacce e di silenzi a nutrire il rito. Ma prima dobbiamo parlare di queste volute di fumo. E tornare indietro. Vieni. Seguiamo il gomitolo.”
Ti vedo tendere le dita sottili verso di noi. C’è una domanda nei tuoi occhi.
“Non è questo il momento per raccontare la storia. Ora dobbiamo riannodare il filo spezzato. Lo so che vuoi ascoltare parole e sollevare il velo dei perché.
L’ho conosciuto quando portavo ancora il manto di mio padre. Basta a dissipare la tua paura?”
(L’ombra di un platano si allungava lenta nel tepore vaporoso di un pomeriggio di maggio. La terra era umida per le recenti piogge e l’erba rigogliosa.
Le foglie, non ancora impolverate dall’estate, nascondevano l’orizzonte, aprendolo a infinite possibilità.
Il nostro incontro, breve bagliore di sguardi, mi trafisse con un amore caldo e avvolgente.
Rimanemmo insieme, in silenzio, le anime confuse. Il mio cuore rapito dall’oro che emanavi.
E forse non fu un caso se tra tanti sguardi mi persi proprio nel tuo. Figlio, esiliato, delle montagne.
Annapurna. Luogo lontano, nome segreto.
Mio fratello prigioniero in un labirinto disseminato di cristalli e di calici d’argento. Farfalle trafitte da uno spillo alle pareti.
Ancora vergine Arianna. Nessuna impronta sulla spiaggia deserta.
Una sola goccia di sangue sulla neve.
Questo io era quando giocai con i tuoi occhi.
Gialli. Forti. Vellutati. Inquietanti. Tranquilli. Avvolgenti. Laceranti. Morbidi. Caldi. Distanti. Intimi. Folli. Smarriti. Terribili. Teneri.)
“Andiamo.
Vedi? Questa è la città in cui sono nata.”
“Mi hai già condotta qui.”
“Sì. E mi sono confusa perché sotto al platano oggi vivono solamente papere meccaniche. E l’orizzonte è troppo noto perché la vista sappia rispettare il tremolio delle foglie. La magica complessità delle luci e delle ombre.
Oggi sediamo insieme sotto a questo albero. In silenzio. E aspettiamo."
“Che cosa?”
Sento il tuo pianto. Conosco il dolore che ti lacera.
“Piccola, dammi le mani”
I miei occhi si sono fatti più neri. E più caldi. So che ti farò male. Eppure non c’è pietà nel mio sguardo. Solo infinita tenerezza.
Il puma canta con la sua voce ruvida e profonda. Come sentisse che il momento è vicino.
Il sole, ancora una volta, ha raggiunto l’apice del cielo.
Eccolo!
Nessun bue lo trascina.
Si muove per la forza sprigionata da entità bianche e nere che lottano al suo interno.
Un rapido bagliore di occhi azzurri mi accarezza.
In carro si ferma e il giovane principe sorride all’animale dorato che riposa accanto a me.
Metto le tue mani nelle sue.
Sono calde e stringono forte le mie dita.
Ed è con la voce di un dio che mi intima di rinunciare al nome che ho sempre portato.
Inginocchiata, mi siedo sui talloni.
Seiza
Congiungo le mani all’altezza del cuore.
Gassho
Non è la voce del monaco francese.
E non c’è più paura.
Ti guardo salire sul carro mentre accendo l’anello di candele.
Ti vedo abbracciare un ragazzino di tredici anni. Abbiamo portato per lui matite colorate e pomodori maturi.
Quando il fumo inizierà a salire in volute dense potrò indossare il nome che è sempre stato mio.
Tra poco sarai solo un’ombra trasparente. So che tornerai a chiedere la mia pietà.
Qui, sulla vetta di luce, troverai infinita tenerezza.
Ascolto il coguaro cantare, profondo e graffiante, la mia paura.
E la mia gioia incontenibile.

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L'Appeso (Arcano Maggiore XII)

Seduto
Respiro
Immobile
Il viaggio non è mai iniziato!

(Maestro Engaku Taino - 2002)

Lento il sentiero si inoltra nel bosco di acacie.
Conduce ad uno stagno tranquillo dove, ogni giorno, le libellule danzano spirali di nebbia.
Mi recavo qui, da bambina, ad attendere l’accendersi della prima stella nel cielo di cobalto. Dello stesso colore (ricordi?) di quello che circondava la luna che ti ho mostrato, tra le insegna al neon e un giardino d’aranci.
Sono strani i contrasti che colorano la vita. Più di tutti la luminosità della notte incipiente.
Sapevo che lo scorrere del tempo l’avrebbe trasformata in tenebra. Ma io non potevo, allora, aspettare.
Stasera, quando il buio ha ingoiato l’ultimo cirro, mentre Venere ancora pulsava, prima di confondersi nella solita folla di luci, ti ho incontrata.
Stavi, come smarrita. Eppure presente.
C’erano alghe intrecciate ai tuoi capelli.
Mi sono seduta sulla pietra di allora mentre tu rimanevi, come incerta, in equilibrio tra l’esistere e l’ essere immaginata. E forse ti saresti lasciata assorbire, tornando corteccia, se non avessi accarezzato con un dito la tua veste di muschio.
Soglia di donna, immobile sulla soglia del tempo. E la tua, voce odorosa di boschi, mi ha avvolta.
Lento dipanarsi di vite. Intrecciate e divise. Impastate di terra e di acqua. Mentre dita sottili sfiorano la pelle e districano i capelli lasciando che finalmente l’aria, tiepida, respiri.

Ho camminato. Tanto. Attraversando cunicoli e labirinti.
Non so più se sei tu che stai narrando o se è il mio stesso racconto a srotolarsi nella tua voce.
Fino a trovarmi su una spiaggia deserta, al comparire dell’alba, contemplando ciò che non può essere detto.
Era freddo il colore del cielo sul mare. Latteo. Ma, nell’insenatura protetta, per la prima volta conobbi la pace.
Avevo costruito il vaso con queste stesse mani. Anche se era solo una rudimentale pentola di coccio. Riempita col mio sangue.
E avevo lasciato che bollisse al fuoco del dolore. Cospargendolo col sale delle mie lacrime. Amalgamandolo con un mestolo di parole. Insaporendolo di rabbia. Di brandelli d’amore. Di incolmabile nostalgia.
Poi, accanto alla pentola, mi sono rannicchiata cercando, dentro al mio stesso ventre, un rifugio.

Ma io non ero sola, sorella, mentre il mio sguardo abbassato cercava i punti consunti del tappeto.
Ho lasciato cadere le squame che crescevano sulla mia pelle.
Urlando, forse, la paura di essere tradita.

Furono carezze a sbucciarmi. Delicate. Tenere.
E il dolore fu immenso. Non ero sola, sorella. Tu sai che l’amore più puro può, come la luminosità della notte, squarciare il cuore. Fino a renderci calici vuoti.

(insieme)
Allora ho incontrato il mio sposo. Nel giardino nascosto. E l’ho amato d’amore.
Poi, nell’abbraccio struggente, dal profondo del più grande desiderio di tenerezza, mi sono voltata ed ho camminato, ancora. Da sola. Verso monconi di passato. Verso possibilità abbozzate. Via. Spostandomi dalla traiettoria del suo sguardo perché, perché per me, non c’è ancora riposo. Non questo.
Ho alimentato nuovamente la fiamma con i petali carnosi delle magnolie. Inventando riti. Segreti.
Fatti di cerchi e di profumi.
Per attraversare la morte.
Ed infine, ecco, io sono.
Infine
non sono.
Non sono la vittima ignara del male.
Non sono tua madre, figlio mio.
Non sono, non sono tua figlia, madre.
Non sono tua sorella.
Non sono la sposa.
Non sono l’amante.
Non sono fragile.
Non sono l’amica.
Non sono fanciulla.
Non sono la dea.
Non sono la voce dell’acqua.
Non sono forte.
Non sono il mio pianto.
Non sono dolore.
Non sono montagna.
Non sono un viaggio.
Non sono una vela. Ma il vento gonfia il paradosso del mio non andare.
Non una farfalla. Ma uno spillo piantato nel petto mi trattiene, immobile, in questo momento preciso.
Qui, dove più nulla può essere fatto.
E adesso, finalmente, respiro.
Le antiche parole risuono vuote.
Le voci, tutte le voci, intonano il silenzio.

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La Morte (Arcano Maggiore XIII)

Ogni angelo è tremendo
(R.M Rilke – Prima elegia duinese)

Nulla può essere detto.
Lasciate che il silenzio avvolga il mistero.
C’era un lago tranquillo. C’era una barca sull’acqua. C’erano ombre luminose che proteggevano l’intimità del sogno.
Desiderio palpitante di un abbraccio caldo ed eterno. Preparato per me dal profondo del tempo.
NON VOGLIO! Non voglio spegnere l’illusione.

Tacerò sul colore delle tenebre.
Sul calare del sudario, sul freddo, sulla paura.
Ma lei mi ha tenuta per mano. Mi ha nutrita con i frutti più dolci.
Mentre l’urlo ancora risuonava nelle valli dei larici.
Tacerò sul profondo della terra. Dove non ho incontrato uno sposo che mi porgesse un chicco di melograno.
Lei mi ha offerto uva e mele.
Ed io so che dovrò ancora immergermi in quelle acque che gli occhi vedono immobili e stagnanti mentre la pelle avverte il loro gelido, ritmico pulsare.
So che dovrò camminare ancora in quelle tenebre, dove le stelle appaiono solo abbassando le palpebre. E aprendo il cuore.
So che dovrò ascoltare quel silenzio pieno di grida dove, con le mani sulle orecchie, si sente il canto della quiete.
So che dovrò ancora sentire strappata fuori da me tutta la speranza (vaso vuoto. ventre prosciugato.) per essere colmata.

Non ascoltare le suppliche agli dei, cui offro doni per ricevere doni.

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La Temperanza (Arcano Maggiore XIV)