LA
MULTA
La vedo, di scorcio, rientrando e chiudendo il portone
di casa. Sta nella cassetta delle poste con l’odiosa, inconfondibile
posa che hanno assunto certe cartelle della SRT. Beffardo e tragico
messaggio meccanografico, invito- obbligo ad ottemperare ad un
pagamento in tempi rateizzati ma la cui prima scadenza prossima
ti è quasi già addosso . Se non adempi subito ti
è già diventata "mora" . Sapore d’un
frutto selvaggio, di rovo e dolce, ma che nell’accezione
tributologica del termine, può diventare salata.
La sfogli sfuggentemente Ma ti colpisce una cifra iperbolica da
pagare in unica soluzione. Con una scadenza a ridosso del poco
più di domani. Leggi con rabbia il resto. Fatto di cifre,
che fanno riferimento a numeri, che ti affidano ad una esplicazione
di codici in sequenza numerica tra i quali affiorano finalmente
lettere: CONTRAVV. COD. STRADA. A COSCO LUCIA
Capisco. Anzi, realizzo. E’ una multa non pagata. Di mia
moglie.
Il primo sentimento è di offesa. Il secondo è di
rabbia. Il terzo non è proprio un sentimento, piuttosto
un coacervo di sentimenti liberati tutti insieme in una imprecazione.
Secca., e , a modo suo, inconfondibile. Come è inconfondibile
il grido del contribuente, (adempiente o moroso che sia) quando
si accorge che gli si sta strizzando, con mani anonime ed impietose,
l’ultimo goccio dal portafogli.
Una multa. Del 1996. Non pagata ! Di duecentosedicimilalire! Raddoppiata
nella "zona Cesarini della prescrizione, con gli ammennicoli
amministrativi e burocratici, diventata di quattrocentoenovemilalire!
Cosa avrà fatto mai di tanto grave mia moglie? E perché
non me l’ha detto? Sa allora nascondermi qualcosa?Mia moglie
interrogata, cade dalle nuvole. Con una costernazione sua che
aumenta la voglia miadi sapere il dove e il quando e il perché.
E la cartella è così laconica. Non ti da un posto
di riferimento,neppure una data precisa di come s’è
consumato il fatto. Solo quella data di scadenza assolutamente
prossima, che assomiglia quasi ad un ricatto, ad una minaccia
d’ un "cravattaro" che ti chiede il "pizzo".
Riorganizzi la mente offesa e stravolta. E ti ricordi di un amico
Vigile Urbano a cui affidare lo scarno carteggio perché
possa risalire alla fonte di uno straccio di verbale che ti dica
se e perché e per chi devi pagare.
- Fai parte delle seimila.
- Delle seimila che?
- Delle seimila multe mandate a pioggia. -Capisci a me –
dice in un campobassano ami-
che michevole eppure strascicato dall’imbarazzo -.
- Ma io quel verbale non l’ho ricevuto… Nessuno me
l’ha notificato.
- O l’hai ricevuto e ti sei scordato di pagarlo… Capita!
Pensavo convintamente che tanta posta inutile arriva a casa; che
nei meandri di essa e dei pensieri qualcosa di importante poteva
essere finito inavvertitamente nel secchio della spazzatura.E
il mio animo che era già sui blocchi di partenza della
rivolta, non cominciava neppure la corsa; si rialzava sconsolato
e dondolando il capo in un atto di diniego di se stesso, come
di chi stesse facendo una falsa partenza. Capovolgendo la rabbia
per un creduto sopruso, in sensi di colpa.
E la mattina dopo ero pesto, dominato da un sentimento di impotenza
rispetto ad una folla di obblighi incompiuti, di rate scadute,
di tasse non pagate. Carte a folate avevano tagliato a fette i
miei sogni .Anche mia moglie, io svegliandomi più volte
e rigirandomi verso di lei, mi sembrava una complice di contravvenzioni
alla regola. La mia dolce moglie colpevole di non saper parcheggiare
la macchina come si deve.
Sul tavolo dello studio mi ritrovai il risultato preciso e asettico
della ricerca del mio amico Vigile Urbano: Fotocopia del VERBALE
N.9191- DEL 2-12-1995, ORE 12,05. LOCALITA’ VIA INSORTI
D’UNGHERIA, " Parcheggiava l’ autovettura sul
marciapiede".
Fui saziato e abbeverato della mia voglia di sapere. Quasi contento
perché scagionava mia moglie da qualsiasi intrigo. Intorno
a quella via c’era il mio studio ed abitavano buona parte
dei miei parenti.Ancora più contento perché la storia
di quella multa mi era ,come in un lampo, tornata alla mente;
come una cosa saputa, raccontata da mia moglie come l’ennesimo
evento persecutorio d’un Vigile Urbano
coi baffi umbertini d’un giustiziere che aveva spiato per
giorni e giorni le sue mosse.
Io conosco di vista quel Vigile. E conosco bene mia moglie. E
come parcheggia lei. E come punta certi parcheggiandi lui. In
virtù di questi elementi identificativi, ritornando a casa
mi si aumentava addosso la convinzione che quella multa io l’avevo
già regolarmente pagata. C’era però l’angoscia
che coglie gli innocenti incapaci di trovare la prova della loro
innocenza. Che doveva essere una carta, una ricevuta attaccata
con una spilletta metallica all’originale di quel maledetto
verbale numero novemilacentonovantuno. Che scagionava me, mia
moglie e…
Io l’avevo vista già quella carta, quel numero.
Eppure entrando a casa mi chinai in ginocchio, come in un atto
di devozione e di propiziazione, di fronte a quella austera cartelliera
che nei due scomparti inferiori conteneva il carteggio ventennale
di me soggetto pagatore. Con poca speranza di tirare fuori da
quella caterva di cose atti e aliti di vento già pagati,
quella ricevuta che mi avrebbe evitato l’umiliazione di
pagare con doppia e tripla mora una cosa già pagata.
Sguainai lo sguardo più attento. Dietro gli occhiali pile
di carte si assottigliavano. E la speranza di trovarla pure. Ma
non completamente il desiderio di chi vuole aver ragione.
E alla fine la trovai. Cacciata negli ultimissimi piani di quella
fila infinita di gabelle già esatte La confrontai, attaccata
ancora con la spilla metallica a quel verbale originale.
Uguale uguale, come due gocce d’acqua, alla fotocopia che
il mio buon amico Vigile Urbano mi aveva procurato. Pagata a tempo
debito l’11 aprile del novantasei.
Sorrisi. O risi? Certo che subito dopo una decina di madonne si
saranno chieste tra loro chi di loro avessi chiamato.
Salvo dall’angoscia esistenziale di sentirmi nel torto più
lercio che fa la differenza tra un buon cittadino ed un evasore,
non ebbi tempo di gioire del riacquistato possesso della mia dignità
che mia moglie, alleviata anch’essa d’una colpa forse
solo rimandata, mi gridò dalla cucina:
- "Fai qualcosa!"
- "Chè cosa ?"
- "Un esposto all’autorità".
Io , se avessi potuto, in quel momento all’autorità
gli avrei fatto cacare vermi e sangue. Ma l’auto-rità
non ha un culo. Per te almeno, non ha un culo. Resta una creazione
eterea della mente inculcata in tenera età dall’educazione
proba ed ossequiante dei tuoi genitori. E pertanto virginea e
asessuata.
Lei, mia moglie, è la persona più istintiva e più
pulita di questa storia.
Aveva parcheggiato il "musetto" della sua "Panda"
sopra il marciapiede.
E non è detto che non lo faccia più.
Troverà ancora zelanti appiccicatori di verbali. Ed esattori
zelantissimi che manderanno bollette a pioggia, come strali, come
bombette ad orologeria depositati legalmente nel bassoventre di
contribuenti prostrati, quasi già resi eunuchi dalla convinzione
che pagare in silenzio è sempre solo parte d’un debito
contratto alla nascita con l’autorità.
Gli evasori seri, quelli no. Quelli continuano a coniugare il
loro verbo nei tre tempi.
Cambio tonalità al racconto.
Lei, mia moglie, è la protagonista più istintiva
e più pulita di questa storia.
Ha parcheggiato il musetto della sua "Panda" sul marciapiede,
uno qualunque di questa città dove ormaila mattina si esce
buoni da casa e, prendendo la macchina, ci si incattivisce per
strada, provando a marcare il vicino di fila, e quello davanti,
e quello di dietro, per provargli a sficcare una distrazione,
un assenso-consenso per passargli davanti, perché ti devi
canalizzare in una certa situazione dove ti aspetti di trovare
un semaforo che invece è spento e allora c’è
il Vigile che se è sveglio ti riesce a calcolare la portata
del traffico ma sennò agevola l’ingorgo con fare
incazzato quasi napoleonico come se dicesse che sei tu che non
capisci i suoi gesti che sono elementari eppure maestosi, pavoneggianti
un fatto che qui non si va avanti, non si procede non si arriva
all’ora in quel posto dove a quell’ora saresti dovuto
già stare e invece picchieresti sul clacson volentieri
se non fosse che non vorresti sembrare maleducato ma se picchiano
altri dietro di te volentieri lo fai anche tu perché le
migliori proteste sono sempre quelle di massa dove tu anonimo
ti puoi sfogare e non è detto che poi non siano le più
sentite perché possono arrivare fino al sindaco certe strombazzate
di traffico che durano più di mezz’ora e se ci arrivano
ti danno quasi l’idea di partecipare ad una giusta protesta
popolare senza pensare che poi io senza accorgermene sto girando
e girando e non mi ricordo più dove dovevo andare tanto
che mi chiedo cazzo ma perché ho preso la macchina per
andare dove non so più dove devo andare visto che adesso
se deciderò di fare quattro passi a piedi questa fottuta
macchina dovrò pure parcheggiarla da qualche parte e a
guardare mi sembra la cosa più difficile che mi è
capitata di dover fare da qualche anno a questa parte anche se
adesso mi dicono che ci sono i parcheggi a pagamento ma sarà
poi vero che la gente sa usarli e stare mezz’ora e poi andare
via e lasciare spazio agli altri oppure sono tutti residenti o
abbastanza ricchi in questa città che se ne fottono di
abbandonare pure per il Corso la macchina parcheggiata duemilalire
ad ora per cinque ore e noi che giriamo e giriamo e adesso adesso
intravedo lì in mezzo ad una fila di macchine parcheggiate
a spina di pesce un vuoto caspita ma dedicato al posto riservato
ad un handicappato che io rispetto cazzo ma in questo momento
mi dispiace ma che c’entra se per legge hanno dovuto fare
quaranta posti nella città come questi però loro
sono di meno perché togli quelli che non escono mai perché
sono troppo troppo handicappati e togli quelli che la carrozzella
non ce l’hanno quelli che non ci hanno nè la macchina
loro né quella dl Comune quando cazzo escono per occupare
tutti questi posti riservati e però se mi ci metto mi sembra
di fare una cattiveria proprio a loro invece che farla a quelli
che si fanno belli che i posti per parcheggiare ci sono per le
persone handicappate ma non ci sono per quelle normali.
Curiosamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo divenuto
poi anche un film il cui contenuto è anche abbastanza diverso
da quello che l’immaginario popolare ha adottato come simbolo
adottando il titolo. Giungla d’asfalto.
Per dire tutto quanto di nefando ha creato la civiltà delle
automobili.
BRRRRRRRAMMMMMM e PPARAPARAPERO!!!!
Mi sono incazzato per davvero. Freno. Mi fermo. Scendo. Rificco
la mano nell’abitacolo per suonare a festa, senza motivo
alcuno, per l’ultima volta il clacson. Mi ficco le mani
nella tasca e decido di mettere nella mano dell’amico parcheggiatore
una grossa manciata di punti e di virgole.
Che decida lui come distribuirle nel racconto precedente che ne
è mancante.
E, soprattutto, gli do in affidamento a vita la macchina. Lui
pare non credermi.
Ma io lo convinco.
E lui si sente obbligato a restituirmela: "Quann’ vulit
vuje , dotto’ ".
Io m’incammino a piedi e i miei piedi subito provano a prendere
a calci una lattina di Coca Cola con la doppia carambola di Altafini.
Piede desto, piede sinistro e poi ancora destro, a fregare il
portiere!
"Quiss’s’è ‘mpazzut’ "
ho idea che mi sentenzi dietro le spalle Giovanni il parcheggiatore
, dondolando sconsolato ed incredulo la testa e buttando per terra
quella manciata di punti e di virgole.
Che poi, con il piede pesta con rabbia , come un agglomerato di
fastidiose formiche
Macchine incolonnate viste dall’alto.
(Torna su)
L'espianto
Forse prima della frenata non avevo capito nulla nemmeno
io.
Così, improvvisamente sorpresomi a battere forte ed incessantemente
e senza quelle pause che di solito mi aiutavano a capire la situazione,
a riflettere.
Una luce di fari spalancata sulla visiera del casco di Nicola. Un
rivoltarsi come dentro un vaso che rotola, un rumore di vetri rotti,
un botto. E la motocicletta che ballonzola sulle gomme e poi scivola
giù per la scarpata.
Come un clown colorato che esce di scena.
Per un momento lunghissimo pensai che tutto fosse finito anche per
me. Come se ci fosse stato un cortocircuito con una scintilla e
poi il buio assoluto. Nicola era scivolato anche lui nella scarpata,
dalla parte opposta della motocicletta.
La prima sensazione che ebbi fu quella di ricominciare a salire
delle scale con passo lento lento e leggero leggero. Tanto lento
e tanto leggero che ero in dubbio se quell' azione fosse reale così
da produrre un qualche movimento, un qualche rumore..
Poi però, progressivamente ,quelle sensazioni di movimento
e di rumore diventarono più nette, più efficaci. Come
se quelle scale portassero in cima ad un campanile dove udivo il
rintocco di una campana, pieno, forte, quasi assordante. Ero io
che avevo ricominciato a battere, a sentirmi riempito e svuotato.
Riacquistai il pieno possesso di me solo qualche minuto dopo. Ma
la
gradevole consapevolezza di essere vitale, era turbata dall'immagine
di quel rivolo di
sangue che , scivo-ato dall'angolo dell'occhio, s'era già
raggrumato all'angolo della bocca di
Nicola. Forse il cuore qualche volta parla con l'anima, forse no.
Forse vive solo della volontà del cervello e ,quando questo
è muto, si sente spaurito, perso. Ma proprio perché
non mi rassegnavo a quel vuoto intorno, a quell' involucro silenzioso
che era diventato il corpo di Nicola, mi ricordai di tutto il chiasso
che avevamo fatto insieme . E gridai che Nicola non era morto, non
era morto. Che poteva rialzarsi e che il suo primo pensiero sarebbe
stato quello di riprendere la motocicletta nella
scarpata, riallacciarsi il casco intorno al collo e ,pigiato il
pedale, rombato al massimo il
motore con due movimenti di andirivieni del polso, correre a trovare
Maria. A raccontarle
che aveva visto un incidente incredibile in cui anche lui, per evitare
una macchina, si era pure sbucciato un ginocchio . Avevo gridato
così forte tutto questo che ,tra il rumore assordante di
sirene di autoambu lanze ed un vociare intorno del perché
e per come, qualcuno mi ascoltò per
davvero e confermò che Nicola non era ancora morto.
Corremmo in Ospedale con una corsa piena di premure e di speranze
in cui l'ascolto di me era diventato incessante, quasi estenuante,
alternato solo dal sollevare le palpebre di Nicola che pareva continuasse
a dormire .
E Alla fine arrivammo.
Le luci di una sala di Rianimazine in cui, su uno schermo verdognolo,
impulsi biancastri spiavano la tua efficienza e , tra una miriade
di fili e tubi, ogni tanto qualcuno passava per controllare se continuavi
a respirare come volevano loro.
Fuori, schiacciati con il naso contro il vetro, i genitori di Nicola,
il fratello e Maria spiavano anche loro ,tra le lamine della veneziana,
un qualche segno di vita. Quando per qualche minuto entrava la madre
, provava a parlargli accarezzandogli la vena della mano dove entrava
l'ago della fleboclisi. E spingeva il dito da giù a su per
quella vena, come per spingere, insieme alla medicina, qualche
parola, una traccia nel percorso dei ricordi, perché arrivasse
chissà dove. Ma poi finiva per piangere e gridare e una buona
infermiera doveva accompagnarla fuori. Anch'io vedevo scorrermi
le giornate addosso e guardavo Nicola da dentro e provavo a stimolare
a suon di battiti i suoi muscoli e , con questi, i nostri ricordi
comuni che poi erano tutti , ma proprio tutti, quelli che avevo
io e che aveva o non aveva più lui. In quei giorni di assoluto
silenzio i nostri episodi più tristi glie li avrò
raccontati come favole e frottole, e i nostri momenti migliori come
un'apoteosi da festeggiare con una "volata" - dicevamo
noi- sulla motocicletta.
Dopo diciotto giorni di questa attesa ,qualcuno dei medici incominciò
a chiedere, prima timidamente, poi sempre più insistentemente,
cosa fare del corpo di Nicola. Qualcuno parlò di trapianto
così dolcemente persuasivo che ci accorgemmo che tutti noi
non aspettavamo altro .
Perché Nicola non si sarebbe svegliato più.
Lunedì 18 di aprile alle ore 9 , due calde mani mi presero
e mi posero, come bendato, come bendano un sequestrato quando lo
liberano ma non vogliono fargli ricordare nulla dell'immediato passato,
in un contenitore frigorifero. Lunedì alle ore 16 dello stesso
giorno altre mani mi posero e sentii di riacquistare calore quando
tornai a fare quello che avevo fatto da sempre. Battere per produrre
vita.
Come un anonimo operaio della vita.
Ora il mio si chiama Giuseppe ed ha due splendide figlie alla cui
ansia e alla cui gioia nell'averle, non ho partecipato.
Ma confido nell'emozione che lui avrà nel vedersele andare
spose.
Per ora, non guida la motocicletta. E questo, un po' mi manca.
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IL JOYCE
DI ULISSE
Di tre ore ad Ulisse erano rimasti solo quindici minuti per poter
dire cosa pensava di Joice.
Se l’era preparato tutto questa volta il compito del concorso.
Tutti gli autori del novecento.
Con quell’aria di studente che gli pesava ancora addosso ,
e che , a trentaquattro anni, sembrava ancora non averlo abbandonato.
Quattordici mesi a cambiare idea, leggendo, su tutti e su tutto.
Quattordici mesi ad ascoltare cosa ne pensavano gli altri.
Quegli opportunisti che dicono sempre di sapere tutto , quelle sanguisughe
della lettura presunta, gli antropobibliocefali in colletto inamidato,
che , per
loro il pensiero, leggendo, è come un segnalibro.
Con Giacomino no , suo caro antico e minuto compagno di banco.
Con lui si parlava di donne, di seghe e...
“Che stai facendo?”
“Mi esercito alla vita”– aveva detto, buttando
la sigaretta nel bidè e ritraendo la mano e gettando all’aria
il giornale dove Magdalena ciancicata offriva, non proprio di nascosto,
ma complice, zizze e culo.
Se fosse stata vera e non di giornale, Magdalena si sarebbe incazzata
e glie ne avrebbe dette quattro alla mamma di Giacomino.
Ma Giacomino era rimasto solo seduto ed immobile. Se durava ancora
la scena, il cesso l’avrebbe inghiottito, per togliergli il
disturbo della vergogna.
E , tirato lo scarico, nulla più di lui.
Eppure resistette.
E ci aveva provato ad estenderlo tutto quel suo senso di colpa.
Ma due schiaffoni in faccia dati dalla mamma glielo avrebbero azzittito
per sempre quel suo senso di tutto.
Che dici Giacomì , sto cazzo di Joyce come lo interpreto?
“E’ nu strunze pure isse” – dice, leccando
la bocca della settima
Birra Peroni – “e’ nu strunz’ pure isse.”
I minuti erano rimasti dodici. Doveva scrivere qualcosa Ulisse
su Joyce . E lo doveva fare in quei dodiciminutirimasti , che andavano
di fretta.
“Tic tac., tic tac”
Pare una fesseria questo “ tic tac” ma un certo tempo
limitato fa così.
Se facesse “tic toc” o “toc tic” si potrebbe
pure discutere, si potrebbe ricorrere pure al TAR, magari alla Cassazione:
“ perché gli orologi da polso non fanno tutti lo stesso
identico rumore?” E’ la disuguaglianza o la relatività
del tempo che ci condanna?” Fanculo , il tempo è proprio
una
stronzata. Quello per questo scritto di letteratura, di più!
Dieci minuti .
Per scrivere qualcosa di Joyce.
Ulisse s’immedesima e comincia a stracciare tutti gli appunti
arrotolati
che riguardano Svevo e la sua coscienza del piffero, la sua voglia
di smettere di fumare, come se fosse un modo per cambiare la sua
condizione di perturbato, incappato in un matrimonio di necessità.
Avevano detto che di tema usciva questo.
- “Sta sicuro che esce Svevo”.
- “ Sì, Svevo” … venti sigarette al giorno
per trent’anni. E ogni giorno provi
a pensare che sia l’ ultima, l’ultimo. Ti vedi, t’immagini
certi inguacchi
nei polmoni; eppure, dopo, solo la mattina dopo, dopo il caffè,
quella tua bocca ti cerca qualcosa - tu dici, tu lo dici - come
il ciuccetto da bambino; una ricerca d’affetto , una mancanza
d’affetto . E’ la vita adesso che ti manca d’affetto.
Pure se , lo devi riconoscere, qualcosa t’ha dato. Cavolo
se te l’ha dato.
E Ulisse si mette a pensare a Maria che l’aspetta di fuori,
ancora più minuta di sempre, anche più minuta di Giacomino,
quasi una miniatura
di persona, contrita e quasi pregante in quella sua assurda devozione
abnegata per il suo professore decano dei precari. E quello sproposito
di
Luigino, nato solo nove mesi e tre giorni dopo il matrimonio, –
mo’ fanno sei anni – che le ronfa in petto scotendo
tutto il suo cespuglio di riccioli castani. Anche lui ad aspettare
fuori.
Otto minuti.
Otto minuti, quel che rimane per contendere al foglio rigorosamente
protocollo gli spazi dell’ultima facciata, quelli essenziali
e decisivi, rimasti
ancora vuoti e da conquistare penna in pugno, con un assalto finale
alla baionetta, alla ricerca d’un senso che possa compiacere
la Commissione ed allungare le speranze che questa sia la volta
buona.
Caro il mio buon signor Bloom, che giornata memorabile quelle diciotto
ore
del 16 giugno del millenovecentoequattro, eh?!
Ti sei impicciato in più cose tu in quella giornata che io
in tutta la mia vita.
Che degustazione magistrale ne hai fatto della vita, della sua sorprendente
, irrinunciabile monotonia. Ecco, il godimento della monotonia,
le cose già vissute uguali per tutti ma mai ripensate, mai
finite di collaudare del tutto.
La monotonia che può spingere a riprovare le ali di Icaro.
Come se non ci fosse un tempo per salpare ed un tempo per approdare.
Ulisse, senza quasi accorgersene, s’era scaraventato sul foglio
con la foga dei quattro minuti restanti, dimenticandosi però
via via del tempo e dello spazio. Soggetto solo all’estro
del suo quotidiano, misurato , finalmente, con la misura del quotidiano
del signor Bloom.
E scrisse, scrisse.
Non si può dire quanto scrisse in quei due minuti restanti.
Come se in quei due minuti restanti si fosse accorto di colpo che
sarebbe potuto restare per una vita a scrivere della sua vita e
di quella del signor Bloom.
Tanto che un ora dopo, forzuti bidelli dovettero trascinarlo fuori
dal banco con lui col foglio in mano e con la penna che ancora provava
a scrivere di Giacomino, di Maria e di Luigino. E , forse, anche
qualcosa di Joyce.
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ANGELINA
Gesualdo era rimasto un attimo perplesso quando il sacerdote paffuto
gli aveva messo nella bocca
il pane di Dio.
Stava in ginocchio di faccia all’altare e non se ne voleva
andare più.
Era come se quel pane volesse assaporarlo di più.
Il sacerdote di fronte s’era spazientito un poco.
Ma lui è come se gli dicesse: “aspetta mo’ che
ti dico cosa sto provando”
E si rigirava l’ostia santa nella bocca e la stava facendo
sciogliere tra lingua e palato.
Erano decine d’anni che non si comunicava. Probabilmente non
lo avrebbe fatto ora e non lo avrebbe fatto mai più. Se non
era che gli era morta una figlia di diciotto anni solo tre mesi
prima.
Tre mesi prima. Tanto ce n’era voluto per chiedere un qualche
aiuto ad uno grosso assai.
Così succede. E quando succede così, può capitare
di tutto. Pure che t’aggrappi alle premure
d’un Dio che ti promette d’accudire al meglio quella
tua figlia nell’Aldilà.
- Ma tu ci credi in Dio – gli aveva sparato in faccia di brutto
il prete nel confessionale solo mezz’ora prima.
Gesualdo non voleva barare, ma per sua figlia non voleva lasciare
nulla d’intentato.
- Sì, ci credo – aveva risposto.
Adesso quella dietro a lui, faccia all’altare , una donna
in fazzoletto nero, gli stava toccando con la mano la spalla sinistra,
leggermente. E dolce dolce gli stava dicendo in un orecchio:
- Dai, alzati, per favore, e lasciami il posto. Che c’ho una
figlia pure io, anche lei è morta da poco.
Gesualdo era tornato a casa con quel tocco sulla spalla e con quella
voce nell’orecchio destro.
Solo nel destro, gli pareva.
E la settimana dopo l’aveva passata così e così.
Niente di speciale.Ma con la stessa giacchetta della toccata e con
quella vocetta nell’orecchio.
Era andato pure al cimitero a mettere i fiori ad Angelina. La moglie,
da quando era successa la disgrazia, l’aveva pregato più
di una volta: “andiamoci insieme”. Lui un paio di volte,
all’inizio, c’era andato insieme a lei. Ma poi non sopportava
quelle troppe grida e quelle troppe lacrime di lei. Quel suo dovere,
alla fine, pensare a lei e non ad Angelina. Perciò, le volte
successive, aveva sempre trovato una scusa per mandarla da sola.
Ed andarci da solo al cimitero.
E’ che a lui piaceva stare zitto a guardarla quella fotografia
di Angelina. Ogni volta pensava la stessa cosa. Che quella non era
la fotografia migliore, anzi, che ce n’erano sicuramente di
migliori.
E che poi, in fondo, Angelina era molto meglio da viva, perché
in fotografia assumeva sempre quel fare da timida. ”Come il
suo papà”- pensava.
Ci stava lì dieci minuti o poco più, a guardarla fisso.
Poi, bastava un qualcosa, un rumore , un fruscio di gente che trascinava
la scala e poi la posizionava verticale per salire alle campate
superiori del caseggiato dei morti posti in alto, e lui si scuoteva.
E, dato che era uno che parlava poco, anche da solo, e non sapeva
stare mai con le mani in mano, cominciava quei dieci minuti di
pulizia alle lapidi ed ai portafiori di lei e di suoi vicini.
Matilde Corbello 1927- 1998, sopra, e Francesco Criscimanni 1924-
1993, sotto.
Cosa avrebbe voluto dire a loro, i vicini, in quel condominio, in
quel piccolo salotto di morte.
Gli sarebbe scappato di dire: pensateci voi che siete più
grandi di lei e siete vissuti più di lei .
Fate un po’ come foste i suoi mamma e papà, o magari
i suoi nonni.
Ma poi, dondolando la testa, per disapprovarsi, avrebbe quasi sorriso
d’una tale scemenza pensata.
Stava inginocchiato . Non sapeva neanche lui come ci fosse finito
in quella posizione: inginocchiato a riguardarsela per l’ultima
volta; quando sentì sulla spalla la stessa toccata della
Domenica prima.
Solo che questa volta gli parve subito più forte, più
insistente, fino a provocargli un vero dolore che, negli istanti
successivi, si andò propagando per tutto il petto.
Sorrise un'altra volta sebbene il dolore si stava facendo sempre
più intenso e lui aveva incominciato a sudare profusamente.
Si volse indietro appena di un tanto; quanto bastò per scorgere
un pizzo di fazzoletto nero.
E mentre s’accorse che stava scivolando lungo disteso, si
sentì preso da dietro da due braccia.
che lo sorreggevano da sotto le ascelle.
*****************
Non è sicuro da come racconta adesso, perché pare
ancora molto debole e molto confuso, ma dice di aver sentito quella
voce – gli pare, solo all’orecchio destro – che
gli aveva chiesto:
“Vuoi venire o vuoi restare?”
(Torna su)
MONOLOGHI E DIALOGHI WEBBIANI
Di amori e di virus
nel web.
I virus prima dell'era del Web vivevano di una vita tranquilla.
Facendo male o bene.
Mandando al creatore molti e qualcuno risparmiandolo. Qualche curioso
c'era pure allora che, spiaccicatolo sopra un vetrino, lo guardava
nelle sue parti più intime e s'accorgeva dalle mutandine
e se aveva il reggipetto o no, se era un virus maschio o femmina.
Naturalmente, se era scienziato maschio, indugiava di più
se lei era virus femmina e gli strizzava l'occhietto miope dietro
le lenti del microscopio. Poi gli dava un nome usando le reminiscenze
più altisonanti che aveva allora. Che pescavano inevitabilmente
nel greco e nel latino maccheronizzato per l'occasione. Con quel
tocco di romanticheria che pure dava senso al tempo ed alla sua
passione.
"Hemofilus influenzae " aveva una dolcezza dentro quelle
quattro sillabe che, a pronunciarle, la bocca dei medici si riempiva
di dulcore. Eppure era un virus che, a tenerlo allora, faceva sputare
sangue dalla bocca.
"Bacillus fragilis" poi era il classico eroe romantico.
Debole amante sino allo spasimo. E spasimo era quello che lo costringeva
ad andare di corpo sette volte sette al giorno, in tutti i luoghi
di fortuna cercando di capire, nel' trepidante mentre della premura,
perché chi aveva inventato i campi con le ortiche non aveva
ancora inventato il cesso padronale.
Come il "mal sottile" del melodramma. Tu muori in scena
e, se insisti, ti dicono che è morta per "tisi".
Ancora oggi, certe pazienti vecchie mi vengono allo studio e prima
di spogliarsi ficcano la testa sotto il lettino quando io gli chiedo
"cosa ha avuto da ragazza?" "Il mal sottile, dottore"
Io abbozzo e poi sbotto." la tisi vuole dire"?
Quante cazzo di Violette traviate ci sono ancora al mondo, dovete
credermi. Con la Tubercolosi ,cazzo, morta nelle statistiche epidemiologiche
ma mai scordata. Come fosse un offesa al benessere di adesso.
Di Alfredi di meno. Il loro primato l'avevano già realizzato
a fine ottocento col loro
"mal francioso" Dolce "Spirocheta pallida" che
sanciva la più romantica delle scopate sbagliate , ma effettuate
al chiaro di luna, in una atmosfera immaginata di lago alpestre
con gli alberi e le montagne ed il verso d'un lupo che aveva ululato
quella notte. E che tre settimane dopo ululava ancora. Ma di un
ululato diverso guardandosi il primo pensiero bruciante che gli
usciva dai pantaloni.
La spirocheta pallida gli aveva disegnato sulla capocchia una fantasia
di cerchietti
rossi. Ed era solo il primo atto. Del dramma e della malattia. Che
oggi sputa il nome di Sifilide.
Adesso la fisionomia del virus si sta perdendo. L'HIV ti sta dietro
? ti sta davanti?
Te lo portano le scimmie o te lo da in pegno tua moglie per farti
reinnamorare di lei in "punto mortis" dopo essersi abnegata
una vita a dirti che non valevi un cazzo?
La premura che riavvicina le mogli e allontana le amanti.Quanto
può quel virus. Roba da non crederci.
Meno male che ci sono i virus da computer. E i loro quotidiani
scopritori che vivono l'esistenza globale con la loro memoria depositata
in un hard disk, mica nel cervello.
Sono gli stessi che vedono morirsi di "MKucca Pazzxa , (scritto
così non per semplice errore di battitura, ma perchè
proprio la
malattia , non so, prende un poco la tastiera ed un poco le dita)
e che si fanno il loro Chek up mentale come un Back up di salvataggio
scaricandosi l'antivirus più aggiornato dalla galassia del
Web. Come un vaccino.
E' un fenomeno che sto sperimentando. La paura della morte telematica.
Il dire: tu non esisti più perchè sei stato cancellato
dalla rete. Ogni tuo passo,
ogni tua orma è stata cancellata. Torna, se puoi, ad avere
una storia fuori.
" Sì ... sì ... dico : " FUUOOOORIIII !!!!
" Fuori nel senso di vita vera? Quella vissuta con papà
e mamma e fidanzata e moglie e figlia e amici e condomini e cani
e gatti e tutto il resto? E tutti veri , carnalmente veri? Ma no...
ma chi ce la fa più. E chi se le ricorda più quelle
sensazioni di faccia a faccia.
Cazzo, allora è meglio morire di virus romantici che fottono
i computers ed i loro legali possessori.
Come "Melissa" od " I love you"
Con quelli sì che ci piange il cuore e ci si ribella l'anima
digitante, a scomparire.
E' come scomparire in un attimo con ancora il sapore in bocca della
corrente elettica.
Non quella sulla sedia elettrica che t'hanno dato. Ma quella sulla
sedia elettrica che t'hanno tolto.
E di colpo, e dopo aver partecipato da primattore alla storia d'amore
più sensuale, massì, più erotica che ci sia
finita così,
rispondendo a kappakappa-fi-fi-desiderio @/ tuttoquellochevuoi/
punto/universo/punto.it con un:
"E' stato bello, molto bello. Ma io sono sposato con figli.
Ho un lavoro avviato che non posso abbandonare
E tu sei lontana, troppo lontana per continuare a sentirci. Non
ci vedremo mai. (badate bene, dice "mai", non "mai
più")
Addio, hai versato in me tutto il tuo universo ed io, per quanto
ho potuto, l'ho bevuto (bevuto cosa? ,se è lecito chiedere)
Ho cercato di penetrarti nell'intimo, nell'impossibile, nel proibito.
(ah sì? E come? con un tridimensionale scaricabile? )
Ma tutto, la realtà soprattutto, ma poi le circostanze...
tutto ci impediscono...
E' il momento di lasciarci.
Per non dimenticarci più ti lascio questo Download. Non è
carino, è bellissimo!!! Il mio amore per te lo porterà
a spasso
per l'Universo quel gattino blù"
Commovente, vero.
Eppure questa "storia" durava ormai da solo duecentomilioniseicentonovantasette
byte.
Capelli
Io invece a 33 anni ho capito che non c'era più niente da
fare.
La moria di capelli sulla mia cervice e sulla fronte assumeva ormai
la
portata d'una epidemia pestilenziale. L'ecatombe documentata nel
fondo del
lavandino ad ogni schampo era l'inconfutabile fallimento di ogni
cura,
anche eroica, di ogni piano annuale di preservazione del mio partimonio
capillifero. Paurosamente lo stempiamento iniziato anni prima, aveva
cominciato a progredire fino a congiungersi col diradamento dell'occipite
che , in alcuni punti, mostrava già zone glabre e lucide.
Passavo decine di minuti tragici davanti al controspecchio figurandomi
una fine atrocemente calva. O già tiepidamente consolandomi,
verificavo
le possibilità reali di effettuare la mistificante ed estrema
operazione dei
calvi non rassegnati: il riporto.
Ogni tanto, prendendoli tra pollice ed indice, parlavo coi miei
morti e,
guardandoli intensamente, chiedevo loro:
- "Perchè? Cosa vi è mancato? Dove ho sbagliato?"
Intanto consultavo colleghi dermatologi quasi quotidianamente aspettandomi
che mi allungassero la prognosi.
- Quanti mesi?
- Ma quali mesi,... anni.
- Quanti anni?
- Oh , senti ... in fin dei conti c'è....
- Dillo.. dai... c'è il.....
- Il trapianto.
Eccolo là. Il guado da attraversare. Il fosso da saltare.
La coscienza
estrema della tua vanità. Ed il tuo bell'aspetto giovanile
... la tua stessa
giovinezza che se ne stà andando.?.. Tu che non sopporti
di cambiare
te stesso... che gli altri ti cambino.... un manufattore di capelli
poi...
ma anche... come dicono, che ti spostino i tuoi ... da quà
a là..., no..
senza lasciar fare alla natura ... al destino.... alla mia dignità...
ai
miei principi
inamovibili.
Nella sottile angoscia del dubbio esistenziale m'ero scoperto a
non guardare
più , per strada e dovunque mi recassi, le donne, le belle
donne. No,
m'interessavano gli uomini calvi. E cercavo di cogliere nel loro
viso e nel loro fare e muoversi un sottile senso di imbarazzo, di
menomazione, di inefficienza. Oppure, quando capivo che portavano
bene la loro calvizie, li vedevo floridi, efficaci, come se la menomazione
li avesse temprati ad essere più forti e più veri
e più seri e più
indispensabili.
Insomma più uomini essenziali, senza il bisogno la mattina,
alzandosi,
di dover aggiustare in un qualsiasi modo quel superfluo che erano
i capelli.
Finii per vederli quasi tutti, indistintamente, belli.
E per qualche mese assiduamente frequentai qualcuno di loro, mio
coetaneo.
Con discrezione, tra i vari discorsi, arrivavo sempre a chiedere
loro come avessero vissuto quella condizione acquisita.
Uno di loro lo ricordo perfettamente come fosse ora . Alla mia domanda
mi guardò prima negli occhi e poi in testa. E non mi rispose
nulla.
La sua bocca, già gioviale, si atteggiò ad un sorriso
di complice ironia,
a cui non potetti che rispondere con un sorriso d'altrettanta ironia,
ma
dolce amara e rivolta tutta a me stesso. Avevo capito una gran cosa.
Il cadimento dei capelli non si è mai arrestato da allora,
ma non è stato
poi così tragico e repentino come temevo.
M'ha lasciato il tempo per farmene una ragione. Ed ha lasciato il
tempo al
mio specchio perchè imparasse a mentirmi docilmente, giorno
per giorno, un
poco alla volta, riarmonizzando quei pochi capelli al mio volto
di ora.
Il mio lavandino non inorridisce più per quei miei sguardi
persi nel vuoto
e i miei colloqui coi defunti, se ce ne sono ancora, sono di pura
tenerezza,
abbandoni tristi ma necessari.
All' idea del trapianto ho dato un calcio definitivo dopo la nascita
di mia
figlia che è nata con una esuberanza di capelli neri come
il papà, ma che
poi mi ha fregato imbiondendosi naturalmente, sputando fuori tutti
i geni
della madre.
Quindi posso dire di aver ritrovato la pace dell'accettazione, almeno
quella
fisica.
Eppure, di notte , nei sogni, mi sogno sempre con la capigliatura
dei
vent'anni, anche adesso, sulla mia faccia di ora che data quarant'anni
e
passa.
PS. E, si badi bene, per strada sono tornato a guardare indefessamente
le
donne, scambiandoci sguardi senza complessi di sorta, tanto senza
complessi
che sfidano il fiancheggiare invadente delle occhiatacce di mia
moglie.
Cara Carla, vorrei dirti : tutte le donne, con o senza tette. Ma
sarebbe
una bugia pietosa. Diciamo che di fronte, dopo quelle, mi colpiscono
gli
occhi, e ... di dietro.... se la moglie lo consente....
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Macchia
su macchia
Adolescenza di fine anni sessanta. Feste da ballo in casa
di amici (più raro amiche). Occasione più unica che
rara per iniziare o concludere un acchiappo timido tramato da mesi
con puntate di sguardo a scuola o lungo lo struscio del Corso. Feste
organizzate ed aspettate da mesi, generalmente domenicali, con genitori
scongiurati ad andarsene fuori o di chiudersi in cucina per tre
ore almeno a vedere la TV e non rompere il cazzo (ma la cosa si
pensava così come ora, ma non si diceva proprio così
come ora).
Sedie ai tre lati del soggiornino dignitosino che faceva tanto piccola
borghesia post boom economico, con, d'estate, sfogo sul terrazzo.
Quindici metriquadrati complessivi a farlo grosso. Essere invitati,
i maschi, era come ottenere un posto al sole, era vincere una lotteria.
Di solito si invitavano dieci donne e cinque maschi e ci si ritrovava
puntualmente con quattro donne e dieci maschi di cui cinque fottutamente
imbracatisi all'ultimo momento, con il padrone di casa e gli invitati
ufficiali a fare buon viso a cattivo sentimento. Addossato alla
quarta ed ultima parete della stanza, un tavolo, e sul tavolo lui,
il giradischi. E sul giradischi lui il divin vinile, nero,
rigorosamente microsolco, a quarantacinque giri. C'era da sentirlo,
stridere e gracchiare sotto la puntina spuntata: che musica celestiale
ne fa il ricordo. Allora andava a grido la consolidata canzonetta
all'italiana con il "ballo del mattone" di Rita Pavone
ed il
" non so degno di te" di Morandi. Il gusto di trasgressione
si incarnava nella preistoria dei gruppi bit di casa nostra: furoreggiavano
l' Equipe 84 , I Giganti , I Profeti, i Camaleonti i Dik Dik e quant'altro
di curiosi nomi ci si poteva inventare allora. Arrivavano come pregiate
primizie da oltre Manica le prime canzoni dei Beatles.La musica
era importante sì, ma come pretesto. In fondo, allupati come
si era, si sarebbe provato a ballare stretti stretti anche un minuetto.
Ma c'era da rispettare un rigoroso palinsesto, nel senso che c'erano
pezzi "lenti " dedicati al ballo avvinghiato e semipomiciante.
Quello di quando s'abbassavano le luci e tu nella penombra incominciavi
la manovra di accerchiamento.
Quella sera, Io semifidanzato con Teresa( nel senso che non ti aveva
detto ancora sì ma neppure no, ed anzi, ti aveva fatto dire,
attraverso una amica comune, un'incoraggiante "forse")
.
- Balli?
- Sì.
Nella stanza semibuia andava in onda l'ultima mezzaciofeca languidosa
di Fred Buongusto: era l'ideale.Teresa, con una minigonna
a mezza coscia e con un profumo al collo e sottoascellare di pura
essenza feromonica, mi avvicina la guancia. Io, maledettamente confuso
ed istintivo le avvicino il bacino. Lei piega la testa sulla spalla.
Io con le mani scese sui suoi glutei me l'attraggo dal basso
mentre il mio muso sale e scende a sfioro dalle labbra al petto.
Quel coglione di Fred continua a dire "doce doce" E come
dargli torto. Il fatto è che sotto, irreversibile e prepotente,
è iniziato il processo di esubero. Quanto può durare
una canzone? tre minuti?
Ebbene, a mezza canzone era già all'alzabandiera; non dissimulabile
più, non più sistemabile neppure di lato, esercitava
imperterrito
una pressione frontale, da sfondamento. Teresa inizia ad agitarsi
, cerca altre posizioni, si guarda intorno, prova a divincolarsi,
cerca di allontanarmi con la scusa di ravviarsi i capelli. Io mi
stacco, ma è troppo tardi. All'imbarazzo segue una languidezza
dolcissima
annunciata da un fiotto di saliva in bocca e seguita in basso da
un efflusso caldo lungo...
La canzone finisce come se l'avessero accorciata. Si riaccendono
le luci. Teresa, paonazza in volto, è gia scappata dalle
sue amiche. Io resto come un ebete al centro della stanza. Mi guardo
sotto: una patacca enorme sul pantalone.
Genialità, freddezza o disperazione? In un attimo sono vicino
al tavolo, frenetico prendo una bottiglia di aranciata, la verso
nel bicchiere, lo faccio colmo, mi guardo furtivo intorno. Dietro
di me c'è Faustino. Benissimo. Mi giro di scatto, gli sbatto
contro con una violenza inaudita e ci versiamo tutto il bicchiere
addosso, ma soprattutto lì.
Macchia su macchia.
(Torna
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