I racconti di Marcello Vicchio
Seduzione

Se potessi farlo parlerei male giapponesi e mi incazzerei a morte, perché è soprattutto per colpa loro se adesso quasi più nessuno si ricorda di me. Gli anni '70 , quelli sì che erano bei tempi! Quante mani mi sfioravano allora. E mi toccavano, esploravano i miei fianchi, agili e sudate, accendevano bagliori nelle mie viscere, mi elettrizzavano, traevano vibrazioni da corde profonde. Qualcuno degli avventori, a volte, era perfino violento, possessivo. Mi scuoteva, picchiava duro, mi faceva soffrire e soffriva a sua volta quando io negavo ( sì, perché negavo anche! ) la giusta contropartita per il soldo pagato. Ma anche questo faceva parte del gioco, serviva per stuzzicare l'appetito e l'interesse. E quando la notte, finalmente, calava il sipario, la sacca piena di denaro mi confortava , perché avevo svolto bene il lavoro. Avevo dato e ricevuto un po' di felicità. Ora resta solo il sapore amaro dell'ossido di rame e della ruggine. Ora é tempo di microchips del Sol Levante, di Tomb Rider , di elettronica, di diafane automobiline senza cuore.
Nessuno si ricorda più di un buon vecchio flipper.


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La Lingua degli uccelli

Non riuscivo ancora spiegarmi perché mi trovassi a Trieste.
Sì, sapevo che la causa era stata una civetta, ma perché proprio quella città e non altre, e perché era toccato a me e non ad altri, erano interrogativi che non potevo togliermi dalla mente.
La civetta in questione non era un animale in carne e ossa, ma un piccolo oggetto di pietra che tenevo su un tavolino del salotto di casa mia.
Se ne stava appollaiata sopra un libro, gli artigli rossi a stringere le pagine e il corpo il bilico su di esso, come se fosse indecisa se spiccare il volo o riposarsi, per sempre condannata a quell’attimo di indecisione.
La civetta non aveva nulla che potesse attirare l’attenzione: non era di metallo prezioso, non era di fattura raffinata e di certo non aveva alcun valore artistico , storico o affettivo. Non aveva in realtà nulla di particolare se non una scritta incisa sul dorso del libro che, a prima vista, sembrava poco più che un graffio minuto, facilmente scambiabile per un difetto di levigatura della pietra.
Non mi ero mai accorto della frase finché un giorno, cincischiando con una lente di ingrandimento che usavo per il mio lavoro, il mio sguardo, ingrandito dal provvidenziale effetto ottico, non cadde proprio su quel punto dell’oggetto.
Non mi domandai, al momento, perché la lente si trovasse in salotto invece che nel laboratorio e perché la mia attenzione fosse stata attratta dalla civetta e non da mille altre cose; realizzai solo più tardi che probabilmente una mano invisibile aveva guidato i miei passi, conducendomi verso una meta sconosciuta.
A causa di quell’incisione la civetta era diventata un’ossessione per me.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a rammentare come fosse giunta a casa mia, se qualcuno me l’avesse regalata, e quando, o se l’avessi acquistata io stesso da qualche parte e me ne fossi dimenticato.
Stava lì da anni, nello stesso posto, come in attesa di qualche cosa.
La cosa più curiosa era il colore della pietra nella quale era stata scolpita: un grigio di volta in volta più scuro o più chiaro secondo i giorni, indipendentemente dall’intensità della luce solare e dall’illuminazione della stanza. A volte la pietra diventava tersa come un cristallo levigato, altre volte spessa e pesante come un pezzo di piombo, e tuttavia nessuna variazione della trasparenza della roccia alterava mai la fierezza regale del capo e l’orgoglioso distacco del volto.
Non avevo mai visto un’espressione simile in un uccello… e sì che dovevo essere un esperto in materia!
Di professione facevo l’imbalsamatore di uccelli e conoscevo le minime sfumature di ogni muscolo, tendine o piuma tanto numerosi erano gli esemplari che erano passati dalle mie mani. Eppure quella piccola statua sfuggiva a ogni classificazione del personalissimo schedario mentale che mi ero fatto studiando per anni le espressioni post mortem dei soggetti che trattavo. E sì che si trattava di un oggetto inanimato e sarebbe dovuto essere in realtà più semplice, perché l’artista in fondo copia anche quando pensa di creare e non può immaginare una cosa che non esista a priori in natura, men che meno nella riproduzione di un uccello.
La cosa che più mi affascinava del mio lavoro, era proprio la possibilità che mi era data della conservazione di una parvenza di vita anche laddove vita non doveva più esserci, ossia la capacità di preservare l’integrità di un corpo dal potere distruttivo della putrefazione.
A differenza dell’artista io ero un artigiano contro natura perché non creavo, non avevo immaginazione, non cercavo la bellezza delle forme. Riparavo e ritardavo soltanto i guasti prodotti da una legge troppo spietata: quella della dissoluzione implacabile delle cose nel tempo.
Nella loro contraffazione della realtà i pittori potevano dipingere un capolavoro e gli architetti elevare palazzi bellissimi, ma tutti trattavano materia inerte, immobile, fredda, mai riscaldata da alcun soffio vitale.
Io manipolavo cose che erano state accese dalla vita, che avevano generato, respirato…volato fino a qualche istante prima che giungessero a me e che forse conservavano ancora qualche piccola molecola della forza che li aveva nobilitati.
Mai una volta, però, avevo spento una vita. Io non uccidevo gli uccelli che imbalsamavo, lo facevano altri, fossero cacciatori, bracconieri o commercianti. Io serbavo, prolungavo, custodivo ciò che una volta era stato un bellissimo ricettacolo di un’anima, quel frammento di luce divina presente anche nella più piccola creatura vivente.
Ma si poteva impedire all’anima di abbandonare il corpo? E il trapasso era tutto in questo repentino abbandono dell’anima o si trattava di due cose diverse: da un lato un evento biologico e meccanico di un corpo chiamato morte, e dall’altro un fenomeno considerato impropriamente trascendentale e definito fine della vita solo perché non riconoscibile dai sensi comuni? I vivi avevano tutti un’anima e i morti no? E se l’anima era davvero la forza che infondeva la vita, c’era una possibilità di imprigionarla come mi era concesso imprigionare la carne?
Mi dicevo che avrei potuto capire di più se avessi avuto il coraggio di sopprimere un merlo, una gazza … o una civetta, ma sapevo che mai avrei stretto le mie mani sulle soffici piume del loro collo, o adoperato l’arsenico e altri veleni per uccidere. Io amavo troppo gli uccelli per fare loro del male. Mi piacevano i loro corpi affusolati e leggerissimi, le ali , le esili zampe artigliate, l’odore del piumaggio. Li consideravo quanto di più nobile e aggraziato la natura avesse prodotto in milioni di anni e invidiavo loro l’ebbrezza di cavalcare le correnti e guardare il mondo dal cielo.
Gli antichi saggi dicevano che gli uccelli parlavano il linguaggio dell’anima, forse perché lassù erano vicini a Dio, forse perché erano in realtà angeli. Avevo letto in una saga nordica che Sigfrido, dopo aver ucciso un drago, aveva subito compreso il linguaggio degli uccelli conquistando l’immortalità; avevo letto un passo illuminante del Corano che recitava “ullimna mantiqat-tayri”, o uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli; ricordavo che gli antichi indovini traevano auspici dal volo e dal canto degli uccelli, e tutto ciò non faceva altro che rafforzare il mio rispetto per queste magnifiche creature celesti.
Sul bordo del libro, sotto gli artigli della civetta, c’era scritta in realtà una frase che risaltava chiarissima ai miei occhi, o almeno credevo che lo fosse, e così mi ero ritrovato a Trieste.
Non ero mai stato in quella città e, nonostante questo, camminavo a passo veloce nelle sue strade dalla bellezza austera, semiimmerso in una leggera bruma opalescente, con la sensazione di essere del tutto invisibile alla gente attorno a me perché nessuno, mai una volta, aveva alzato gli occhi a guardarmi.
Soltanto un piccione, che mi ero ritrovato di colpo davanti ai piedi e che per poco non avevo calpestato, aveva piegato lateralmente il capo e mi aveva osservato col suo occhio giallo e rotondo, tubando sommessamente.
Poi si era spostato dalla mia strada giusto lo spazio necessario per permettermi di passare oltre, si era girato ed era andato via, zampettando goffamente.
Strinsi nella mano la civetta che avevo portato in tasca e la sentii ruvida e più calda del normale. Forse era stata scolpita in una roccia vulcanica e assorbiva calore da ogni fonte possibile, anche quella umana.
La piazza era…………… (Unita’ d’Italia)…..
Poi la vidi.
La civetta era lì, in tutto simile, tranne che nelle dimensioni, a quella che stringevo ancora in mano. Sebbene………………..avevo l’impressione che scrutasse un punto remoto, come se fosse del tutto indifferente alle cose terrene alle quali sembrava non appartenesse in alcun modo.
Sotto i suoi artigli, in quelle che sembravano macchie e minuscole fratture del basamento, lessi chiaramente la stessa frase che era scritta sulla mia civetta : Ti aspettiamo a Trieste.
Mi scossi solo quando un rumore attrasse la mia attenzione. Dapprima fu un tuono lontano, come quello di un temporale che scuriva l’orizzonte, poi andò aumentando progressivamente di intensità. Non l’udivano altri oltre me, perché la gente continuava a fluire intorno senza dare segno di essersene accorta.
E nessuno si era accorto che la civetta della fontana aveva assunto la trasparenza del cristallo e pulsava di luce come un faro su uno scoglio solitario.
Il rombo , ormai possente e come cadenzato dalla frequenza di un battere d’ali, creava vibrazioni percettibili nell’aria, mentre già sullo sfondo dell’orizzonte rossastro una linea luminosa stava sospesa al limite tra mare e cielo.
La stria scintillate brulicava di infiniti tremolii e fascicolazioni, di bagliori e lampi di luce dal colore cangiante, ora giallo, ora viola, ora verde.
Emergendo ordinatamente dalla scia all’orizzonte, uno sterminato stormo avanzava lento e solenne come un corteo nuziale regale, occupando via via ogni porzione di cielo.
Mentre la torma si faceva più vicina, potevo distinguere i contorni e le forme degli uccelli, vedere le loro dimensioni, seguire i movimenti delle remiganti di cristallo purissimo dalle quali scaturiva una musica dolcissima, come quella di mille arpe pizzicate da mani invisibili.
Mi guardai un’ultima volta intorno. Nessuno guardava il cielo e nessuno, tranne me, poteva vedere la meravigliosa moltitudine che scivolava sopra la città.
Splendidi, nobilissimi, imponenti, gli uccelli catturavano lo sguardo, la mente, il cuore. I raggi del sole attraversavano quei corpi diafani, che non offrivano alcuna resistenza, e si dilatavano in miriadi di arcobaleni sospesi nell’aria o riflessi nell’acqua, nei tetti, nelle strade.
Gli uccelli volavano leggeri, indifferenti a tutto ciò che scorreva sotto di loro; e io più li guardavo e più confondevo i particolari dell’un corpo nell’altro, sicché sembrava non ci fosse più alcuna distinzione fra colli, ali e zampe sottili.
Un mare luminoso ondeggiava sopra la mia testa, increspato da flutti e marosi traslucidi, profondo e illimitato. Non capivo più dove fosse l’alto o il basso e dove finisse il mare d’acqua e cominciasse quello di cristallo, tanto i due elementi erano compenetrati fra loro e l’uno rifletteva l’altro, in un mistico gioco di specchi.
Quello che mi era sembrato un rombo lontano, un vortice d’aria tra le piume, ora non era un ronzio confuso ma una lingua che capivo perfettamente. I suoni avevano un senso e una ragione, un ieri e un domani.
Quanti erano i vivi e i morti? I vivi avevano tutti un’anima e i morti no?
Reclinai la testa all’indietro e allargai le braccia quanto più potevo.
Aspettavano me.

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Qualcuno come Umberto

<<Ho passato quasi cinquant’anni in quella miniera a rosicchiare alla montagna ciò di cui era piena : il sale .>> Umberto saluta distrattamente con la mano un nuovo avventore e prosegue :<< Non avevo compiuto ancora diciotto anni quando sono stato assunto. Allora toccava a noi pivelli penetrare nei cunicoli laterali, staccare i pezzi di salgemma più grossi e trasportarli nelle gallerie principali.>> Si fruga nelle tasche della logora giacca di velluto marrone finché non estrae un portafogli di cuoio. Le dite nodose afferrano con delicatezza una fotografia sbiadita e me la mettono sotto il naso.
<< Eravamo così allora: vispi come grilli e affamati come lupi.>>
La fotografia, ingiallita in più punti, mi mostra un gruppo di giovanotti nudi con grossi sacchi di canapa sulle spalle assicurati, questi, in cintola e in fronte da lacci di cuoio. Sorridono quasi tutti, come se il peso che grava sulle loro schiene sia del tutto trascurabile. Hanno volti più vecchi dell’età anagrafica e corpi ossuti piuttosto che muscolosi. Qualcuno indossa rudimentali perizomi, altri scarponi malandati o fagotti di stracci ai piedi, quasi nessuno l’abbigliamento completo ; ma anche così il fotografo è riuscito a trasfondere nella stampa tutta la dignità che il lavoro duro conferisce. Intorno a loro un angusto anfratto, dentro il quale riescono a stento a stare in piedi, fatto soltanto di sale. Sembrano avvolti da una nuvola e non chiusi nelle viscere della terra.
Umberto trangugia un sorso di vino e schiocca le labbra. << Laggiù faceva un caldo dell’inferno e la pelle, a contatto col salgemma, diventava come quella dei rinoceronti.>>
Sorrido perché mi piace il paragone e gli do spago : << Ma lo hai mai visto un rinoceronte, tu ?>>
<< No, ma me lo immagino : così dev’essere. La gola era sempre piena di quel maledetto sale e, per quanti sforzi facessi, quel sapore non andava mai via. Lo sapete che all’epoca il paese aveva circa settemila abitanti e contava più di novanta cantine e rivendite di vino, dove noi minatori passavamo gran parte del tempo libero ? La nostra sete era sacrosanta, per Dio.>>
Mi appoggio sullo schienale della sedia e mi guardo attorno con ostentazione. << Sembra che ce ne metta di tempo per essere lavato via questo sale. Sono vent’anni che le Saline di Lungro sono state chiuse ma le incrostazioni alle fauci devono essere rimaste, a giudicare dalla quantità industriale di vino che ingurgitate qui dentro.>>
L’osteria è piena di avventori nonostante l’ora e piena di fumo di sigarette, ma l’atmosfera è anche carica di quell’intimo senso di allegria e liberazione che solo un posto come quello può offrire.
Umberto capisce che non ho intenzione di offenderlo ma replica serio : << Il vino è il latte dei vecchi e io ho parecchio bisogno di latte. Ma ditemi, cosa desiderate precisamente da me ?>>
Sorrido e, con una punta di amarezza, rispondo :<< Voglio visitare uno di quei cunicoli.>>
Il vecchio minatore non ce la fa a trattenere una risata, spruzzando goccioline di vino e saliva dalla dentiera. Se ne accorge e si tappa la bocca con una mano. << Scusatemi, ma forse non vi rendete bene conto della situazione. Come sapete la Salina è stata chiusa vent’anni fa e non è rimasto più nulla. Gli edifici amministrativi sono stati abbandonati al loro destino e sopravvivono ormai solo muri decrepiti, perché i mattoni non li hanno potuti rubare come hanno fatto con le finestre, le porte, le tegole e perfino le mattonelle dei pavimenti. >> Sospira. << Una triste fine. Mi piange il cuore pensare allo stato di abbandono in cui versa. Gli ingressi alle gallerie sono stati murati e le gallerie stesse saranno piene d’acqua adesso o, peggio, piene di rifiuti industriali. La miniera ha sfamato intere generazioni per secoli : ha dato pane, lavoro, benessere, solidarietà a tutti gli abitanti della zona. Sapete che già ai primi del ‘900 qui è stata inventata una specie di mutua fra i minatori ? Tutti si tassavano un tanto al mese per aiutare i colleghi che, per motivi di malattia, temporaneamente non potevano svolgere il lavoro. La miniera è stata testimone di infiniti piccoli eventi quotidiani ma anche di grandi tragedie.>> Rimette con cura la fotografia dentro il portafogli e mormora :<< E adesso ? Tutto finito, tutto dimenticato. Una parte di tutti quanti noi è rimasta sepolta dentro la montagna.>>
Fa un gesto con la mano per chiudere il discorso. << Quello che mi chiedete è impossibile.>>
<< Eppure un sistema per entrare ci deve essere. Io ho un mio motivo per farlo, tu ne hai un milione.>>
<< Paghereste un milione solo per entrare là dentro ?>> Vedo che è interessato e ciò non fa che confermare quello che già dentro di me sapevo. Umberto mi farà guida, anche se adesso nicchia facendo l’indeciso. Vuota d’un fiato il bicchiere e lo appoggia rumorosamente sul tavolo.
<< Vi farò sapere>> conclude.
***
La notte è illuminata da una splendida luna piena. Mentre Umberto si accanisce con antico vigore contro il muro di mattoni eretto a chiudere uno degli ingressi della miniera, lo osservo con un rispetto. E’ ancora forte per la sua età e sembra che il contatto col piccone gli trasfonda nuove energie. Mio malgrado lo rivedo giovane come nella foto a menare fendenti contro la roccia ribelle e piegarla al suo volere. Suda ma non sembra particolarmente stanco.
<< Alzammo in tutta fretta questo muro all’epoca, me lo ricordo bene. Abbiamo usato pochissimo cemento perché non vedevamo l’ora di finire e non c’era nessuno a controllarci. Forse qualcuno di noi allora sperava che non si trattasse di un addio definitivo, forse ognuno sapeva di lasciare un po’ della propria vita là dentro e non aveva il coraggio di chiudere per sempre il capitolo.>>
Comprendo benissimo i suoi sentimenti, quali dovevano essere allora e quali sono ora, e provo un po’ di vergogna per me stesso. E se non ho interpretato bene la situazione ? E se mi sono sbagliato ? Faccio bene a costringerlo ad abbattere questa parete ? Ripeto a me stesso che lui fa il suo lavoro e io il mio, ma mi riesce difficile soffocare un senso di pietà che non dovrebbe fare parte di me. Ma ormai ci siamo spinti troppo lontano per tornare indietro e tornare indietro non sarebbe comunque possibile.
Umberto riprende a picchiare forte contro i mattoni con ritmo regolare, scandendo il tempo secondo un suo particolare orologio interno. Anch’io ho un tempo da scandire, ma viaggia a velocità diversa dal suo. Lui sembra quasi impaziente di terminare il lavoro ; io no, se fosse possibile aspetterei di più.
Infine la parete crolla lasciando un varco sufficiente ad attraversarla. Lui si asciuga la fronte col dorso della mano ( quante volte ha fatto quel gesto meccanico in passato !) e sbuffa :<< Uffà, non ricordavo che un piccone fosse così pesante. Gli anni passano, giovanotto, e ve ne accorgerete quando sarà già troppo tardi.>>
Sorrido e annuisco. << Se è per questo è da un pezzo che me ne sono accorto.>>
Umberto punta la pila sul mio volto e la tiene per qualche secondo. Immagino che mi stia scrutando con attenzione dietro la luce che abbaglia i miei occhi. Sento il suo respiro grosso arrestarsi per un attimo. << Non so. Ho la sensazione che il vostro viso non mi sia del tutto sconosciuto. E’ come, non so spiegarmi... familiare. Come se in voi vedessi altre persone. Capite cosa voglio dire ?>>
Non noto preoccupazione nella sua voce né paura , suppongo che si senta in pace con la propria coscienza e quindi non ha motivo di temermi. Oltretutto non è mia intenzione scatenargli la paura anche se potrei farlo, sono un maestro nel genere. Molto meglio per tutti e due se non ha paura di me.
<< Molti hanno questa sensazione quando mi incontrano >>, lo rassicuro. << Il mio è un viso assolutamente comune, di quelli che si ha sempre l’impressione di aver incontrato da qualche parte.>>
<< Beh >> risponde lui, e illumina il foro. << Vogliamo entrare ?>>
Mi precede con passo sicuro dentro la galleria. Si muove ancora con disinvoltura, come se non avesse mai smesso di andare su e giù per quelle scale viscide. Dentro l’aria è satura di odori indefinibili e sembra avere uno spessore e una consistenza palpabili tanto è piena di umidità. La luce della torcia elettrica la trasforma in una nebbia lattiginosa che ci avviluppa e ci inghiotte.
<< Cosa volete vedere di preciso ? La scala scende per una settantina di metri dopodiché cominciano le diramazioni per le varie gallerie.>> Indica con la pila un punto lontano. << Di là un tempo c’erano i montacarichi ma si sono portati via anche quelli.>> E’ emozionato . Sono anni che non mette piede in questo posto dove ha trascorso gran parte della sua vita e non credeva di doverlo rifare.
<< Andiamo giù >> lo invito. << Poi ti spiego.>>
Mi suggerisce di appoggiarmi al corrimano e scendiamo. Giungiamo in un’ampia sala semicircolare trasudante umidità da ogni centimetro di parete. Qua e là sui muri vi sono chiazze di muschio grigiastro, funghi, muffe. Per terra qualche sacco di canapa abbandonato e quasi completamente marcito offre riparo a una miriade di insetti spaventati dalla luce. Rotaie incrostate di ruggine si perdono dentro i cunicoli che assomigliano a voraci bocche spalancate.
Umberto ha un umanissimo momento di ripensamento. << Non pensavo che la mia miniera potesse farmi questo effetto : mi fa venire i brividi. Credo che anche voi ne abbiate abbastanza, torniamo indietro ?>>
<< Voglio entrare in quella galleria, voglio vedere il salgemma >> gli rispondo in tono tranquillo. So che non può rifiutare, ma non c’è nulla di male se aggiungo : << E quel milione raddoppia.>>
Allarga le braccia. << Sta bene, andiamo. Speriamo che i tunnel non siano stati invasi dall’acqua.>>
Si avvia nella direzione che gli ho indicato con passo reso più pesante dalla carenza di ossigeno e imbocca la galleria con decisione. Ora le pareti attorno a noi non sono più scure e amorfe. Il sale riflette un chiarore diffuso e i cristalli colpiti in pieno dai raggi di luce scintillano come migliaia di lucciole. Umberto non sembra accorgersene. D’un tratto è ritornato il giovane minatore che percorreva in fretta quel tratto di strada che lo divideva dal lavoro senza avere il tempo per badare ad altro, meno che mai alla poesia dei cristalli. Il tempo ! Quanto può essere breve o lungo un attimo ! Lo rivedo con la pelle da rinoceronte coperta di piaghe, le labbra screpolate e le strie di sangue dove i legacci del sacco affondano nella pelle. Non si è reso ancora conto della situazione, ma anche questa è opera mia perché non è ancora giunto il momento.
Arriviamo a un punto di snodo, dove la galleria si dirama in tanti altri svincoli laterali.
<< Non è affar mio >> mi domanda << ma si può sapere cosa cercate qui dentro ? Non avete visto abbastanza ?>>
<< No, non ancora. Io ho già trovato quello che cerco e ho già visto quasi tutto. Ci resta soltanto da visitare quel cunicolo laggiù.>>
Umberto alza un sopracciglio. << Quello ?>> Si tocca la tasca della giacca e fa per aggiungere qualcosa. E’ titubante, ma gli basta guardarmi per tranquillizzarsi. << Sapete una cosa ? Anch’io voglio visitarlo.>>
Si avvia senza esitazione e ora quasi fatico a tenergli dietro. Cammina senza voltarsi indietro perché sa che gli sono alle costole, che non potrei più allontanarmi da lui.
<< E’ accaduto qui >> sussurra. << Proprio in questo punto la volta è crollata e li ha seppelliti tutti quanti. Io mi sono salvato perché ero tornato indietro a prendere dell’acqua. Li hanno tirati fuori dopo un paio di settimane : il sale aveva conservato i loro corpi e li aveva trasformati in una specie di mummie. E’ questo che volevate vedere, no ?>>
Trae dalla tasca la fotografia che mi ha mostrato nella bettola. << Mi sembra ieri. Antonio, Riccardo e gli altri , eravamo come fratelli. Li ricordo bene tutti quanti, uno per uno : bravi ragazzi, così giovani. >>
I suoi occhi mi fissano senza astio, senza timore ; poi cominciano a perdere di vitalità. Ormai ha capito.
<< Grazie per avermi portato qui, grazie per avermi concesso questo onore.>>
Respira a fatica, adesso.
<< Li vedo, sapete ? Li sento anche. Sono tutti qui intorno a me, li vedo sovrapporsi uno dopo l’altro sul vostro viso, signore. Mi era familiare, lo sentivo.>>
Ormai è supino per terra, semi immerso in una pozza d’acqua salata.
<< Grazie ancora >> mi sussurra. << Qui ! Qui ! Non in un letto di ospizio o di ospedale.>>
Mentre lo prendo con me, contento per gli attimi di gioia e di pace che gli ho donato, penso a quanto è complesso l’animo umano. Tutti hanno paura di me, mi evitano, mi sfuggono eppure mi costringono ad agire . E’ consolante sapere che ogni tanto c’è qualcuno come Umberto che capisce e mi ringrazia.

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La chiesa

La piccola porta si aprì, cigolando rumorosamente su cardini che avevano urgente bisogno di essere oliati.. Era in parte consunta dall’umidità, il legno aveva un sentore di marcio e gli antichi chiodi di rinforzo che ne contornavano i bordi erano corrosi dalla ruggine. La porticina, ricavata nel portale della cattedrale, era modesta come erano modesti coloro che l’utilizzavano.
La cattedrale aveva certamente conosciuto tempi migliori: nobili e re ne avevano varcato il portale con ali di cortigiani al fianco, in pompa magna; vescovi e cardinali vi avevano celebrato funzioni solenni e memorabili; antichi cavalieri al servizio di Cristo vi avevano cercato conforto e nuove energie per le loro imprese, mentre le dame, nei loggioni superiori, li occhieggiavano ardenti.
Io ero solo quando varcai quella porta e degli splendori antichi non vi era più alcuna traccia. Il tempo aveva consumato tutto: le vite si erano spente come le candele che avevano annerito i muri nel corso dei secoli, i drappeggi preziosi e gli ori erano stati trafugati più volte, le decorazioni e i legni più volte bruciati e ricostruiti.
Il tempo aveva consumato tutto, tranne la pietra, risparmiando così il genio dell’architetto che aveva progettato la cattedrale e il lavoro di intere generazioni di scalpellini e carpentieri che si erano avvicendati nella costruzione.
Tutto era svanito tranne il messaggio e il mistero che la chiesa racchiudeva in sé.
Con la mano appoggiata sulla porta, ormai del tutto spalancata, mi fermai ancora un istante a respirare profondamente, come colui che è in procinto di immergersi nell’acqua.
Dentro non vi era nessuno.
Lo scalpiccio dei miei passi echeggiava sugli archi e sulle volte aggraziate e snelle, rimbalzava sui fianchi nudi delle colonne di pietra, scindendosi in mille sussurri, e dava il tempo al mio cauto procedere verso il centro.
“ La pietra è la materia più vicina a Dio, perché è stata creata prima di ogni altra cosa, prima degli animali, delle piante, degli uomini. La pietra, con le sue asperità, con la sua durezza, con la sua vita eterna e con il lavoro che è necessario prodigare per levigarla, è la materia più prossima al Creatore. La pietra ha vibrazioni particolari, ha risonanze che si accordano con la nostra eco, è sostanza e forma in sé: sta all’uomo scoprire ciò che contiene in potenza e di cui può farci dono”, così pensavo mentre, nella penombra, cercavo di individuare un punto preciso nelle parete settentrionale. Intanto, ruotando gli occhi, mi accorsi che i miei passi mi avevano condotto sopra un labirinto che l’ignoto architetto aveva voluto nel pavimento dell’ingresso. Era in marmo nero, bianco e rosso e si snodava secondo una schema circolare, fatto di numerosissime linee e curve fittamente intrecciate, che sembravano tutte prendere vita e diramarsi da un unico punto centrale. Vi era di certo un significato in quei colori, un significato che non conoscevo. Intuivo, invece, l’essenza di quel labirinto: molte sono le strade che possono intrecciarsi nella vita dell’uomo, e che possono trascinarlo e perderlo; ma una sola è quella giusta da seguire, quella che conduce a Dio.
Non sapevo dove mi avrebbero condotto le strade che stavo percorrendo. Non sapevo se mi avrebbero condotto a qualcosa, non sapevo bene neppure perché mi trovassi là in quel momento, se per curiosità, superstizione o altro.
Alzai gli occhi e vidi l’altare a oriente: era spoglio come tutta la cattedrale, tranne che per un drappo che lo rivestiva in parte, ed era sormontato da un grande crocifisso di legno. Il Gesù che vi era dipinto sembrava un’ombra che si confondeva col legno, tanto erano sbiaditi i colori. Aveva braccia abnormemente lunghe rispetto al corpo, la bocca aperta in una smorfia di dolore, il corpo rinsecchito, quasi evanescente.
Mentre camminavo verso la parete nord, ripensai ancora una volta agli avvenimenti del giorno prima.
Mi ero imbattuto nel piccolo negozio di libri mentre mi aggiravo per la città in cerca di un cinema. Ero giunto in città il pomeriggio perché l’indomani avevo un importante appuntamento di affari e, per trascorrere qualche ora, non avevo pensato di meglio che guardare un film. La vetrina diffondeva una luce calda e invitante e io non so resistere alla tentazione delle librerie. Mi piace l’odore dei libri, mi piace vederli riposti ordinatamente negli scaffali, mi piace sfogliarli immaginandone i contenuti, gustarli, leggerli e rileggerli.
Immagino di amare i libri perché non hanno mai fatto male a nessuno, anzi , il contrario. I libri educano alla vita, i libri danno sapore alla vita, i libri istruiscono alla vita, mentre io ero un venditore di morte. Armi, munizioni, gas tossici, mine antiuomo. Il contrabbando gonfiava le mie tasche di soldi, tanti più di quelli che avrei potuto spendere in una vita intera, e il giorno successivo in una banca panamense il gruzzolo sarebbe diventato ancora più pesante.
Non so perché presi in mano un libro che trattava di cattedrali e luoghi sacri; ed ero così intento a osservare le fotografie di cui era corredato, che non mi ero accorto di avere qualcuno accanto a me.
- E’ un libro molto illuminante – disse una voce.
Mi girai. Era un uomo sulla cinquantina, baffuto, occhiali rotondi e un’espressione di aperta cordialità.
- Confesso di non aver mai letto nulla sull’argomento – risposi cauto. Diffidavo sempre degli sconosciuti, soprattutto di quelli che mi avvicinavano e attaccavano discorso.
- Ve ne sono molti altri su questo genere , ma questo è il migliore – proseguì. - Sapete perché? Perché svela che le cattedrali, le chiese, i cosiddetti luoghi sacri, non sono solo luoghi, sono anche persone: quelle che vi hanno lavorato, inciso , tagliato, scalpellato e cementato affinché l’opera fosse compiuta. Sono coloro che hanno offerto sacrifici o hanno semplicemente pregato nei templi, che hanno pianto e festeggiato, che qui sono passate e morte nel corso dei secoli. Ogni pietra di una cattedrale ha memoria di ciò.
La diffidenza aveva presto lasciato il posto alla curiosità e attesi che lo sconosciuto proseguisse.
- Oggi usano mattoni e cemento armato e magari copiano i progetti su manuali da quattro soldi, gente senz’anima che edifica costruzioni senz’anima. Non crede anche lei che sia così?
- Per la verità non me lo sono mai chiesto, tuttavia suppongo che sia questione di sensibilità personale.
- Non solo, è soprattutto questione di modelli di vita. Oggi viviamo nella società della negazione, del commestibile. Ogni concetto che produce una negazione viene accettato e condiviso dalla massa. Soffermarsi è male, correre nella notte è giudicato positivo: siamo come una carpa alla quale è stato sottratto il sasso attorno al quale girava nello stagno. Sa che le carpe crescono più robuste se hanno un sasso di riferimento? Ecco, guardi qui.
Prese un libro dallo scaffale e disse: - Ecco cosa scrive a questo proposito Elémire Zolla: “ Occorre proporsi un rinnovamento costante per giungere ad un’apertura spregiudicata a tutte le istanza progressive, accettando una situazione precaria e feconda in un’incessante ricerca collettiva delle possibilità di sviluppo e di crescita, spezzando le remore, rovesciando le strutture acquisite rivoluzionando le forme accettate per aprire nuovi orizzonti d’indagine, sollecitando i contributi costruttivi a un ridimensionamento che metta in crisi e categorie e le abitudini, protendendosi verso esperienze sociali sempre nuove in una accettazione consapevole delle inquietudini… bla bla bla ”. Sa che cosa ha di caratteristico questa frase, dice Zolla? Che si può leggere da qualsiasi punto a qualsiasi punto senza perdere assolutamente nulla: è una filastrocca che dice tutto e niente, proprio come tante cose della moderna civiltà.
L’uomo sospirò, posò il libro e si diresse verso l’uscita.
- Le cattedrali sono la casa di Dio, non importa come vengono costruite – dissi io.
La mano già sul pomello della porta, l’uomo si fermò e si voltò lentamente.
- Davvero? – Replicò sorridendo. – C’è una certa chiesa qui, in questa città, e domani è il solstizio d’estate, il momento giusto per visitarla. Vi consiglio di farlo a mezzogiorno in punto e osservare la parete nord.
Mi diede l’indirizzo della chiesa e se ne andò.

Era ormai mezzogiorno e io osservavo la parete nord della chiesa, in attesa di non sapevo cosa. Mi sembrava tutto una follia, una stravaganza, un delirio; ma questo delirio mi aveva impedito di recarmi a intascare il denaro, proprio a mezzogiorno, molto lontano da lì. Era stata la voce dell’uomo, qualcosa nel suo viso, una improvvisa oppressione a costringermi a disertare l’appuntamento, ma sentivo fortemente che per me era necessario trovarmi là in quel momento.
Un raggio di luce perforò improvvisamente la penombra, tracciando una scia di pulviscolo scintillante. La luce penetrava da un foro della parete meridionale, attraversava obliquamente tutta la chiesa e colpiva un punto della parete nord. Avvicinandomi vidi che si infrangeva su una pietra diversa da tutte le altre, bianchissima e levigata a specchio. Avevo la sensazione che il chiarore andasse aumentando man mano di intensità, e che la luce esterna fosse solo una specie di “innesco” per una luce ben più intensa che scaturiva dalla pietra. Mi sembrava di essere nel pieno del cono di emissione di un faro e che tutta la mia persona ne fosse avvolta. Avevo gli occhi aperti, ma la luce non mi dava fastidio.
La pietra cominciò a pulsare in sincronia col mio cuore e, a ogni pulsazione, vedevo cose, persone, scene prendere vita dalla pietra. Osservavo gli avvenimenti svolgersi come i fotogrammi di un film, lenti, intervallati da pause più o meno lunghe, in rapporto col battito nel petto.

Il menhir era levigato e bianchissimo e il sacerdote, il capo e i fianchi cinti da piume di pavone, sgozzava le vittime sacrificali con un coltello di ossidiana e spruzzava con le dita il loro sangue sulla pietra. Una litania lontanissima, lenta e solenne, aleggiava nell’aria.

<< Io sono Iside, quella che è, che è sempre stata e sempre sarà>>. Il volto della dea, scolpito nella pietra eburnea, era dolcissimo e sereno. La dea si ergeva sulla sabbia, la veste ornata di rose, delfini, salamandre, ibis e leoni ai suoi piedi.
La litania si era fatta più vicina e le voci più possenti.
La statua di Iside si crepò in più parti, il volto gigantesco si dissolse in un fiume di sabbia che mi sommerse fin sopra la cintura.

L’ara di pietra bianchissima era abbastanza grande da coricarvi sopra il toro stordito dall’issopo. Con mano sapiente lo ierofante, che recava gli emblemi solari di Mitra, affondò il coltello nella gola della bestia, ne recise le arterie e fece colare il sangue che ne sgorgava sulla grata sotto l’altare, a bagnare gli adepti che erano raccolti in preghiera nell’antro sotto di essa.
Le loro voci si unirono alla litania che risuonava sempre più forte.
Le visioni adesso scorrevano velocemente e si confondevano e si mischiavano le une alle altre, mentre il mio cuore batteva all’impazzata.
Lo sentivo agitarsi furioso nel petto e stringermi la gola, ma mi era impossibile staccarmi dall’incanto della pietra.
Vedevo lunghe file di gente camminare, vedevo un ondeggiare di fiaccole e bandiere, vedevo schiene nude e sudate piegarsi sotto le sferze, vedevo catene, fumi, roghi, incendi.
Al centro della pietra, nel nucleo stesso del suo fulgore, un punto nero aveva preso corpo e cominciava a oscurarne la luminosità, catturando la luce in un vortice scuro.
Vidi colonne bianchissime cadere spezzate, templi spazzati via come fuscelli al vento, la chiesa sgretolarsi e cadere attorno a me e la sabbia che mi avvolgeva trasformarsi in un fiume di sangue vischioso.
La litania era una selva di urla oscene, imprecazioni, bestemmie e risate sguaiate. Tutto vorticava e si liquefaceva nel nero a velocità insopportabile. Mi portai le mani al petto e gridai con quanto fiato mi restava in corpo:<< Dio mio! >>
La mia voce rimbalzò sulle colonne, sugli archi, sulle volte come una cosa viva; e le pietre ne colsero le vibrazioni e le amplificarono in intervalli musicali: intervalli di quinta, armonie, proporzioni, segmenti aurei e contrappunti diatonici. Canti gregoriani diedero riposo alle mie orecchie.
Mi sentii cadere, ma venni trattenuto da due braccia strette intorno a me.
Seppi subito di Chi erano.
Labirinti: mille strade che portano a una sola strada.
Riuscii a voltarmi per un istante, prima di perdere i sensi. La chiesa stava ritornando nell’ombra e, nel crocifisso, solo gli occhi di Iside - Mitra - Gesù, mandarono un ultimo bagliore prima che perdessi conoscenza.

L’infarto non mi aveva ucciso. Qualcuno mi aveva trovato supino sul pavimento della chiesa e aveva chiamato aiuto. Seppi tutto questo qualche giorno più tardi, quando ripresi conoscenza nella sala di rianimazione dell’ospedale.
Tempo dopo cercai ancora la chiesa e il negozio di libri, ma non trovai più né l’uno né l’altra.


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NEI PRESSI DEL TAURO

Perché mi trovavo là? Sarebbe troppo lungo da spiegare. Posso solo dire che avevo dilapidato l'intero patrimonio di famiglia , l'amore di mia moglie e dei miei figli, trascurato ogni amicizia e affetto per giungere dov'ero. Avevo interrogato i più famosi occultisti del mondo, setacciato biblioteche e collezioni private, seguendo minuziosamente ogni traccia che servisse a rischiarare la strada. Avevo percorso in lungo e in largo tre continenti finché avevo scovato, sulle montagne del Tauro, l'unica persona al mondo che deteneva il segreto. Non mi rimaneva più nulla, solo il mio corpo afflitto dalla scabbia e scorticato per il furioso prurito. L'addome, i gomiti, i genitali erano costellati da lunghe linee di pelle rossa ed escoriata.
Il vecchio sdentato e lercio che rimestava con un paiolo di legno una sostanza collosa dentro una pentola di rame, era l’unico che conoscesse che il segreto della trasmutazione dei metalli. Egli poteva fabbricare l'oro! Non era stato tanto il desiderio di ricchezza in sé che mi aveva condotto dentro quel tugurio, ma la sfida e gli sguardi condiscendenti di tutti coloro che mi credevano non più sano di mente. Volevo dimostrare a me stesso e a tutti quanti che nulla mi era impossibile.
Il vecchio mi guardò e disse : - E' un cattivo segreto. Nessuno è mai stato felice, dopo. Affondai le unghie lunghe e nere nelle mie carni, lasciandovi solchi sanguinolenti e trovando momentaneo sollievo al prurito. Riuscii a sogghignare. - Io lo sarò! Il vecchio sospirò. Mi consegnò un pezzo di piombo e disse: - Allora immergi qui dentro la mano che stringe il piombo.
Obbedii e, quando la estrassi, il piombo era diventato un pezzo d'oro. Il vecchio scivolò via dal tugurio senza che me ne accorgessi : non badavo più a lui, avevo ormai altro da fare. Finalmente il segreto della Pietra Filosofale era mio! Mi asciugai una lacrima di felicità ... che tintinnò allegramente ai miei piedi. Una brillante goccia d'oro. Anche la guancia che avevo toccato era diventata d'oro, così come tutto ciò che sfioravo. La mitologia diceva che un certo Re Mida, che aveva regnato nei paraggi, un giorno aveva subito un supplizio simile. Bisognerebbe sempre credere alle leggende. Solo che per me era troppo tardi. Resistetti all'impulso di mordermi le dita dalla rabbia. Avvertii un formicolio correre lungo la schiena. Sentivo un esercito di formiche sul petto, un plotone di moscerini sulla pancia, un camion di piume di struzzo dentro i pantaloni. In nome di Dio, per quanto tempo ancora sarei riuscito a non grattarmi?

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URUS


Non tornavo a Rugadiali da più di vent’anni, da quando cioè era morto mio padre e la famiglia si era trasferita altrove. Non avrei mai immaginato, allora, che un giorno vi avrei fatto ritorno per prendere possesso di un palazzo che, per una serie di circostanze, avevo ricevuto in eredità. Il palazzo, molto antico, si ergeva a lato della piazza principale del paese ed era appartenuto per generazioni a una famiglia nobile del posto, caduta in disgrazia subito dopo la seconda guerra mondiale. Il palazzo aveva subito lo stesso sfacelo della famiglia e versava in uno stato di penoso abbandono. In effetti non ricordavo di avervi mai messo piede dentro durante gli anni che avevo trascorso in paese, quelli dell’infanzia, e non avevo mai sentito che qualcuno dei miei compagni di giochi lo avesse fatto. Della sua manutenzione, limitata perlopiù alla sostituzione di qualche tegola rotta o alla riparazione di qualche finestra dal legno marcio, si era occupato un vecchio fattore che aveva servito la famiglia nei tempi dello splendore e che aveva continuato a farlo fino alla morte dell’ultima padrona la quale, d ’altronde, aveva trascorso gran parte della sua vita lontano da lì. L’ edificio conservava ancora le vestigia dell’antica opulenza. Era in posizione privilegiata rispetti a tutti gli altri caseggiati e alcuni fregi dei cornicioni erano sopravvissuti al tempo e alle intemperie, così come qualche cornice delle finestre e del portone. Le ringhiere dei balconi , in ferro battuto, erano lavorate secondo complicati ghirigori che la ruggine non aveva del tutto corroso.
Ero arrivato in paese sul far della sera, con una piccola borsa da viaggio in mano, l’indirizzo del fattore, che di nome faceva Andrea, in tasca e il desiderio di ripartire al più presto, appena terminato il sopralluogo per quantizzare l’entità dell’eredità. Andrea si rivelò un uomo allegro e pronto alla battuta di spirito, curvo di spalle e con una fila di denti finti, gialli e consumati. Si offrì di buon grado di accompagnarmi dentro il palazzo per mostrarmi tutto ciò che c’era da vedere, ma lo avrebbe fatto l’indomani mattina perché ormai era buio e vi erano delle stanze che non avevano un impianto elettrico efficiente. Per quella sera sarebbe stato sufficiente per me sistemarmi in una delle camere meglio conservate al primo piano, giacché in paese non esistevano alberghi, e a casa sua non aveva proprio spazio per ospitarmi.
- Io ero molto amico di suo padre, quando abitava qui – mi rivelò Andrea,
mentre mi faceva da guida lungo le viuzze del paese – Giocavamo spesso a
bocce insieme al parroco e il professor Ferdinando. Mi ricordo anche di voi,
signore, anche se allora eravate appena un ragazzo.
Aprì il portone di casa e mi pilotò lungo una serie di stanze quasi del tutto spoglie, tranne che per qualche mobile decrepito. Attraversammo a passo rapido un vecchio salone in cui troneggiava una bellissima e vecchissima stufa di mattoni e ceramica, ricca di nicchie e scomparti, e penetrammo in uno studio dove vi erano una scrivania di ciliegio miracolosamente intatta, su cui erano poggiati disordinatamente molti volumi, e una libreria. I libri non dovevano essere stati, fortunatamente, merce preziosa per Andrea ed erano stati così risparmiati da repentine trasmigrazioni di mano in mano. Mi ripromisi di dar loro un’occhiata il giorno dopo. Giungemmo, infine, in una stanza che dava sulla piazza e che era arredata con un letto , un comodino e una lampada.
Ringraziai Andrea per la sua disponibilità, dandogli appuntamento per il giorno successivo.
Rimasi solo in casa proprio mentre scendeva la notte.
Ero rimasto di ghiaccio nell’apprendere che in paese non c’erano alberghi, perché fino a quel momento non avevo fatto i conti con me stesso: io ho una sciocca ma inesorabile paura del buio! Ero, per il resto, una persona assolutamente razionale, facevo un lavoro che dva pochissimo spazio al sofismo, l’ingegnere, e mi davo del cretino ogni volta che mi trovavo solo nel buio. Però era più forte di me. Non potevo impedirmi di immaginare il buio popolato da esseri immateriali, oscure presenze, larve, ectoplasmi, spiriti e fantasmi pronti a gettarsi su di me. Era come se in me coabitassero due personalità: una diurna, logica e scientifica e l’altra, notturna, superstiziosa e irrazionale.
A volte pensavo che l’una non poteva esistere senza l’altra, ma non era una sensazione piacevole, di notte, sussultare nel letto a ogni rumore e svegliarsi madido di sudore ogni quarto d’ora. Non so cosa avrei dato, in quei momenti, per essere un idiota incosciente, stupido ma certamente più felice. Di notte , per me, aprire una porta che dava sul buio era fonte di estrema inquietudine, non parliamo poi di una porta in un palazzo antico dove mettevo piede per la prima volta!
“ Scemo” dicevo a me stesso mentre saggiavo la consistenza dell’uscio e delle finestre, attento a imprimermi nella memoria gli scricchiolii del legno per confrontarli con quelli che certamente avrei sentito durante la notte e verificavo la presenza di buchi di tarli, fonte di angosciosi crepitii nell’oscurità.
Non appena terminai la meticolosa preparazione del cantuccio dove riposare, messomi a letto, cominciò la frenetica attività della casa. Dapprima udii uno scalpiccio di piccole zampe lontane, frettoloso e confuso. Alle prime zampe se ne aggiunsero dieci, cento altre e parvero camminare sul soffitto, sui pavimenti, dentro i muri. Qualcosa iniziò a sbattere da qualche parte sopra di me, nonostante non vi fosse un alito di vento, e a ogni colpo il cuore mi balzava nel petto, paralizzandomi nel letto. Mi si presentò il solito dilemma se spegnere o no la luce: con la luce accesa e il conforto degli occhi avrei potuto controllare in ogni momento ciò che mi accadeva intorno, ma cosa sarebbe accaduto se mi fossi addormentato e, svegliandomi di colpo, avessi visto qualcuno o qualcosa chino sul mio letto, intento a osservarmi?
Mi alzai e trovai rifugio nella finestra. Fuori vi era la realtà vera e oggettiva e là avrei trovato sollievo. Nonostante la temperatura fosse piacevole, la piazza era deserta Probabilmente nessuno aveva più l’abitudine di uscire di casa dopo cena, come mi ricordavo accadesse vent’anni prima. Osservando meglio mi accorsi, però, che c’era qualcuno. Sotto un lampione vi era un ragazzino, con le mani in tasca, che guardava nella mia direzione. Non appena i nostri sguardi si incrociarono, mi accorsi che non si trattava affatto di un ragazzino perché i suoi tratti somatici erano quelli di un nano. Le sue labbra si piegarono in un sorriso enigmatico quando cacciò fuori la mano dalla tasca e mi mostrò qualcosa che mi parve un crocifisso di metallo. Sembrava che da esso si sprigionassero delle faville. Rabbrividii e mi allontanai dalla finestra, poggiandomi con la schiena contro il muro e respirando con difficoltà. Il tempo sembrava essersi fermato in quel paese: Non passava un’automobile per strada, non un rumore, non un segno di vita, neppure uno stormire di foglie. Sentii soltanto dei passettini che si allontanavano velocemente dalla piazza e una risatina chioccia e, quando mi riaffacciai, il nano era scomparso.
Riuscii a prendere sonno solo sul far del giorno.
***
Andrea si fece vivo in mattinata, portando con sé dei biscotti che aveva fatto la moglie, e si disse pronto a mostrarmi ogni angolo del palazzo. - Il piano superiore l’abbiamo già visto ieri sera. – mi disse. – Ora vi condurrò agli altri piani, nelle cantine e nei sotterranei. Era armato di una grossa torcia elettrica. – Vi sono alcune zone molto buie , là sotto.
I muri delle cantine erano in pietra, massicci e imponenti, e concepiti secondo una ininterrotta trama di archi e colonne cosicché, una volta scesa la scala, si poteva avere una visione d’insieme di tutto il ventre del palazzo. Qua e là giacevano botti di legno, alcune squarciate altre ancora intatte, ricoperte di polvere e ragnatele. Vi erano vecchi mobili accatastati, travi spezzate, materiale di deposito, arnesi arrugginiti e , su tutto, un’aria di estremo abbandono, umida e pesante.
– Qui raramente ci mette piede qualcuno – mi spiegò Andrea. – D’altra parte vi è ben poco da fare quaggiù, oltre che uccidere topi e scarafaggi.
Mi sembrò di cogliere una nota di piacere nelle sua voce e mi parve sorridesse, ma non ebbi il tempo di appurarlo perché egli accelerò il passo pilotandomi verso un angolo della cantina. Solo quando fummo vicinissimi mi accorsi di essere di fronte a una robusta porta di quercia. Dietro di essa partiva una scala di pietra che scendeva ancor di più in profondità. Istintivamente mi ritrassi.
- Non abbiate timore, ingegnere. Seguitemi, - mi invitò il fattore.
I gradini erano ricoperti da un tappeto di muffa, erano scivolosi e non vi era corrimano. Sotto era buio pesto. Il cuore riprese a martellarmi nel petto. Mentre Andrea scendeva sicuro, fischiettando tra i denti, io mi appoggiai con la mano sulla parete, come se il contatto con la pietra valesse a rassicurarmi. La mano toccò qualcosa di umido e viscido. La ritrassi con un grido. Il cono luminoso della torcia descrisse un arco dal basso verso l’alto.
- Sono funghi, - mi tranquillizzò Andrea, inquadrando prima la mia mano e poi una massa informe di cappelle violacee.
Finalmente sceso di sotto, alla limitata luce della torcia, potei vedere una piccola parte del sotterraneo e immaginare il resto. Il sotterraneo era scavato nella roccia viva e i pilastri che anche qui ne costituivano la trama di sostegno, erano scolpiti direttamente su essa. Andrea attraversò con una certa sicurezza una selva di massi, anfratti , recessi oscuri e blocchi di pietra lavorata che qua e là delimitavano ancora il perimetro di antichissimi locali.
- Attento qui - mi esortò. – Statemi vicino e mettete i piedi dove li
appoggio io.

Davanti a noi si apriva una larga fessura nel terreno, che affondava nelle viscere della terra.
- Nessuno ha mai esplorato tutti questi anfratti. In effetti queste grotte si snodano per chilometri nel ventre della montagna sopra la quale è edificato il paese. Si racconta che un tempo qui sotto vi fosse un covo di briganti e che ci sia nascosto un tesoro. Altre leggende parlano di animali orrendi e apparizioni sovrannaturali emersi dalle caverne più oscure ma, naturalmente, sono solo le solite storie di paese ispirate dalla particolarità del luogo e dalla superstizione. A me quaggiù non è apparso mai nulla oltre agli insetti.
Avevo la gola secca e un’oppressione al petto. Ripensai ai rumori, alle voci, ai sospiri che avevo udito la notte precedente ed ebbi un senso di vertigine al solo pensiero di trascorrere un’altra notte in quella casa costruita sugli abissi.
- Siamo arrivati – stava dicendo Andrea. – Ora vi mostro qualcosa di veramente particolare. Il fattore si era fermato davanti a una piccola stanza in mattoni eretta tra due arcate di pietra. Lo seguii dentro. Il fascio di luce illuminò una porticina al lato opposto della stanza. Era una porticina di metallo ossidato, altra poco più di un metro, liscia e rinforzata da chiodi di ferro posti a file regolari, murata nella roccia. - Ecco cosa ha ispirato, secondo me, la storia del tesoro. L’ultimo padrone che ha abitato qui, don Alfonso, la fece divellere per vedere con i propri occhi cosa si celasse dietro, sebbene già tutti in famiglia sapessero che non vi fosse assolutamente nulla oltre la pietra.
- Una porta murata nella roccia? – Domandai. – Ma a che scopo?
- Chi lo sa? So solo che don Alfonso, dopo aver verificato personalmente l’ inutilità di perderci altro tempo, la fece rimettere a posto, fece costruire questa piccola stanza di mattoni attorno a essa e non ne volle più sapere. – Andrea ridacchiò. – Non mi chiedete il perché di questa stanza che, come vedete, non ha a sua volta porta . Don Alfonso era un po’ strano, morì in manicomio.
Un movimento della torcia mi fece scoprire una cosa che mi era sfuggita in precedenza. Sulla parte superiore della porta vi era scolpita una parola : URUS.
- E quella scritta? - Domandai.
- Ma… Io non conosco il latino, ingegnere. Se volete saperne di più potete domandare al professor Ferdinando; sapete, quello che giocava a bocce con vostro padre.
***
Il professore mi studiò con attenzione. Era piccolo ma tarchiato, con radi capelli bianchi pettinati all’indietro e uno sguardo vivace dietro le lenti da presbite.
– Sicché siete il figlio del caro ingegner Orsini e ingegnere anche voi come vostro padre? Ah, quanto soffrii per la sua morte prematura! Eravamo molto amici, sapete? Avrete certamente visto qualche fotografia che ci ritrae insieme nel vostro album di famiglia; intendo me e lui , il parroco e don Alfonso Cappelli. Eravamo inseparabili, all’epoca.
- Ora che ci penso, sì – confermai, andando con la memoria alle foto sbiadite che di tanto in tanto guardavo. Mio padre era stato un appassionato di fotografia.- Ho visto qualche fotografia che ritraeva mio padre insieme a un prete e altre persone.
- Sicché voi avete ereditato il palazzo dei Cappelli? Questa è un notizia che mi rende lieto, anche se non immagino attraverso quali misteriose vie notarili sia infine giunto a voi. – Il professore scrollò le spalle. – Comunque queste cose lasciamole ai notai. Posso fare qualcosa per voi, giovanotto?
- Sì, Andrea mi ha riferito che avreste potuto spiegarmi il significato di una parola latina: Urus. Gli occhi del professore divennero aguzzi dietro le lenti. Per qualche istante sembrò vagare con la mente sulle tracce dei suoi ricordi.
– Urus? - ripeté. – Andrea vi ha dunque mostrato la porta nel sotterraneo. Be’, mi sembra giusto che veniate a conoscenza di ogni angolo della casa. Vi ha anche certamente raccontato di briganti, di animali mostruosi e altre balle del genere: sono cose che comunque fanno sempre folclore e sensazione. Rugadiali è un paese costruito su una specie di gruviera, le grotte qui intorno non si contano, come non si contano le leggende che sono fiorite sulle caverne.Per quel che riguarda la porta nella roccia, le antiche cronache locali raccontano che sia stata costruita da un alchimista vissuto qui circa quattrocento anni or sono e che sia una soglia di accesso ai mondi infernali. Colui che riesce a decifrare la parola Urus e pronunciarla nel modo esatto, avrà il potere sulle forze che si scateneranno uscendo dalla porta. Vi faccio notare che questo tipo di leggende non è affatto originale rispetto a tante altre dove entra in gioco la magia : da sempre conoscere il nome di un demone o di un’entità sovrannaturale significa averla in proprio potere. - Il professore tacque per qualche istante, fissandomi negli occhi.
– Impressionato? – Domandò infine.
- Un poco.
- Eh già. Se doveste credere a queste sciocchezze, sarebbe piuttosto spiacevole per voi immaginare di essere proprietario di una casa edificata sopra un girone infernale. Comunque il significato della parola è semplice: l’urus era un bue primigenio, più grande e robusto degli attuali, che viveva in Europa e in Asia e che si è estinto nel XVII secolo. Nulla di misterioso, dunque, se non il motivo per il quale qualcuno si è preso la briga di scrivere questa parola sopra una porta.
Le parole del professore e il suo scetticismo mi avevano tranquillizzato parecchio, ma non abbastanza da convincermi a passare un’altra notte da solo in quella casa.
– Se poi desiderate sapere notizie più precise di quell’alchimista di cui vi parlavo - concluse il professor Ferdinando, - potete chiederle al parroco. Nell’archivio della chiesa forse si conserva ancora qualche documento sul processo e sulla sua fine sul rogo.
***
- Assomigliate molto a vostro padre, sapete? –
Don Vincenzo riprese la sua marcia lungo il viale alberato della canonica. Era alto e sottile, leggermente curvo, con una bella barba bianca. – Una volta Rugadiali era un paese florido. Vi era una miniera di carbone e qui venivano maestranze e dirigenti da tutta Italia; poi la miniera si è esaurita e tutto è finito. Ora siamo rimasti quattro gatti, per la maggior parte nostalgici dei tempi andati. Vostro padre era una persona molto curiosa e intelligente.
Don Vincenzo si arrestò, come colpito da un pensiero fastidioso. – Scusatemi, forse faccio male a parlare di lui: riporto alla memoria fatti per voi dolorosi. Mio padre era morto per un incidente proprio dentro quella miniera. Durante un sopralluogo in una galleria buia un grosso masso gli era crollato addosso, uccidendolo. Probabilmente il mio timore per il buio era scaturito proprio da quell’evento, perché mille volte avevo immaginato mio padre ancora vivo sotto le macerie, nell’ombra ostile, in attesa di soccorsi che non sarebbero mai giunti in tempo. Sì, il ricordo mi creava ancora dolore.
– Vi prego, padre – tagliai comunque corto. – Continuate.
- Gioacchino Stroebio, questo era il nome dell’alchimista, è la star del nostro paese. A distanza di tanti secoli è diventato un eroe: la piazza per esempio, proprio quella dove c’è il palazzo, è dedicata a lui. Vi sono associazioni in suo onore e vi è perfino una pizzeria che porta il suo nome. Lo hanno trasformato nel solito martire per la libertà e c’è l’immancabile sapientone di turno che ogni tanto ne rispolvera la memoria per dimostrare quanto sia cattiva la Chiesa. Gioacchino Stroebio era veramente un malfattore dedito a pratiche magiche e macchiatosi di numerosi misfatti. Aveva seviziato e ucciso bambini e uomini prima di essere arso sul rogo. Nella biblioteca della parrocchia conserviamo ancora dei frammenti del suo processo e la sua confessione : era un nano infernale! Trasalii tanto forte che il parroco se ne accorse e si girò a guardarmi.
– Un nano? – proruppi. – Il nanismo dev’essere frequente in questa zona. Ho sentito dire che è dovuto a fatti ambientali connessi alla tiroide.
Don Vincenzo mi scrutò con interesse, tanto che mi parve di leggere neisuoi occhi uno sguardo da inquisitore.
– Perché ? - Domandò . – Avete visto un nano a Rugadiali?
– Uno – confermai. – Ieri notte. Era sotto la mia finestra.
- Ah, be’…comunque il professor Ferdinando vi ha già spiegato tutto sulla porta. Resta da dire che anch’io ho una mia teoria sulla scritta. Secondo me è una forma contratta di “Uroboros”, che in alchimia è il serpente che si morde la coda, e Stroebio era precisamente un alchimista. Un serpente che si morde la coda disegna un cerchio magico e rappresenta il cosmo, dove Tutto è ridotto a Uno… Eresie rinascimentali, ossessioni di spiriti malvagi. Dio, attraverso Gesù, ci ha indicato la via da seguire: non quella chiusa dal cerchio e ispirata dal serpente malefico che tutto avvolge nelle sue spire, ma quella dell’espansione verso gli altri, dell’altruismo. Il serpente chiude lo spirito dentro l’egoismo e lo fa preda delle forze infernali. Ne avevo abbastanza di quella storia. Ritornai a casa covando un’ inquietudine particolare, con l’idea di fare le valigie e partire quanto prima.
Andrea mi attendeva sulla porta con un fagotto in mano e l’aria di chi ha
fretta.
– Mia moglie vi ha preparato qualcosa da mangiare, ingegnere. Mi consegnò il pacco e se ne andò, scusandosi per la premura. Salii le scale e mi diressi verso la stanza che avevo scelto la sera prima per abitarvi. Sul tavolo di legno vi era la mia borsa da viaggio e, accanto a essa, sobbalzai nello scorgere un antico incunabolo, con la rilegatura marrone consunta dalla muffa e dalle tarme. Doveva averlo dimenticato lì Andrea e, sebbene non mangiassi dal giorno prima, la tentazione di vedere quale fosse l’argomento del libro fu più forte della fame. Misi da parte il fagotto e presi l’incunabolo. Lessi il titolo: “ De lingua universalis” di Joacchinus Stroebius. Allontanai da me il libro come se fosse d’un tratto diventato incandescente e saltai in piedi. Chi lo aveva lasciato là ? E perché? Era stato proprio Andrea o, piuttosto, qualcun altro che era penetrato dagli sterminati sotterranei? Mi guardai attorno per vedere se vi fosse qualcuno nascosto nella stanza. Vidi solo un bel raggio di sole che penetrava dalla finestra, che ebbe il potere di tranquillizzarmi. Cosa c’era in effetti sul tavolo? Un semplice e innocuo libro antico, nulla che potesse giustificare il timore che avevo provato al suo contatto. Ripresi il libro in mano e ne sfogliai le pagine che, sature di umidità, sfilarono via in gran parte appiccicate le une alle altre. Il libro era scritto in latino, con stampa fittissima e minuta. Poiché non capivo nulla della frasi che leggevo a casaccio, decisi per il momento di accantonarlo e ritornarci sopra più tardi, dopo aver mangiato, felice con me stesso per aver superato quella sia pur piccola prova di coraggio. Finii di scartare il fagotto e mi sentii prosciugare. Davanti a me, posata su un piatto, una testa di capra mi guardava con occhi spenti. Il pelo bianco era macchiato dal sangue che ancora sgorgava inspiegabilmente copioso dalla gola recisa e si raccoglieva nel fondo del piatto, cominciando a debordare fuori da esso. Non riuscii a impedirmi di vomitare. Cercai con lo sguardo la porta, per uscire al più presto e… incrociai lo sguardo del nano. Ora vi era la sua testa sul piatto e i suoi occhi mi fissavano con curiosità, seguendo ogni mio movimento, con lo stesso potere ipnotico di un serpente, di quell’Uroboros che incarnava la sua arte alchemica in vita. Gli occhi guardavano me e poi il libro, poi ancora me e poi il libro. Là vi erano le risposte alle mie domande, sembravano dirmi, e mi invitavano a cercarle. Percepivo anche la sua voce stridula ( o era la mia mente allucinata a crearla?), che mi invitava a compiere l’atto finale per il quale ero stato predestinato. Riuscii finalmente a scuotermi e fuggire via. Avevo la sensazione di muovermi come in un film al rallentatore: pochi metri mi sembravano chilometri e gli istanti ore. Infine riuscii a raggiungere la maniglia dell’uscio, tirai verso di me la porta e… mi vidi. Vidi me stesso, di spalle, che apriva la porta di un’altra stanza e, oltre la porta, un altro me stesso che ne apriva un’altra e un’altra ancora, come in un gioco di specchi. Avevo l’illusione che le porte si rimpicciolissero man mano, fino a diventare non più alte di un metro e, su tutte, troneggiasse la scritta URUS a caratteri fiammeggianti.
Il pavimento mi venne incontro e persi conoscenza.
***
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai nel buio quasi totale, eccetto che per una piccola lama di luce che penetrava dalla finestra. Da qualche parte, davanti a me, giungeva un sommesso bisbigliare e un frusciare cauto di passi. – Forse sarà partito – disse una voce rauca, che riconobbi subito.
– Forse è meglio così – disse un’altra.
– Il fatto è che dobbiamo esserne certi e dobbiamo essere certi che nontornerà più : non possiamo rischiare.
Giacevo prono e, sotto il mio corpo, avvertivo il contatto dell’incunabolo di Stroebio. Lo raccolsi e, carponi, scivolai lentamente dietro la porta, acquattandomi nell’ombra. Cercavano me, senza dubbio, e le loro parole non tradivano intenzioni benevole. Non era più questione di paure immotivate o di presunte presenze infernali a minacciarmi, ma di un pericolo reale e concreto. Stranamente fu proprio questa consapevolezza a darmi coraggio, giacché era più facile per me combattere contro un pericolo materiale che contro le mie paure.
Vidi la figura tarchiata del professor Fernando oltrepassare l’uscio con cautela e fermarsi, respirando affannosamente.
– Non c’è – annunciò. – E’ andato via.
Entrò nella stanza seguito da don Vincenzo il quale, dopo un attimo di esitazione, si avviò verso il tavolo, attirato dagli oggetti che vi erano poggiati sopra.
– Santo Dio! – Esclamò. – C’è la sua borsa da viaggio sul tavolo. E’
ancora qui!
Il professore trasalì, girandosi in direzione dell’uscio dietro il quale stavo rannicchiato. Quello era il momento! Balzai fuori dal nascondiglio, con il grosso volume fra le mani, e lo colpii con violenza al volto. Mi giunsero il rumore degli occhiali che si spezzavano e il suo urlo di dolore, mentre io già correvo via di là. Avanzai a tentoni nell’oscurità, ma ero ormai abbastanza pratico della casa per ricordare dove fosse l’uscita. Un lampo di luce improvviso mi accecò. Qualcuno mi aveva inquadrato nel cono di luce di una torcia elettrica.
– Ehi, fermo! – Intimò Andrea. E poi, agli altri compari : - E’ qui, correte! Mi ritrovai nei pressi della scala che conduceva in cantina e, non avendo altre vie di fuga praticabili, cominciai a scendere in basso alla massima velocità possibile, ma scivolai sui gradini e precipitai giù. Incurante del dolore, mi rimisi in piedi e continuai la mia corsa alla cieca, una corsa che mi conduceva in una direzione obbligata: il sotterraneo e le mille caverne che si aprivano in esso. Quando toccai la parete viscida di funghi seppi che ero arrivato e mi inoltrai ancor di più nelle profondità della terra, mentre dietro di me sentivo gli inseguitori che si facevano più vicini. Di sotto venni colto da una sensazione del tutto nuova e fino ad allora sconosciuta per me. Era come se conoscessi quel posto come le mie tasche e fossi consapevole di non essere più in un ambiente ostile. Avevo ora la sensazione di trovarmi a mio agio, come se tutte le paure precedenti avessero esorcizzato il mio animo rendendolo solido e determinato. Avevo vissuto la mia vita col terrore dell’oscurità e forse ne avevo esaurito tutta la carica per trovarmi calmo e lucido al momento opportuno. Scoprii che mi muovevo a mio agio tra quegli anfratti, come se non avessi fatto altro per chissà quanto tempo.
I tre inseguitori si fermarono in prossimità della costruzione in mattoni eretta da don Alfonso Cappelli. Il primo a parlare fu il parroco. – Ingegner Orsini, non ci rendete le cose più difficili, vi prego. Se vi consegnerete spontaneamente a noi, vi promettiamo che non vi faremo del male e vi lasceremo andare via incolume. Voi dovete sapere alcune cose, amico mio. La curia conserva tutti gli atti del processo contro Stroebio: egli era l’ incarnazione del demonio, il suo compito era quello di scoprire la formula rituale per aprire le porte degli inferi che gli Antichi avevano chiuso ermeticamente. All’epoca in cui venne giustiziato vi era quasi riuscito, ma i santi inquisitori fecero appena in tempo a impedirglielo. Pronunziare quella parola innominabile nel modo giusto significa spalancare la via a orrori inimmaginabili, a sofferenze indicibili, al male che si spargerebbe sulla terra con la forza di un uragano. Abbiate fiducia in noi, consegnatevi, non permettete tutto questo.
Il parroco sembrava convincente. Non notavo acredine o minacce nelle sue parole. Allora perché erano entrati di nascosto dentro casa mia? Avevo interpretato male le loro intenzioni e le frasi che avevo sentito pronunciare? Ma poi, le avevo sentite veramente o le avevo soltanto immaginate? Ora la voce che parlava era quella del professore. - Stroebio, sul rogo, aveva giurato che sarebbe ritornato ogni volta che un suo legittimo discendente fosse entrato nel palazzo che era stato di sua proprietà. La sua anima avrebbe vagato nella casa in attesa di quel momento, per la suprema vendetta e il compimento dell’opera. Don Alfonso Cappelli ha speso tutta la sua vita per scoprire il segreto di quella porta. Ha dilapidato una fortuna alla ricerca di rituali e persone che potessero aiutarlo a violarla, ha eretto perfino questa specie di tempio attorno a essa per praticarvi cerimonie inutili, ma invano. Egli non era un predestinato. Voi, invece, avete visto il nano non appena giunto in paese: egli vi aspettava, ha bisogno di voi. Egli è solo un’ombra e perciò gli necessitano una gola e una voce umana per pronunciare nel modo esatto la parola. Non concedetevi al male, affidatevi a noi!
Il libro di Stroebio, che ancora stringevo contro il petto, mi pulsò tra le dita. L’incunabolo scivolò via dalle mie mani, senza che potessi impedirlo, e levitò sopra una roccia, mentre le pagine frullavano via, una dopo l’ altra, come in un battere d’ali di uccelli, fermandosi su una pagina precisa. Una luminescenza fuoriusciva da essa e io in quel momento riuscivo a leggere correntemente il latino, lingua che non avevo mai studiato. “ … gli Antichi parlavano la Lingua degli Uccelli, la vera lingua degli Dei, trasmessa da iniziato a iniziato, perché ogni parola racchiude in sé il potere. U è la lettera per il mondo ultraterreno,invisibile ma sempre presente intorno a noi; R è la lettera delle forze primigenie che sorsero dal Caos…”
- Orsini! – Urlò don Vincenzo, con quanto fiato aveva in corpo. – Sono quattro secoli che il nostro Ordine veglia su questo segreto. Noi abbiamo dedicato le nostre vite a questo unico scopo, scegliendo di montare la guardia su questo umile paese, perché il male non vincesse. Il professor Ferdinando ha sacrificato una brillante carriera ecclesiastica per votarsi a questa missione; Andrea, quarant’anni or sono, ricevette l’incarico direttamente dal Santo Padre e altri verranno dopo di noi. Vi prego, non fatevi travolgere dalla debolezza peggiore dell’uomo: la curiosità. Improvvisamente udii una voce sovrapporsi a quella di Don Vincenzo, soffocata, fioca, vicinissima al mio orecchio. Vicino a me non vi era nessuno, ma io sentivo ugualmente una presenza fatua, discreta ma non ostile. Per me, in altri momenti, sarebbe stata l’apoteosi del terrore, la voragine che avrebbe inghiottito per sempre la mia mente; allora, invece, la voce quasi venne a conforto. Ed era una voce che conoscevo… << … Ogni qualvolta un legittimo discendente fosse entrato nel suo palazzo…>> Mi ritrassi, come scosso da una scarica elettrica, perché mi era sfuggito il senso profondo di quella frase nel momento l’avevo udita la prima volta, pronunciata dal professore.
– Padre! – Urlai.- Padre, sei tu!
La lama di luce della torcia virò immediatamente verso il punto dov’ero nascosto.Mi avevano individuato, ma non mi importava più.
– Lo avete ucciso voi, maledetti – ringhiai.
- Fu un incidente di miniera - ribatté il professore, e la sua voce si era
fatta più vicina.
- Voi, i suoi migliori amici…
Non ebbi più dubbi. Come avevano detto? Non potevano rischiare di lasciarmi andare… e non avevano neppure rischiato con mio padre. Tornai a leggere, anche se sentivo distintamente dei passi sopra la buca dove avevo trovato rifugio.
“ … l’altra U è l’urlo della terra, delle correnti telluriche. Del mercurio che si sprigiona nell’atanor…”
- E’ qui, - mi giunse lontanissima la voce di Andrea, perso com’ero ormai sulle parole del libro. – Ha il libro!
“ … ed S è sia! Sia!”
Attorno a me vedevo un vorticare di volti: Gioacchino, mio padre e altri assolutamente sconosciuti. I miei inseguitori dicevano che l’apertura della porta avrebbe aperto la strada ai demoni infernali, ma questi non erano già presenti nel mondo? Cosa vi era di più infernale della sopraffazione, della schiavitù, della malvagità , della scelleratezza e della crudeltà gratuita? Nulla poteva esservi di peggio. E se fosse stato il contrario di quello che affermavano i miei inseguitori? Non poteva, da quella porta, sgorgare la saggezza degli Antichi, di coloro che parlavano la stessa lingua degli Dei? E se i veri demoni erano gli assassini che volevano impedirmi di aprirla?
“ Sia”, mi dissi. E urlai, con quanto fiato avevo in corpo :
- URUS!!
Un lampo violentissimo di luce sgorgò dal libro e illuminò a giorno la caverna. Sopra la mia testa vidi i miei inseguitori arrestarsi perplessi e poi arretrare oltre il bordo del fosso, addossandosi al muro, bianchissimi in volto. Osservai i muscoli guizzare potenti sotto la pelle delle mie braccia e le unghie delle mani e dei piedi trasformarsi in artigli di luce. Con un balzo fui fuori dalla roggia. Vidi la porta spalancata e piena di luce anch’essa. Avanzai lentamente, lentamente, pronto a iniziare l’Opera.


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Colazione inglese.

Riconoscevo quello sguardo. Lo avevo visto troppe volte perché potessi sbagliarmi. Di certo lei ancora non se ne rendeva conto, ancora non ricordava, e probabilmente quel modo di guardarmi era l’esordio non ancora cosciente di quello che sarebbe accaduto tra noi tra non molto. Forse nella sua mente c’era amore, ma nei suoi occhi no… perché avrebbe ricordato e non si sarebbe potuta sottrarre al destino che ci legava ancor più strettamente di quanto, fino a poco tempo prima, io stesso non avessi potuto immaginare. Ci sarebbero volute ore, o forse solo minuti per lei, chi poteva dirlo?, ma ciò che doveva accadere sarebbe accaduto, come sempre. Io invece ricordavo. Non sapevo se vi fosse un senso, una ragione in quegli eventi. Forse si trattava soltanto di misteriosi disegni divini o forse di oscuri scherzi del destino che si divertiva a giocare con gli uomini come se fossero marionette, tirando i fili a casaccio e godendo dei loro sforzi a ricercare un senso dove senso non vi era. Il fatto era che stavolta io ricordavo e lei ancora no. Non più di dodici ore prima eravamo seduti sulla panchina di un parco pubblico, come una qualsiasi normale coppia di non più novelli sposi, intenti a guardare foglie di ontani cadere attorno a noi e ad ascoltare distrattamente una pretenziosa banda musicale che si esibiva al riparo di un gazebo.
Una merdosa domenica inglese.
Una deliziosa bimba dai capelli rossi, certamente ispirata da una serie di sceneggiati sulle streghe trasmessa in quei giorni dalla BBC, si affannava a ripetere le operazioni di un rogo a discapito di un'amichetta, sussurrandole
: << Ora ti brucio le budella, brutta caccona !>>
<<… Ti brucio le budella…>>
Un sipario nero si era aperto improvvisamente davanti ai miei occhi, svelando l'orrore che si celava dietro.
***
Il volto della contessa recava le tracce devastanti del vaiolo, ma la sua voce era straordinariamente profonda e gradevole quando mi disse: - I miei informatori mi hanno informato dei suoi maneggi con quella setta di eretici bogomili, cancelliere. Mi irrigidii. Con lei non serviva a nulla mentire. Se parlava così sapeva già tutto, ma io non mi sentivo affatto colpevole.
- Sono uomini anch’essi. Sono miti, non hanno fatto nulla di male, non si
sono macchiati di crimini.
- Sono fomentatori di disordini, dispregiano Cristo… e voi siete come loro. Siete un traditore e tramate contro di me.
Fece una pausa per grattarsi, con l'indice inanellato, un angolo della bocca
- Oggi sarete affidato all’Inquisizione.
***
Loreena mi fissò ancora per qualche istante con i suoi penetranti, freddi, occhi azzurro cupo, poi ritornò al suo giornale. Mi sembrò che accompagnasse il gesto con una lieve scrollata di spalle, come per scacciare un pensiero fastidioso. Io, con studiata noncuranza, addentai una fetta di pane imburrato e roteai gli occhi di qua e di là, per non incrociare di nuovo il suo sguardo.
Una merdosa colazione inglese.
E pensai che le nostre vite erano come due spirali le cui circonvoluzioni, di tanto in tanto, interferivano l'una con l'altra, per poi svanire nel volgere del tempo e delle stagioni. E noi sembravamo due attori che recitavano sempre la stessa parte. A pensarci bene forse lo eravamo veramente ma, per la prima volta, vedevo il passato in anticipo e non nell'attimo immediatamente precedente la morte. Stavolta era diverso e Dio, o chi per lui, aveva deciso di assegnarmi un copione diverso. In quel maledetto gioco di ruoli sempre uguali, forse non era più scontato chi fosse la vittima e chi il carnefice.
Il problema era quanto tempo avrebbe impiegato per ricordare ? Non potei impedirmi di ritornare a scrutarla di nascosto. In quel momento mi sembrò bella come non mai. Nessuno, a vederla così minuta e aggraziata, avrebbe potuto immaginare di trovarsi di fronte a una poliziotta dal brillante ruolino di servizio. Mia moglie era uno dei migliori agenti del Dipartimento.
***
La faccia del generale, nonostante fosse lunga e affilata come quella di un lupo, non era priva di un ambiguo fascino femmineo. Fece un gelido sorriso. - Negli Stati Uniti perfino il capo di un puzzolente branco di indiani Cherokee ha diritto a un regolare processo, con tutte le spese che questo comporta. Una procedura del tutto inutile e fastidiosa...
Si grattò con l'indice inanellato un angolo della bocca. Seguii affascinato la scia brillante che l'anello tracciò in aria. Non fossi stato tanto provato dalla fame anche allora avrei potuto vedere oltre, collegare , capire. Ma a cosa sarebbe servito? Chinai il capo, non udendo neppure le parole del generale. - ... Questo tribunale condanna costui all'impiccagione. La sentenza sarà eseguita domani all'alba.
***
Loreena mi mostrò una pagina del giornale e disse : - Hai visto, caro ? L'identikit di uno degli attentatori ti assomiglia. Te l'immagini? Tu , un attivista del gruppo di fuoco dell'IRA !
Emise un risolino. - Molto umoristico. Immagina i titoli : " Catturato uno degli esecutori dell'attentato al tunnel sulla Manica. Dottor Jeckyll e Mr Hyde : feroce terrorista dell'IRA la notte, dolce marito di una poliziotta di giorno..."
Inghiottii un boccone di cemento. - Veramente esilarante - borbottai. - Scusami.
Mi pulii in fretta la bocca, cercando di mascherare col tovagliolo il tremore delle mani che mi aveva improvvisamente colto, e mi diressi in bagno, chiudendo a chiave la porta alle mie spalle. L'acqua fredda del rubinetto sferzò violentemente i miei nervi, anestetizzando per qualche istante l’antica paura che stava impadronendosi di me. Eppure dovevo essere abituato alle situazioni di pericolo. Lo specchio sopra il lavandino rifletteva l'immagine di un uomo precocemente invecchiato, grassoccio e con una grave calvizie. Stentai a riconoscermi. Era il mio viso quello? Uno dei tanti visi…
Pensai che avrei potuto rispondere in maniera più convincente a mia moglie, dicendo per esempio che il mio era un viso comunissimo ed era facile confondermi con chichessia; ma non l'avevo fatto, a cosa sarebbe servito? Non era un'ombra di sospetto quella che, per un attimo, aveva velato gli occhi azzurro cupo di Loreena? Nello specchio, ora, non era più riflesso il mio viso, ma una scena diversa.

***
Le labbra sottili della donna dell’ufficiale si piegarono in un sorriso crudele. Il tedesco si sfilò i guanti di pelle nera con studiata lentezza e sferrò un violento manrovescio sul mio viso di vecchio. L'anello dell'indice tracciò una stria di sangue , lacerando la guancia fino all'osso dello zigomo.
- Questo cane giudeo, non vale neppure il piombo di una pallottola – sussurrò suadente la donna all’orecchio dell’ufficiale nazista. Il suo occhio azzurro cupo balenò di piacere quando lo stiletto affondò nella mia gola.

***
Distolsi gli occhi, il fiato spezzato in gola. Avevo voglia di vomitare, di urlare di rabbia. Ricominciava. Sentivo il puzzo delle mie carni bruciare in piazza, la mia gola distrutta dal cappio, il fiotto di sangue sgorgare dalla giugulare recisa. Trattenei il respiro.
Lei dov'era? Cosa faceva? L'avevo sentita passare davanti alla porta, diretta in camera da letto. Adesso si stava vestendo. Avevo tempo... Avevo tempo... Stavolta avevo tempo. Una frenesia nuova si impadronì di me. Avevo sparato contro soldati inglesi, avevo confezionato bombe per miei compagni e altre le avevo piazzate io personalmente, gli scrupoli soffocati dall'esaltazione per l'ideale supremo di una patria libera dagli aguzzini. Avevo fatto nient’altro che quello che avevo sempre fatto, adesso lo capivo. Ma, per la prima volta, il destino mi offriva la possibilità di invertire un
ciclo.
Come guidato da una volontà sovrumana entrai in azione. Con un temperino forzai un piccolo ripostiglio mascherato nel pavimento e mi impadronii della pistola che vi tenevo nascosta. Uscii dal bagno, attento a non fare il minimo rumore.
Loreena era seduta davanti al grande specchio della camera da letto e stava finendo di pettinarsi. Mi dava le spalle.
Appena sulla porta, alzai la pistola e mirai alla sua nuca, con mano ora fermissima.
Lei mi vide riflesso e si irrigidì.
I nostri occhi si incontrarono nello specchio: i suoi erano gelidi e lontani, ma risoluti. La vidi prendere un anello dalla scatoletta delle gioie che teneva nel comò e infilarlo sull'indice destro, lentamente. Ora ero certo che anche lei ricordava, ma per una volta era troppo tardi. Strinsi il dito sul grilletto. Era così facile! Bastava premere solo un po' più forte e io, noi, tanti ci saremmo vendicati. La vendetta era un dovere, per tutti i significati simbolici dei quali si caricava in quel momento. Era la rivolta dell'umanità ferita e oltraggiata, mia e non più mia. Non eravamo solo io e Loreena di fronte, di spalle, accanto, ma tante e tante anime dannate prima e, probabilmente, anche dopo di noi.
Già, dopo di noi.
Forse,dopo, tutto sarebbe cambiato e ogni vittima si sarebbe trasformato in carnefice… io mi sarei trasformato in carnefice. Loreena non mi guardava più dallo specchio: aveva chiuso gli occhi e reclinato la testa all'indietro, in attesa del colpo liberatorio. Io invece mi vedevo, col braccio armato teso davanti a me e il volto deformato da una smorfia famelica che non era mia.
Quel viso non era il mio, non mi apparteneva!
E io amavo Loreena, più di ogni altra cosa al mondo. L’amavo, l’amavo… Come avrei potuto tirare il grilletto? Perché? In quel momento compresi che ancora una volta il destino si era preso gioco di me. Abbassai la pistola e mi avvicinai a lei. Mi chinai lentamente e la baciai sul collo.
- Ti amo - le dissi. - Lo sai… non sarei mai capace di farti del male.

 

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