Seduzione
Se potessi farlo parlerei male giapponesi e mi incazzerei
a morte, perché è soprattutto per colpa loro se
adesso quasi più nessuno si ricorda di me. Gli anni '70
, quelli sì che erano bei tempi! Quante mani mi sfioravano
allora. E mi toccavano, esploravano i miei fianchi, agili e sudate,
accendevano bagliori nelle mie viscere, mi elettrizzavano, traevano
vibrazioni da corde profonde. Qualcuno degli avventori, a volte,
era perfino violento, possessivo. Mi scuoteva, picchiava duro,
mi faceva soffrire e soffriva a sua volta quando io negavo ( sì,
perché negavo anche! ) la giusta contropartita per il soldo
pagato. Ma anche questo faceva parte del gioco, serviva per stuzzicare
l'appetito e l'interesse. E quando la notte, finalmente, calava
il sipario, la sacca piena di denaro mi confortava , perché
avevo svolto bene il lavoro. Avevo dato e ricevuto un po' di felicità.
Ora resta solo il sapore amaro dell'ossido di rame e della ruggine.
Ora é tempo di microchips del Sol Levante, di Tomb Rider
, di elettronica, di diafane automobiline senza cuore.
Nessuno si ricorda più di un buon vecchio flipper.
(Torna su)
La Lingua degli uccelli
Non riuscivo ancora spiegarmi perché mi trovassi
a Trieste.
Sì, sapevo che la causa era stata una civetta, ma perché
proprio quella città e non altre, e perché era toccato
a me e non ad altri, erano interrogativi che non potevo togliermi
dalla mente.
La civetta in questione non era un animale in carne e ossa, ma un
piccolo oggetto di pietra che tenevo su un tavolino del salotto
di casa mia.
Se ne stava appollaiata sopra un libro, gli artigli rossi a stringere
le pagine e il corpo il bilico su di esso, come se fosse indecisa
se spiccare il volo o riposarsi, per sempre condannata a quell’attimo
di indecisione.
La civetta non aveva nulla che potesse attirare l’attenzione:
non era di metallo prezioso, non era di fattura raffinata e di certo
non aveva alcun valore artistico , storico o affettivo. Non aveva
in realtà nulla di particolare se non una scritta incisa
sul dorso del libro che, a prima vista, sembrava poco più
che un graffio minuto, facilmente scambiabile per un difetto di
levigatura della pietra.
Non mi ero mai accorto della frase finché un giorno, cincischiando
con una lente di ingrandimento che usavo per il mio lavoro, il mio
sguardo, ingrandito dal provvidenziale effetto ottico, non cadde
proprio su quel punto dell’oggetto.
Non mi domandai, al momento, perché la lente si trovasse
in salotto invece che nel laboratorio e perché la mia attenzione
fosse stata attratta dalla civetta e non da mille altre cose; realizzai
solo più tardi che probabilmente una mano invisibile aveva
guidato i miei passi, conducendomi verso una meta sconosciuta.
A causa di quell’incisione la civetta era diventata un’ossessione
per me.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a rammentare come fosse giunta
a casa mia, se qualcuno me l’avesse regalata, e quando, o
se l’avessi acquistata io stesso da qualche parte e me ne
fossi dimenticato.
Stava lì da anni, nello stesso posto, come in attesa di qualche
cosa.
La cosa più curiosa era il colore della pietra nella quale
era stata scolpita: un grigio di volta in volta più scuro
o più chiaro secondo i giorni, indipendentemente dall’intensità
della luce solare e dall’illuminazione della stanza. A volte
la pietra diventava tersa come un cristallo levigato, altre volte
spessa e pesante come un pezzo di piombo, e tuttavia nessuna variazione
della trasparenza della roccia alterava mai la fierezza regale del
capo e l’orgoglioso distacco del volto.
Non avevo mai visto un’espressione simile in un uccello…
e sì che dovevo essere un esperto in materia!
Di professione facevo l’imbalsamatore di uccelli e conoscevo
le minime sfumature di ogni muscolo, tendine o piuma tanto numerosi
erano gli esemplari che erano passati dalle mie mani. Eppure quella
piccola statua sfuggiva a ogni classificazione del personalissimo
schedario mentale che mi ero fatto studiando per anni le espressioni
post mortem dei soggetti che trattavo. E sì che si trattava
di un oggetto inanimato e sarebbe dovuto essere in realtà
più semplice, perché l’artista in fondo copia
anche quando pensa di creare e non può immaginare una cosa
che non esista a priori in natura, men che meno nella riproduzione
di un uccello.
La cosa che più mi affascinava del mio lavoro, era proprio
la possibilità che mi era data della conservazione di una
parvenza di vita anche laddove vita non doveva più esserci,
ossia la capacità di preservare l’integrità
di un corpo dal potere distruttivo della putrefazione.
A differenza dell’artista io ero un artigiano contro natura
perché non creavo, non avevo immaginazione, non cercavo la
bellezza delle forme. Riparavo e ritardavo soltanto i guasti prodotti
da una legge troppo spietata: quella della dissoluzione implacabile
delle cose nel tempo.
Nella loro contraffazione della realtà i pittori potevano
dipingere un capolavoro e gli architetti elevare palazzi bellissimi,
ma tutti trattavano materia inerte, immobile, fredda, mai riscaldata
da alcun soffio vitale.
Io manipolavo cose che erano state accese dalla vita, che avevano
generato, respirato…volato fino a qualche istante prima che
giungessero a me e che forse conservavano ancora qualche piccola
molecola della forza che li aveva nobilitati.
Mai una volta, però, avevo spento una vita. Io non uccidevo
gli uccelli che imbalsamavo, lo facevano altri, fossero cacciatori,
bracconieri o commercianti. Io serbavo, prolungavo, custodivo ciò
che una volta era stato un bellissimo ricettacolo di un’anima,
quel frammento di luce divina presente anche nella più piccola
creatura vivente.
Ma si poteva impedire all’anima di abbandonare il corpo? E
il trapasso era tutto in questo repentino abbandono dell’anima
o si trattava di due cose diverse: da un lato un evento biologico
e meccanico di un corpo chiamato morte, e dall’altro un fenomeno
considerato impropriamente trascendentale e definito fine della
vita solo perché non riconoscibile dai sensi comuni? I vivi
avevano tutti un’anima e i morti no? E se l’anima era
davvero la forza che infondeva la vita, c’era una possibilità
di imprigionarla come mi era concesso imprigionare la carne?
Mi dicevo che avrei potuto capire di più se avessi avuto
il coraggio di sopprimere un merlo, una gazza … o una civetta,
ma sapevo che mai avrei stretto le mie mani sulle soffici piume
del loro collo, o adoperato l’arsenico e altri veleni per
uccidere. Io amavo troppo gli uccelli per fare loro del male. Mi
piacevano i loro corpi affusolati e leggerissimi, le ali , le esili
zampe artigliate, l’odore del piumaggio. Li consideravo quanto
di più nobile e aggraziato la natura avesse prodotto in milioni
di anni e invidiavo loro l’ebbrezza di cavalcare le correnti
e guardare il mondo dal cielo.
Gli antichi saggi dicevano che gli uccelli parlavano il linguaggio
dell’anima, forse perché lassù erano vicini
a Dio, forse perché erano in realtà angeli. Avevo
letto in una saga nordica che Sigfrido, dopo aver ucciso un drago,
aveva subito compreso il linguaggio degli uccelli conquistando l’immortalità;
avevo letto un passo illuminante del Corano che recitava “ullimna
mantiqat-tayri”, o uomini! siamo stati istruiti al linguaggio
degli uccelli; ricordavo che gli antichi indovini traevano auspici
dal volo e dal canto degli uccelli, e tutto ciò non faceva
altro che rafforzare il mio rispetto per queste magnifiche creature
celesti.
Sul bordo del libro, sotto gli artigli della civetta, c’era
scritta in realtà una frase che risaltava chiarissima ai
miei occhi, o almeno credevo che lo fosse, e così mi ero
ritrovato a Trieste.
Non ero mai stato in quella città e, nonostante questo, camminavo
a passo veloce nelle sue strade dalla bellezza austera, semiimmerso
in una leggera bruma opalescente, con la sensazione di essere del
tutto invisibile alla gente attorno a me perché nessuno,
mai una volta, aveva alzato gli occhi a guardarmi.
Soltanto un piccione, che mi ero ritrovato di colpo davanti ai piedi
e che per poco non avevo calpestato, aveva piegato lateralmente
il capo e mi aveva osservato col suo occhio giallo e rotondo, tubando
sommessamente.
Poi si era spostato dalla mia strada giusto lo spazio necessario
per permettermi di passare oltre, si era girato ed era andato via,
zampettando goffamente.
Strinsi nella mano la civetta che avevo portato in tasca e la sentii
ruvida e più calda del normale. Forse era stata scolpita
in una roccia vulcanica e assorbiva calore da ogni fonte possibile,
anche quella umana.
La piazza era…………… (Unita’ d’Italia)…..
Poi la vidi.
La civetta era lì, in tutto simile, tranne che nelle dimensioni,
a quella che stringevo ancora in mano. Sebbene………………..avevo
l’impressione che scrutasse un punto remoto, come se fosse
del tutto indifferente alle cose terrene alle quali sembrava non
appartenesse in alcun modo.
Sotto i suoi artigli, in quelle che sembravano macchie e minuscole
fratture del basamento, lessi chiaramente la stessa frase che era
scritta sulla mia civetta : Ti aspettiamo a Trieste.
Mi scossi solo quando un rumore attrasse la mia attenzione. Dapprima
fu un tuono lontano, come quello di un temporale che scuriva l’orizzonte,
poi andò aumentando progressivamente di intensità.
Non l’udivano altri oltre me, perché la gente continuava
a fluire intorno senza dare segno di essersene accorta.
E nessuno si era accorto che la civetta della fontana aveva assunto
la trasparenza del cristallo e pulsava di luce come un faro su uno
scoglio solitario.
Il rombo , ormai possente e come cadenzato dalla frequenza di un
battere d’ali, creava vibrazioni percettibili nell’aria,
mentre già sullo sfondo dell’orizzonte rossastro una
linea luminosa stava sospesa al limite tra mare e cielo.
La stria scintillate brulicava di infiniti tremolii e fascicolazioni,
di bagliori e lampi di luce dal colore cangiante, ora giallo, ora
viola, ora verde.
Emergendo ordinatamente dalla scia all’orizzonte, uno sterminato
stormo avanzava lento e solenne come un corteo nuziale regale, occupando
via via ogni porzione di cielo.
Mentre la torma si faceva più vicina, potevo distinguere
i contorni e le forme degli uccelli, vedere le loro dimensioni,
seguire i movimenti delle remiganti di cristallo purissimo dalle
quali scaturiva una musica dolcissima, come quella di mille arpe
pizzicate da mani invisibili.
Mi guardai un’ultima volta intorno. Nessuno guardava il cielo
e nessuno, tranne me, poteva vedere la meravigliosa moltitudine
che scivolava sopra la città.
Splendidi, nobilissimi, imponenti, gli uccelli catturavano lo sguardo,
la mente, il cuore. I raggi del sole attraversavano quei corpi diafani,
che non offrivano alcuna resistenza, e si dilatavano in miriadi
di arcobaleni sospesi nell’aria o riflessi nell’acqua,
nei tetti, nelle strade.
Gli uccelli volavano leggeri, indifferenti a tutto ciò che
scorreva sotto di loro; e io più li guardavo e più
confondevo i particolari dell’un corpo nell’altro, sicché
sembrava non ci fosse più alcuna distinzione fra colli, ali
e zampe sottili.
Un mare luminoso ondeggiava sopra la mia testa, increspato da flutti
e marosi traslucidi, profondo e illimitato. Non capivo più
dove fosse l’alto o il basso e dove finisse il mare d’acqua
e cominciasse quello di cristallo, tanto i due elementi erano compenetrati
fra loro e l’uno rifletteva l’altro, in un mistico gioco
di specchi.
Quello che mi era sembrato un rombo lontano, un vortice d’aria
tra le piume, ora non era un ronzio confuso ma una lingua che capivo
perfettamente. I suoni avevano un senso e una ragione, un ieri e
un domani.
Quanti erano i vivi e i morti? I vivi avevano tutti un’anima
e i morti no?
Reclinai la testa all’indietro e allargai le braccia quanto
più potevo.
Aspettavano me.
(Torna su)
Qualcuno come Umberto
<<Ho passato quasi cinquant’anni in quella
miniera a rosicchiare alla montagna ciò di cui era piena
: il sale .>> Umberto saluta distrattamente con la mano un
nuovo avventore e prosegue :<< Non avevo compiuto ancora diciotto
anni quando sono stato assunto. Allora toccava a noi pivelli penetrare
nei cunicoli laterali, staccare i pezzi di salgemma più grossi
e trasportarli nelle gallerie principali.>> Si fruga nelle
tasche della logora giacca di velluto marrone finché non
estrae un portafogli di cuoio. Le dite nodose afferrano con delicatezza
una fotografia sbiadita e me la mettono sotto il naso.
<< Eravamo così allora: vispi come grilli e affamati
come lupi.>>
La fotografia, ingiallita in più punti, mi mostra un gruppo
di giovanotti nudi con grossi sacchi di canapa sulle spalle assicurati,
questi, in cintola e in fronte da lacci di cuoio. Sorridono quasi
tutti, come se il peso che grava sulle loro schiene sia del tutto
trascurabile. Hanno volti più vecchi dell’età
anagrafica e corpi ossuti piuttosto che muscolosi. Qualcuno indossa
rudimentali perizomi, altri scarponi malandati o fagotti di stracci
ai piedi, quasi nessuno l’abbigliamento completo ; ma anche
così il fotografo è riuscito a trasfondere nella stampa
tutta la dignità che il lavoro duro conferisce. Intorno a
loro un angusto anfratto, dentro il quale riescono a stento a stare
in piedi, fatto soltanto di sale. Sembrano avvolti da una nuvola
e non chiusi nelle viscere della terra.
Umberto trangugia un sorso di vino e schiocca le labbra. <<
Laggiù faceva un caldo dell’inferno e la pelle, a contatto
col salgemma, diventava come quella dei rinoceronti.>>
Sorrido perché mi piace il paragone e gli do spago : <<
Ma lo hai mai visto un rinoceronte, tu ?>>
<< No, ma me lo immagino : così dev’essere. La
gola era sempre piena di quel maledetto sale e, per quanti sforzi
facessi, quel sapore non andava mai via. Lo sapete che all’epoca
il paese aveva circa settemila abitanti e contava più di
novanta cantine e rivendite di vino, dove noi minatori passavamo
gran parte del tempo libero ? La nostra sete era sacrosanta, per
Dio.>>
Mi appoggio sullo schienale della sedia e mi guardo attorno con
ostentazione. << Sembra che ce ne metta di tempo per essere
lavato via questo sale. Sono vent’anni che le Saline di Lungro
sono state chiuse ma le incrostazioni alle fauci devono essere rimaste,
a giudicare dalla quantità industriale di vino che ingurgitate
qui dentro.>>
L’osteria è piena di avventori nonostante l’ora
e piena di fumo di sigarette, ma l’atmosfera è anche
carica di quell’intimo senso di allegria e liberazione che
solo un posto come quello può offrire.
Umberto capisce che non ho intenzione di offenderlo ma replica serio
: << Il vino è il latte dei vecchi e io ho parecchio
bisogno di latte. Ma ditemi, cosa desiderate precisamente da me
?>>
Sorrido e, con una punta di amarezza, rispondo :<< Voglio
visitare uno di quei cunicoli.>>
Il vecchio minatore non ce la fa a trattenere una risata, spruzzando
goccioline di vino e saliva dalla dentiera. Se ne accorge e si tappa
la bocca con una mano. << Scusatemi, ma forse non vi rendete
bene conto della situazione. Come sapete la Salina è stata
chiusa vent’anni fa e non è rimasto più nulla.
Gli edifici amministrativi sono stati abbandonati al loro destino
e sopravvivono ormai solo muri decrepiti, perché i mattoni
non li hanno potuti rubare come hanno fatto con le finestre, le
porte, le tegole e perfino le mattonelle dei pavimenti. >>
Sospira. << Una triste fine. Mi piange il cuore pensare allo
stato di abbandono in cui versa. Gli ingressi alle gallerie sono
stati murati e le gallerie stesse saranno piene d’acqua adesso
o, peggio, piene di rifiuti industriali. La miniera ha sfamato intere
generazioni per secoli : ha dato pane, lavoro, benessere, solidarietà
a tutti gli abitanti della zona. Sapete che già ai primi
del ‘900 qui è stata inventata una specie di mutua
fra i minatori ? Tutti si tassavano un tanto al mese per aiutare
i colleghi che, per motivi di malattia, temporaneamente non potevano
svolgere il lavoro. La miniera è stata testimone di infiniti
piccoli eventi quotidiani ma anche di grandi tragedie.>> Rimette
con cura la fotografia dentro il portafogli e mormora :<<
E adesso ? Tutto finito, tutto dimenticato. Una parte di tutti quanti
noi è rimasta sepolta dentro la montagna.>>
Fa un gesto con la mano per chiudere il discorso. << Quello
che mi chiedete è impossibile.>>
<< Eppure un sistema per entrare ci deve essere. Io ho un
mio motivo per farlo, tu ne hai un milione.>>
<< Paghereste un milione solo per entrare là dentro
?>> Vedo che è interessato e ciò non fa che
confermare quello che già dentro di me sapevo. Umberto mi
farà guida, anche se adesso nicchia facendo l’indeciso.
Vuota d’un fiato il bicchiere e lo appoggia rumorosamente
sul tavolo.
<< Vi farò sapere>> conclude.
***
La notte è illuminata da una splendida luna piena. Mentre
Umberto si accanisce con antico vigore contro il muro di mattoni
eretto a chiudere uno degli ingressi della miniera, lo osservo con
un rispetto. E’ ancora forte per la sua età e sembra
che il contatto col piccone gli trasfonda nuove energie. Mio malgrado
lo rivedo giovane come nella foto a menare fendenti contro la roccia
ribelle e piegarla al suo volere. Suda ma non sembra particolarmente
stanco.
<< Alzammo in tutta fretta questo muro all’epoca, me
lo ricordo bene. Abbiamo usato pochissimo cemento perché
non vedevamo l’ora di finire e non c’era nessuno a controllarci.
Forse qualcuno di noi allora sperava che non si trattasse di un
addio definitivo, forse ognuno sapeva di lasciare un po’ della
propria vita là dentro e non aveva il coraggio di chiudere
per sempre il capitolo.>>
Comprendo benissimo i suoi sentimenti, quali dovevano essere allora
e quali sono ora, e provo un po’ di vergogna per me stesso.
E se non ho interpretato bene la situazione ? E se mi sono sbagliato
? Faccio bene a costringerlo ad abbattere questa parete ? Ripeto
a me stesso che lui fa il suo lavoro e io il mio, ma mi riesce difficile
soffocare un senso di pietà che non dovrebbe fare parte di
me. Ma ormai ci siamo spinti troppo lontano per tornare indietro
e tornare indietro non sarebbe comunque possibile.
Umberto riprende a picchiare forte contro i mattoni con ritmo regolare,
scandendo il tempo secondo un suo particolare orologio interno.
Anch’io ho un tempo da scandire, ma viaggia a velocità
diversa dal suo. Lui sembra quasi impaziente di terminare il lavoro
; io no, se fosse possibile aspetterei di più.
Infine la parete crolla lasciando un varco sufficiente ad attraversarla.
Lui si asciuga la fronte col dorso della mano ( quante volte ha
fatto quel gesto meccanico in passato !) e sbuffa :<< Uffà,
non ricordavo che un piccone fosse così pesante. Gli anni
passano, giovanotto, e ve ne accorgerete quando sarà già
troppo tardi.>>
Sorrido e annuisco. << Se è per questo è da
un pezzo che me ne sono accorto.>>
Umberto punta la pila sul mio volto e la tiene per qualche secondo.
Immagino che mi stia scrutando con attenzione dietro la luce che
abbaglia i miei occhi. Sento il suo respiro grosso arrestarsi per
un attimo. << Non so. Ho la sensazione che il vostro viso
non mi sia del tutto sconosciuto. E’ come, non so spiegarmi...
familiare. Come se in voi vedessi altre persone. Capite cosa voglio
dire ?>>
Non noto preoccupazione nella sua voce né paura , suppongo
che si senta in pace con la propria coscienza e quindi non ha motivo
di temermi. Oltretutto non è mia intenzione scatenargli la
paura anche se potrei farlo, sono un maestro nel genere. Molto meglio
per tutti e due se non ha paura di me.
<< Molti hanno questa sensazione quando mi incontrano >>,
lo rassicuro. << Il mio è un viso assolutamente comune,
di quelli che si ha sempre l’impressione di aver incontrato
da qualche parte.>>
<< Beh >> risponde lui, e illumina il foro. <<
Vogliamo entrare ?>>
Mi precede con passo sicuro dentro la galleria. Si muove ancora
con disinvoltura, come se non avesse mai smesso di andare su e giù
per quelle scale viscide. Dentro l’aria è satura di
odori indefinibili e sembra avere uno spessore e una consistenza
palpabili tanto è piena di umidità. La luce della
torcia elettrica la trasforma in una nebbia lattiginosa che ci avviluppa
e ci inghiotte.
<< Cosa volete vedere di preciso ? La scala scende per una
settantina di metri dopodiché cominciano le diramazioni per
le varie gallerie.>> Indica con la pila un punto lontano.
<< Di là un tempo c’erano i montacarichi ma si
sono portati via anche quelli.>> E’ emozionato . Sono
anni che non mette piede in questo posto dove ha trascorso gran
parte della sua vita e non credeva di doverlo rifare.
<< Andiamo giù >> lo invito. << Poi ti
spiego.>>
Mi suggerisce di appoggiarmi al corrimano e scendiamo. Giungiamo
in un’ampia sala semicircolare trasudante umidità da
ogni centimetro di parete. Qua e là sui muri vi sono chiazze
di muschio grigiastro, funghi, muffe. Per terra qualche sacco di
canapa abbandonato e quasi completamente marcito offre riparo a
una miriade di insetti spaventati dalla luce. Rotaie incrostate
di ruggine si perdono dentro i cunicoli che assomigliano a voraci
bocche spalancate.
Umberto ha un umanissimo momento di ripensamento. << Non pensavo
che la mia miniera potesse farmi questo effetto : mi fa venire i
brividi. Credo che anche voi ne abbiate abbastanza, torniamo indietro
?>>
<< Voglio entrare in quella galleria, voglio vedere il salgemma
>> gli rispondo in tono tranquillo. So che non può
rifiutare, ma non c’è nulla di male se aggiungo : <<
E quel milione raddoppia.>>
Allarga le braccia. << Sta bene, andiamo. Speriamo che i tunnel
non siano stati invasi dall’acqua.>>
Si avvia nella direzione che gli ho indicato con passo reso più
pesante dalla carenza di ossigeno e imbocca la galleria con decisione.
Ora le pareti attorno a noi non sono più scure e amorfe.
Il sale riflette un chiarore diffuso e i cristalli colpiti in pieno
dai raggi di luce scintillano come migliaia di lucciole. Umberto
non sembra accorgersene. D’un tratto è ritornato il
giovane minatore che percorreva in fretta quel tratto di strada
che lo divideva dal lavoro senza avere il tempo per badare ad altro,
meno che mai alla poesia dei cristalli. Il tempo ! Quanto può
essere breve o lungo un attimo ! Lo rivedo con la pelle da rinoceronte
coperta di piaghe, le labbra screpolate e le strie di sangue dove
i legacci del sacco affondano nella pelle. Non si è reso
ancora conto della situazione, ma anche questa è opera mia
perché non è ancora giunto il momento.
Arriviamo a un punto di snodo, dove la galleria si dirama in tanti
altri svincoli laterali.
<< Non è affar mio >> mi domanda << ma
si può sapere cosa cercate qui dentro ? Non avete visto abbastanza
?>>
<< No, non ancora. Io ho già trovato quello che cerco
e ho già visto quasi tutto. Ci resta soltanto da visitare
quel cunicolo laggiù.>>
Umberto alza un sopracciglio. << Quello ?>> Si tocca
la tasca della giacca e fa per aggiungere qualcosa. E’ titubante,
ma gli basta guardarmi per tranquillizzarsi. << Sapete una
cosa ? Anch’io voglio visitarlo.>>
Si avvia senza esitazione e ora quasi fatico a tenergli dietro.
Cammina senza voltarsi indietro perché sa che gli sono alle
costole, che non potrei più allontanarmi da lui.
<< E’ accaduto qui >> sussurra. << Proprio
in questo punto la volta è crollata e li ha seppelliti tutti
quanti. Io mi sono salvato perché ero tornato indietro a
prendere dell’acqua. Li hanno tirati fuori dopo un paio di
settimane : il sale aveva conservato i loro corpi e li aveva trasformati
in una specie di mummie. E’ questo che volevate vedere, no
?>>
Trae dalla tasca la fotografia che mi ha mostrato nella bettola.
<< Mi sembra ieri. Antonio, Riccardo e gli altri , eravamo
come fratelli. Li ricordo bene tutti quanti, uno per uno : bravi
ragazzi, così giovani. >>
I suoi occhi mi fissano senza astio, senza timore ; poi cominciano
a perdere di vitalità. Ormai ha capito.
<< Grazie per avermi portato qui, grazie per avermi concesso
questo onore.>>
Respira a fatica, adesso.
<< Li vedo, sapete ? Li sento anche. Sono tutti qui intorno
a me, li vedo sovrapporsi uno dopo l’altro sul vostro viso,
signore. Mi era familiare, lo sentivo.>>
Ormai è supino per terra, semi immerso in una pozza d’acqua
salata.
<< Grazie ancora >> mi sussurra. << Qui ! Qui
! Non in un letto di ospizio o di ospedale.>>
Mentre lo prendo con me, contento per gli attimi di gioia e di pace
che gli ho donato, penso a quanto è complesso l’animo
umano. Tutti hanno paura di me, mi evitano, mi sfuggono eppure mi
costringono ad agire . E’ consolante sapere che ogni tanto
c’è qualcuno come Umberto che capisce e mi ringrazia.
(Torna su)
La chiesa
La piccola porta si aprì, cigolando rumorosamente
su cardini che avevano urgente bisogno di essere oliati.. Era in
parte consunta dall’umidità, il legno aveva un sentore
di marcio e gli antichi chiodi di rinforzo che ne contornavano i
bordi erano corrosi dalla ruggine. La porticina, ricavata nel portale
della cattedrale, era modesta come erano modesti coloro che l’utilizzavano.
La cattedrale aveva certamente conosciuto tempi migliori: nobili
e re ne avevano varcato il portale con ali di cortigiani al fianco,
in pompa magna; vescovi e cardinali vi avevano celebrato funzioni
solenni e memorabili; antichi cavalieri al servizio di Cristo vi
avevano cercato conforto e nuove energie per le loro imprese, mentre
le dame, nei loggioni superiori, li occhieggiavano ardenti.
Io ero solo quando varcai quella porta e degli splendori antichi
non vi era più alcuna traccia. Il tempo aveva consumato tutto:
le vite si erano spente come le candele che avevano annerito i muri
nel corso dei secoli, i drappeggi preziosi e gli ori erano stati
trafugati più volte, le decorazioni e i legni più
volte bruciati e ricostruiti.
Il tempo aveva consumato tutto, tranne la pietra, risparmiando così
il genio dell’architetto che aveva progettato la cattedrale
e il lavoro di intere generazioni di scalpellini e carpentieri che
si erano avvicendati nella costruzione.
Tutto era svanito tranne il messaggio e il mistero che la chiesa
racchiudeva in sé.
Con la mano appoggiata sulla porta, ormai del tutto spalancata,
mi fermai ancora un istante a respirare profondamente, come colui
che è in procinto di immergersi nell’acqua.
Dentro non vi era nessuno.
Lo scalpiccio dei miei passi echeggiava sugli archi e sulle volte
aggraziate e snelle, rimbalzava sui fianchi nudi delle colonne di
pietra, scindendosi in mille sussurri, e dava il tempo al mio cauto
procedere verso il centro.
“ La pietra è la materia più vicina a Dio, perché
è stata creata prima di ogni altra cosa, prima degli animali,
delle piante, degli uomini. La pietra, con le sue asperità,
con la sua durezza, con la sua vita eterna e con il lavoro che è
necessario prodigare per levigarla, è la materia più
prossima al Creatore. La pietra ha vibrazioni particolari, ha risonanze
che si accordano con la nostra eco, è sostanza e forma in
sé: sta all’uomo scoprire ciò che contiene in
potenza e di cui può farci dono”, così pensavo
mentre, nella penombra, cercavo di individuare un punto preciso
nelle parete settentrionale. Intanto, ruotando gli occhi, mi accorsi
che i miei passi mi avevano condotto sopra un labirinto che l’ignoto
architetto aveva voluto nel pavimento dell’ingresso. Era in
marmo nero, bianco e rosso e si snodava secondo una schema circolare,
fatto di numerosissime linee e curve fittamente intrecciate, che
sembravano tutte prendere vita e diramarsi da un unico punto centrale.
Vi era di certo un significato in quei colori, un significato che
non conoscevo. Intuivo, invece, l’essenza di quel labirinto:
molte sono le strade che possono intrecciarsi nella vita dell’uomo,
e che possono trascinarlo e perderlo; ma una sola è quella
giusta da seguire, quella che conduce a Dio.
Non sapevo dove mi avrebbero condotto le strade che stavo percorrendo.
Non sapevo se mi avrebbero condotto a qualcosa, non sapevo bene
neppure perché mi trovassi là in quel momento, se
per curiosità, superstizione o altro.
Alzai gli occhi e vidi l’altare a oriente: era spoglio come
tutta la cattedrale, tranne che per un drappo che lo rivestiva in
parte, ed era sormontato da un grande crocifisso di legno. Il Gesù
che vi era dipinto sembrava un’ombra che si confondeva col
legno, tanto erano sbiaditi i colori. Aveva braccia abnormemente
lunghe rispetto al corpo, la bocca aperta in una smorfia di dolore,
il corpo rinsecchito, quasi evanescente.
Mentre camminavo verso la parete nord, ripensai ancora una volta
agli avvenimenti del giorno prima.
Mi ero imbattuto nel piccolo negozio di libri mentre mi aggiravo
per la città in cerca di un cinema. Ero giunto in città
il pomeriggio perché l’indomani avevo un importante
appuntamento di affari e, per trascorrere qualche ora, non avevo
pensato di meglio che guardare un film. La vetrina diffondeva una
luce calda e invitante e io non so resistere alla tentazione delle
librerie. Mi piace l’odore dei libri, mi piace vederli riposti
ordinatamente negli scaffali, mi piace sfogliarli immaginandone
i contenuti, gustarli, leggerli e rileggerli.
Immagino di amare i libri perché non hanno mai fatto male
a nessuno, anzi , il contrario. I libri educano alla vita, i libri
danno sapore alla vita, i libri istruiscono alla vita, mentre io
ero un venditore di morte. Armi, munizioni, gas tossici, mine antiuomo.
Il contrabbando gonfiava le mie tasche di soldi, tanti più
di quelli che avrei potuto spendere in una vita intera, e il giorno
successivo in una banca panamense il gruzzolo sarebbe diventato
ancora più pesante.
Non so perché presi in mano un libro che trattava di cattedrali
e luoghi sacri; ed ero così intento a osservare le fotografie
di cui era corredato, che non mi ero accorto di avere qualcuno accanto
a me.
- E’ un libro molto illuminante – disse una voce.
Mi girai. Era un uomo sulla cinquantina, baffuto, occhiali rotondi
e un’espressione di aperta cordialità.
- Confesso di non aver mai letto nulla sull’argomento –
risposi cauto. Diffidavo sempre degli sconosciuti, soprattutto di
quelli che mi avvicinavano e attaccavano discorso.
- Ve ne sono molti altri su questo genere , ma questo è il
migliore – proseguì. - Sapete perché? Perché
svela che le cattedrali, le chiese, i cosiddetti luoghi sacri, non
sono solo luoghi, sono anche persone: quelle che vi hanno lavorato,
inciso , tagliato, scalpellato e cementato affinché l’opera
fosse compiuta. Sono coloro che hanno offerto sacrifici o hanno
semplicemente pregato nei templi, che hanno pianto e festeggiato,
che qui sono passate e morte nel corso dei secoli. Ogni pietra di
una cattedrale ha memoria di ciò.
La diffidenza aveva presto lasciato il posto alla curiosità
e attesi che lo sconosciuto proseguisse.
- Oggi usano mattoni e cemento armato e magari copiano i progetti
su manuali da quattro soldi, gente senz’anima che edifica
costruzioni senz’anima. Non crede anche lei che sia così?
- Per la verità non me lo sono mai chiesto, tuttavia suppongo
che sia questione di sensibilità personale.
- Non solo, è soprattutto questione di modelli di vita. Oggi
viviamo nella società della negazione, del commestibile.
Ogni concetto che produce una negazione viene accettato e condiviso
dalla massa. Soffermarsi è male, correre nella notte è
giudicato positivo: siamo come una carpa alla quale è stato
sottratto il sasso attorno al quale girava nello stagno. Sa che
le carpe crescono più robuste se hanno un sasso di riferimento?
Ecco, guardi qui.
Prese un libro dallo scaffale e disse: - Ecco cosa scrive a questo
proposito Elémire Zolla: “ Occorre proporsi un rinnovamento
costante per giungere ad un’apertura spregiudicata a tutte
le istanza progressive, accettando una situazione precaria e feconda
in un’incessante ricerca collettiva delle possibilità
di sviluppo e di crescita, spezzando le remore, rovesciando le strutture
acquisite rivoluzionando le forme accettate per aprire nuovi orizzonti
d’indagine, sollecitando i contributi costruttivi a un ridimensionamento
che metta in crisi e categorie e le abitudini, protendendosi verso
esperienze sociali sempre nuove in una accettazione consapevole
delle inquietudini… bla bla bla ”. Sa che cosa ha di
caratteristico questa frase, dice Zolla? Che si può leggere
da qualsiasi punto a qualsiasi punto senza perdere assolutamente
nulla: è una filastrocca che dice tutto e niente, proprio
come tante cose della moderna civiltà.
L’uomo sospirò, posò il libro e si diresse verso
l’uscita.
- Le cattedrali sono la casa di Dio, non importa come vengono costruite
– dissi io.
La mano già sul pomello della porta, l’uomo si fermò
e si voltò lentamente.
- Davvero? – Replicò sorridendo. – C’è
una certa chiesa qui, in questa città, e domani è
il solstizio d’estate, il momento giusto per visitarla. Vi
consiglio di farlo a mezzogiorno in punto e osservare la parete
nord.
Mi diede l’indirizzo della chiesa e se ne andò.
Era ormai mezzogiorno e io osservavo la parete nord della chiesa,
in attesa di non sapevo cosa. Mi sembrava tutto una follia, una
stravaganza, un delirio; ma questo delirio mi aveva impedito di
recarmi a intascare il denaro, proprio a mezzogiorno, molto lontano
da lì. Era stata la voce dell’uomo, qualcosa nel suo
viso, una improvvisa oppressione a costringermi a disertare l’appuntamento,
ma sentivo fortemente che per me era necessario trovarmi là
in quel momento.
Un raggio di luce perforò improvvisamente la penombra, tracciando
una scia di pulviscolo scintillante. La luce penetrava da un foro
della parete meridionale, attraversava obliquamente tutta la chiesa
e colpiva un punto della parete nord. Avvicinandomi vidi che si
infrangeva su una pietra diversa da tutte le altre, bianchissima
e levigata a specchio. Avevo la sensazione che il chiarore andasse
aumentando man mano di intensità, e che la luce esterna fosse
solo una specie di “innesco” per una luce ben più
intensa che scaturiva dalla pietra. Mi sembrava di essere nel pieno
del cono di emissione di un faro e che tutta la mia persona ne fosse
avvolta. Avevo gli occhi aperti, ma la luce non mi dava fastidio.
La pietra cominciò a pulsare in sincronia col mio cuore e,
a ogni pulsazione, vedevo cose, persone, scene prendere vita dalla
pietra. Osservavo gli avvenimenti svolgersi come i fotogrammi di
un film, lenti, intervallati da pause più o meno lunghe,
in rapporto col battito nel petto.
Il menhir era levigato e bianchissimo e il sacerdote, il capo e
i fianchi cinti da piume di pavone, sgozzava le vittime sacrificali
con un coltello di ossidiana e spruzzava con le dita il loro sangue
sulla pietra. Una litania lontanissima, lenta e solenne, aleggiava
nell’aria.
<< Io sono Iside, quella che è, che è sempre
stata e sempre sarà>>. Il volto della dea, scolpito
nella pietra eburnea, era dolcissimo e sereno. La dea si ergeva
sulla sabbia, la veste ornata di rose, delfini, salamandre, ibis
e leoni ai suoi piedi.
La litania si era fatta più vicina e le voci più possenti.
La statua di Iside si crepò in più parti, il volto
gigantesco si dissolse in un fiume di sabbia che mi sommerse fin
sopra la cintura.
L’ara di pietra bianchissima era abbastanza grande da coricarvi
sopra il toro stordito dall’issopo. Con mano sapiente lo ierofante,
che recava gli emblemi solari di Mitra, affondò il coltello
nella gola della bestia, ne recise le arterie e fece colare il sangue
che ne sgorgava sulla grata sotto l’altare, a bagnare gli
adepti che erano raccolti in preghiera nell’antro sotto di
essa.
Le loro voci si unirono alla litania che risuonava sempre più
forte.
Le visioni adesso scorrevano velocemente e si confondevano e si
mischiavano le une alle altre, mentre il mio cuore batteva all’impazzata.
Lo sentivo agitarsi furioso nel petto e stringermi la gola, ma mi
era impossibile staccarmi dall’incanto della pietra.
Vedevo lunghe file di gente camminare, vedevo un ondeggiare di fiaccole
e bandiere, vedevo schiene nude e sudate piegarsi sotto le sferze,
vedevo catene, fumi, roghi, incendi.
Al centro della pietra, nel nucleo stesso del suo fulgore, un punto
nero aveva preso corpo e cominciava a oscurarne la luminosità,
catturando la luce in un vortice scuro.
Vidi colonne bianchissime cadere spezzate, templi spazzati via come
fuscelli al vento, la chiesa sgretolarsi e cadere attorno a me e
la sabbia che mi avvolgeva trasformarsi in un fiume di sangue vischioso.
La litania era una selva di urla oscene, imprecazioni, bestemmie
e risate sguaiate. Tutto vorticava e si liquefaceva nel nero a velocità
insopportabile. Mi portai le mani al petto e gridai con quanto fiato
mi restava in corpo:<< Dio mio! >>
La mia voce rimbalzò sulle colonne, sugli archi, sulle volte
come una cosa viva; e le pietre ne colsero le vibrazioni e le amplificarono
in intervalli musicali: intervalli di quinta, armonie, proporzioni,
segmenti aurei e contrappunti diatonici. Canti gregoriani diedero
riposo alle mie orecchie.
Mi sentii cadere, ma venni trattenuto da due braccia strette intorno
a me.
Seppi subito di Chi erano.
Labirinti: mille strade che portano a una sola strada.
Riuscii a voltarmi per un istante, prima di perdere i sensi. La
chiesa stava ritornando nell’ombra e, nel crocifisso, solo
gli occhi di Iside - Mitra - Gesù, mandarono un ultimo bagliore
prima che perdessi conoscenza.
L’infarto non mi aveva ucciso. Qualcuno mi aveva
trovato supino sul pavimento della chiesa e aveva chiamato aiuto.
Seppi tutto questo qualche giorno più tardi, quando ripresi
conoscenza nella sala di rianimazione dell’ospedale.
Tempo dopo cercai ancora la chiesa e il negozio di libri, ma non
trovai più né l’uno né l’altra.
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NEI
PRESSI DEL TAURO
Perché mi trovavo là? Sarebbe troppo lungo da spiegare.
Posso solo dire che avevo dilapidato l'intero patrimonio di famiglia
, l'amore di mia moglie e dei miei figli, trascurato ogni amicizia
e affetto per giungere dov'ero. Avevo interrogato i più famosi
occultisti del mondo, setacciato biblioteche e collezioni private,
seguendo minuziosamente ogni traccia che servisse a rischiarare
la strada. Avevo percorso in lungo e in largo tre continenti finché
avevo scovato, sulle montagne del Tauro, l'unica persona al mondo
che deteneva il segreto. Non mi rimaneva più nulla, solo
il mio corpo afflitto dalla scabbia e scorticato per il furioso
prurito. L'addome, i gomiti, i genitali erano costellati da lunghe
linee di pelle rossa ed escoriata.
Il vecchio sdentato e lercio che rimestava con un paiolo di legno
una sostanza collosa dentro una pentola di rame, era l’unico
che conoscesse che il segreto della trasmutazione dei metalli. Egli
poteva fabbricare l'oro! Non era stato tanto il desiderio di ricchezza
in sé che mi aveva condotto dentro quel tugurio, ma la sfida
e gli sguardi condiscendenti di tutti coloro che mi credevano non
più sano di mente. Volevo dimostrare a me stesso e a tutti
quanti che nulla mi era impossibile.
Il vecchio mi guardò e disse : - E' un cattivo segreto. Nessuno
è mai stato felice, dopo. Affondai le unghie lunghe e nere
nelle mie carni, lasciandovi solchi sanguinolenti e trovando momentaneo
sollievo al prurito. Riuscii a sogghignare. - Io lo sarò!
Il vecchio sospirò. Mi consegnò un pezzo di piombo
e disse: - Allora immergi qui dentro la mano che stringe il piombo.
Obbedii e, quando la estrassi, il piombo era diventato un pezzo
d'oro. Il vecchio scivolò via dal tugurio senza che me ne
accorgessi : non badavo più a lui, avevo ormai altro da fare.
Finalmente il segreto della Pietra Filosofale era mio! Mi asciugai
una lacrima di felicità ... che tintinnò allegramente
ai miei piedi. Una brillante goccia d'oro. Anche la guancia che
avevo toccato era diventata d'oro, così come tutto ciò
che sfioravo. La mitologia diceva che un certo Re Mida, che aveva
regnato nei paraggi, un giorno aveva subito un supplizio simile.
Bisognerebbe sempre credere alle leggende. Solo che per me era troppo
tardi. Resistetti all'impulso di mordermi le dita dalla rabbia.
Avvertii un formicolio correre lungo la schiena. Sentivo un esercito
di formiche sul petto, un plotone di moscerini sulla pancia, un
camion di piume di struzzo dentro i pantaloni. In nome di Dio, per
quanto tempo ancora sarei riuscito a non grattarmi?
(Torna su)
URUS
Non tornavo a Rugadiali da più di vent’anni,
da quando cioè era morto mio padre e la famiglia si era trasferita
altrove. Non avrei mai immaginato, allora, che un giorno vi avrei
fatto ritorno per prendere possesso di un palazzo che, per una serie
di circostanze, avevo ricevuto in eredità. Il palazzo, molto
antico, si ergeva a lato della piazza principale del paese ed era
appartenuto per generazioni a una famiglia nobile del posto, caduta
in disgrazia subito dopo la seconda guerra mondiale. Il palazzo
aveva subito lo stesso sfacelo della famiglia e versava in uno stato
di penoso abbandono. In effetti non ricordavo di avervi mai messo
piede dentro durante gli anni che avevo trascorso in paese, quelli
dell’infanzia, e non avevo mai sentito che qualcuno dei miei
compagni di giochi lo avesse fatto. Della sua manutenzione, limitata
perlopiù alla sostituzione di qualche tegola rotta o alla
riparazione di qualche finestra dal legno marcio, si era occupato
un vecchio fattore che aveva servito la famiglia nei tempi dello
splendore e che aveva continuato a farlo fino alla morte dell’ultima
padrona la quale, d ’altronde, aveva trascorso gran parte
della sua vita lontano da lì. L’ edificio conservava
ancora le vestigia dell’antica opulenza. Era in posizione
privilegiata rispetti a tutti gli altri caseggiati e alcuni fregi
dei cornicioni erano sopravvissuti al tempo e alle intemperie, così
come qualche cornice delle finestre e del portone. Le ringhiere
dei balconi , in ferro battuto, erano lavorate secondo complicati
ghirigori che la ruggine non aveva del tutto corroso.
Ero arrivato in paese sul far della sera, con una piccola borsa
da viaggio in mano, l’indirizzo del fattore, che di nome faceva
Andrea, in tasca e il desiderio di ripartire al più presto,
appena terminato il sopralluogo per quantizzare l’entità
dell’eredità. Andrea si rivelò un uomo allegro
e pronto alla battuta di spirito, curvo di spalle e con una fila
di denti finti, gialli e consumati. Si offrì di buon grado
di accompagnarmi dentro il palazzo per mostrarmi tutto ciò
che c’era da vedere, ma lo avrebbe fatto l’indomani
mattina perché ormai era buio e vi erano delle stanze che
non avevano un impianto elettrico efficiente. Per quella sera sarebbe
stato sufficiente per me sistemarmi in una delle camere meglio conservate
al primo piano, giacché in paese non esistevano alberghi,
e a casa sua non aveva proprio spazio per ospitarmi.
- Io ero molto amico di suo padre, quando abitava qui – mi
rivelò Andrea,
mentre mi faceva da guida lungo le viuzze del paese – Giocavamo
spesso a
bocce insieme al parroco e il professor Ferdinando. Mi ricordo anche
di voi,
signore, anche se allora eravate appena un ragazzo.
Aprì il portone di casa e mi pilotò lungo una serie
di stanze quasi del tutto spoglie, tranne che per qualche mobile
decrepito. Attraversammo a passo rapido un vecchio salone in cui
troneggiava una bellissima e vecchissima stufa di mattoni e ceramica,
ricca di nicchie e scomparti, e penetrammo in uno studio dove vi
erano una scrivania di ciliegio miracolosamente intatta, su cui
erano poggiati disordinatamente molti volumi, e una libreria. I
libri non dovevano essere stati, fortunatamente, merce preziosa
per Andrea ed erano stati così risparmiati da repentine trasmigrazioni
di mano in mano. Mi ripromisi di dar loro un’occhiata il giorno
dopo. Giungemmo, infine, in una stanza che dava sulla piazza e che
era arredata con un letto , un comodino e una lampada.
Ringraziai Andrea per la sua disponibilità, dandogli appuntamento
per il giorno successivo.
Rimasi solo in casa proprio mentre scendeva la notte.
Ero rimasto di ghiaccio nell’apprendere che in paese non c’erano
alberghi, perché fino a quel momento non avevo fatto i conti
con me stesso: io ho una sciocca ma inesorabile paura del buio!
Ero, per il resto, una persona assolutamente razionale, facevo un
lavoro che dva pochissimo spazio al sofismo, l’ingegnere,
e mi davo del cretino ogni volta che mi trovavo solo nel buio. Però
era più forte di me. Non potevo impedirmi di immaginare il
buio popolato da esseri immateriali, oscure presenze, larve, ectoplasmi,
spiriti e fantasmi pronti a gettarsi su di me. Era come se in me
coabitassero due personalità: una diurna, logica e scientifica
e l’altra, notturna, superstiziosa e irrazionale.
A volte pensavo che l’una non poteva esistere senza l’altra,
ma non era una sensazione piacevole, di notte, sussultare nel letto
a ogni rumore e svegliarsi madido di sudore ogni quarto d’ora.
Non so cosa avrei dato, in quei momenti, per essere un idiota incosciente,
stupido ma certamente più felice. Di notte , per me, aprire
una porta che dava sul buio era fonte di estrema inquietudine, non
parliamo poi di una porta in un palazzo antico dove mettevo piede
per la prima volta!
“ Scemo” dicevo a me stesso mentre saggiavo la consistenza
dell’uscio e delle finestre, attento a imprimermi nella memoria
gli scricchiolii del legno per confrontarli con quelli che certamente
avrei sentito durante la notte e verificavo la presenza di buchi
di tarli, fonte di angosciosi crepitii nell’oscurità.
Non appena terminai la meticolosa preparazione del cantuccio dove
riposare, messomi a letto, cominciò la frenetica attività
della casa. Dapprima udii uno scalpiccio di piccole zampe lontane,
frettoloso e confuso. Alle prime zampe se ne aggiunsero dieci, cento
altre e parvero camminare sul soffitto, sui pavimenti, dentro i
muri. Qualcosa iniziò a sbattere da qualche parte sopra di
me, nonostante non vi fosse un alito di vento, e a ogni colpo il
cuore mi balzava nel petto, paralizzandomi nel letto. Mi si presentò
il solito dilemma se spegnere o no la luce: con la luce accesa e
il conforto degli occhi avrei potuto controllare in ogni momento
ciò che mi accadeva intorno, ma cosa sarebbe accaduto se
mi fossi addormentato e, svegliandomi di colpo, avessi visto qualcuno
o qualcosa chino sul mio letto, intento a osservarmi?
Mi alzai e trovai rifugio nella finestra. Fuori vi era la realtà
vera e oggettiva e là avrei trovato sollievo. Nonostante
la temperatura fosse piacevole, la piazza era deserta Probabilmente
nessuno aveva più l’abitudine di uscire di casa dopo
cena, come mi ricordavo accadesse vent’anni prima. Osservando
meglio mi accorsi, però, che c’era qualcuno. Sotto
un lampione vi era un ragazzino, con le mani in tasca, che guardava
nella mia direzione. Non appena i nostri sguardi si incrociarono,
mi accorsi che non si trattava affatto di un ragazzino perché
i suoi tratti somatici erano quelli di un nano. Le sue labbra si
piegarono in un sorriso enigmatico quando cacciò fuori la
mano dalla tasca e mi mostrò qualcosa che mi parve un crocifisso
di metallo. Sembrava che da esso si sprigionassero delle faville.
Rabbrividii e mi allontanai dalla finestra, poggiandomi con la schiena
contro il muro e respirando con difficoltà. Il tempo sembrava
essersi fermato in quel paese: Non passava un’automobile per
strada, non un rumore, non un segno di vita, neppure uno stormire
di foglie. Sentii soltanto dei passettini che si allontanavano velocemente
dalla piazza e una risatina chioccia e, quando mi riaffacciai, il
nano era scomparso.
Riuscii a prendere sonno solo sul far del giorno.
***
Andrea si fece vivo in mattinata, portando con sé dei biscotti
che aveva fatto la moglie, e si disse pronto a mostrarmi ogni angolo
del palazzo. - Il piano superiore l’abbiamo già visto
ieri sera. – mi disse. – Ora vi condurrò agli
altri piani, nelle cantine e nei sotterranei. Era armato di una
grossa torcia elettrica. – Vi sono alcune zone molto buie
, là sotto.
I muri delle cantine erano in pietra, massicci e imponenti, e concepiti
secondo una ininterrotta trama di archi e colonne cosicché,
una volta scesa la scala, si poteva avere una visione d’insieme
di tutto il ventre del palazzo. Qua e là giacevano botti
di legno, alcune squarciate altre ancora intatte, ricoperte di polvere
e ragnatele. Vi erano vecchi mobili accatastati, travi spezzate,
materiale di deposito, arnesi arrugginiti e , su tutto, un’aria
di estremo abbandono, umida e pesante.
– Qui raramente ci mette piede qualcuno – mi spiegò
Andrea. – D’altra parte vi è ben poco da fare
quaggiù, oltre che uccidere topi e scarafaggi.
Mi sembrò di cogliere una nota di piacere nelle sua voce
e mi parve sorridesse, ma non ebbi il tempo di appurarlo perché
egli accelerò il passo pilotandomi verso un angolo della
cantina. Solo quando fummo vicinissimi mi accorsi di essere di fronte
a una robusta porta di quercia. Dietro di essa partiva una scala
di pietra che scendeva ancor di più in profondità.
Istintivamente mi ritrassi.
- Non abbiate timore, ingegnere. Seguitemi, - mi invitò il
fattore.
I gradini erano ricoperti da un tappeto di muffa, erano scivolosi
e non vi era corrimano. Sotto era buio pesto. Il cuore riprese a
martellarmi nel petto. Mentre Andrea scendeva sicuro, fischiettando
tra i denti, io mi appoggiai con la mano sulla parete, come se il
contatto con la pietra valesse a rassicurarmi. La mano toccò
qualcosa di umido e viscido. La ritrassi con un grido. Il cono luminoso
della torcia descrisse un arco dal basso verso l’alto.
- Sono funghi, - mi tranquillizzò Andrea, inquadrando prima
la mia mano e poi una massa informe di cappelle violacee.
Finalmente sceso di sotto, alla limitata luce della torcia, potei
vedere una piccola parte del sotterraneo e immaginare il resto.
Il sotterraneo era scavato nella roccia viva e i pilastri che anche
qui ne costituivano la trama di sostegno, erano scolpiti direttamente
su essa. Andrea attraversò con una certa sicurezza una selva
di massi, anfratti , recessi oscuri e blocchi di pietra lavorata
che qua e là delimitavano ancora il perimetro di antichissimi
locali.
- Attento qui - mi esortò. – Statemi vicino e mettete
i piedi dove li
appoggio io.
Davanti a noi si apriva una larga fessura nel terreno,
che affondava nelle viscere della terra.
- Nessuno ha mai esplorato tutti questi anfratti. In effetti queste
grotte si snodano per chilometri nel ventre della montagna sopra
la quale è edificato il paese. Si racconta che un tempo qui
sotto vi fosse un covo di briganti e che ci sia nascosto un tesoro.
Altre leggende parlano di animali orrendi e apparizioni sovrannaturali
emersi dalle caverne più oscure ma, naturalmente, sono solo
le solite storie di paese ispirate dalla particolarità del
luogo e dalla superstizione. A me quaggiù non è apparso
mai nulla oltre agli insetti.
Avevo la gola secca e un’oppressione al petto. Ripensai ai
rumori, alle voci, ai sospiri che avevo udito la notte precedente
ed ebbi un senso di vertigine al solo pensiero di trascorrere un’altra
notte in quella casa costruita sugli abissi.
- Siamo arrivati – stava dicendo Andrea. – Ora vi mostro
qualcosa di veramente particolare. Il fattore si era fermato davanti
a una piccola stanza in mattoni eretta tra due arcate di pietra.
Lo seguii dentro. Il fascio di luce illuminò una porticina
al lato opposto della stanza. Era una porticina di metallo ossidato,
altra poco più di un metro, liscia e rinforzata da chiodi
di ferro posti a file regolari, murata nella roccia. - Ecco cosa
ha ispirato, secondo me, la storia del tesoro. L’ultimo padrone
che ha abitato qui, don Alfonso, la fece divellere per vedere con
i propri occhi cosa si celasse dietro, sebbene già tutti
in famiglia sapessero che non vi fosse assolutamente nulla oltre
la pietra.
- Una porta murata nella roccia? – Domandai. – Ma a
che scopo?
- Chi lo sa? So solo che don Alfonso, dopo aver verificato personalmente
l’ inutilità di perderci altro tempo, la fece rimettere
a posto, fece costruire questa piccola stanza di mattoni attorno
a essa e non ne volle più sapere. – Andrea ridacchiò.
– Non mi chiedete il perché di questa stanza che, come
vedete, non ha a sua volta porta . Don Alfonso era un po’
strano, morì in manicomio.
Un movimento della torcia mi fece scoprire una cosa che mi era sfuggita
in precedenza. Sulla parte superiore della porta vi era scolpita
una parola : URUS.
- E quella scritta? - Domandai.
- Ma… Io non conosco il latino, ingegnere. Se volete saperne
di più potete domandare al professor Ferdinando; sapete,
quello che giocava a bocce con vostro padre.
***
Il professore mi studiò con attenzione. Era piccolo ma tarchiato,
con radi capelli bianchi pettinati all’indietro e uno sguardo
vivace dietro le lenti da presbite.
– Sicché siete il figlio del caro ingegner Orsini e
ingegnere anche voi come vostro padre? Ah, quanto soffrii per la
sua morte prematura! Eravamo molto amici, sapete? Avrete certamente
visto qualche fotografia che ci ritrae insieme nel vostro album
di famiglia; intendo me e lui , il parroco e don Alfonso Cappelli.
Eravamo inseparabili, all’epoca.
- Ora che ci penso, sì – confermai, andando con la
memoria alle foto sbiadite che di tanto in tanto guardavo. Mio padre
era stato un appassionato di fotografia.- Ho visto qualche fotografia
che ritraeva mio padre insieme a un prete e altre persone.
- Sicché voi avete ereditato il palazzo dei Cappelli? Questa
è un notizia che mi rende lieto, anche se non immagino attraverso
quali misteriose vie notarili sia infine giunto a voi. – Il
professore scrollò le spalle. – Comunque queste cose
lasciamole ai notai. Posso fare qualcosa per voi, giovanotto?
- Sì, Andrea mi ha riferito che avreste potuto spiegarmi
il significato di una parola latina: Urus. Gli occhi del professore
divennero aguzzi dietro le lenti. Per qualche istante sembrò
vagare con la mente sulle tracce dei suoi ricordi.
– Urus? - ripeté. – Andrea vi ha dunque mostrato
la porta nel sotterraneo. Be’, mi sembra giusto che veniate
a conoscenza di ogni angolo della casa. Vi ha anche certamente raccontato
di briganti, di animali mostruosi e altre balle del genere: sono
cose che comunque fanno sempre folclore e sensazione. Rugadiali
è un paese costruito su una specie di gruviera, le grotte
qui intorno non si contano, come non si contano le leggende che
sono fiorite sulle caverne.Per quel che riguarda la porta nella
roccia, le antiche cronache locali raccontano che sia stata costruita
da un alchimista vissuto qui circa quattrocento anni or sono e che
sia una soglia di accesso ai mondi infernali. Colui che riesce a
decifrare la parola Urus e pronunciarla nel modo esatto, avrà
il potere sulle forze che si scateneranno uscendo dalla porta. Vi
faccio notare che questo tipo di leggende non è affatto originale
rispetto a tante altre dove entra in gioco la magia : da sempre
conoscere il nome di un demone o di un’entità sovrannaturale
significa averla in proprio potere. - Il professore tacque per qualche
istante, fissandomi negli occhi.
– Impressionato? – Domandò infine.
- Un poco.
- Eh già. Se doveste credere a queste sciocchezze, sarebbe
piuttosto spiacevole per voi immaginare di essere proprietario di
una casa edificata sopra un girone infernale. Comunque il significato
della parola è semplice: l’urus era un bue primigenio,
più grande e robusto degli attuali, che viveva in Europa
e in Asia e che si è estinto nel XVII secolo. Nulla di misterioso,
dunque, se non il motivo per il quale qualcuno si è preso
la briga di scrivere questa parola sopra una porta.
Le parole del professore e il suo scetticismo mi avevano tranquillizzato
parecchio, ma non abbastanza da convincermi a passare un’altra
notte da solo in quella casa.
– Se poi desiderate sapere notizie più precise di quell’alchimista
di cui vi parlavo - concluse il professor Ferdinando, - potete chiederle
al parroco. Nell’archivio della chiesa forse si conserva ancora
qualche documento sul processo e sulla sua fine sul rogo.
***
- Assomigliate molto a vostro padre, sapete? –
Don Vincenzo riprese la sua marcia lungo il viale alberato della
canonica. Era alto e sottile, leggermente curvo, con una bella barba
bianca. – Una volta Rugadiali era un paese florido. Vi era
una miniera di carbone e qui venivano maestranze e dirigenti da
tutta Italia; poi la miniera si è esaurita e tutto è
finito. Ora siamo rimasti quattro gatti, per la maggior parte nostalgici
dei tempi andati. Vostro padre era una persona molto curiosa e intelligente.
Don Vincenzo si arrestò, come colpito da un pensiero fastidioso.
– Scusatemi, forse faccio male a parlare di lui: riporto alla
memoria fatti per voi dolorosi. Mio padre era morto per un incidente
proprio dentro quella miniera. Durante un sopralluogo in una galleria
buia un grosso masso gli era crollato addosso, uccidendolo. Probabilmente
il mio timore per il buio era scaturito proprio da quell’evento,
perché mille volte avevo immaginato mio padre ancora vivo
sotto le macerie, nell’ombra ostile, in attesa di soccorsi
che non sarebbero mai giunti in tempo. Sì, il ricordo mi
creava ancora dolore.
– Vi prego, padre – tagliai comunque corto. –
Continuate.
- Gioacchino Stroebio, questo era il nome dell’alchimista,
è la star del nostro paese. A distanza di tanti secoli è
diventato un eroe: la piazza per esempio, proprio quella dove c’è
il palazzo, è dedicata a lui. Vi sono associazioni in suo
onore e vi è perfino una pizzeria che porta il suo nome.
Lo hanno trasformato nel solito martire per la libertà e
c’è l’immancabile sapientone di turno che ogni
tanto ne rispolvera la memoria per dimostrare quanto sia cattiva
la Chiesa. Gioacchino Stroebio era veramente un malfattore dedito
a pratiche magiche e macchiatosi di numerosi misfatti. Aveva seviziato
e ucciso bambini e uomini prima di essere arso sul rogo. Nella biblioteca
della parrocchia conserviamo ancora dei frammenti del suo processo
e la sua confessione : era un nano infernale! Trasalii tanto forte
che il parroco se ne accorse e si girò a guardarmi.
– Un nano? – proruppi. – Il nanismo dev’essere
frequente in questa zona. Ho sentito dire che è dovuto a
fatti ambientali connessi alla tiroide.
Don Vincenzo mi scrutò con interesse, tanto che mi parve
di leggere neisuoi occhi uno sguardo da inquisitore.
– Perché ? - Domandò . – Avete visto un
nano a Rugadiali?
– Uno – confermai. – Ieri notte. Era sotto la
mia finestra.
- Ah, be’…comunque il professor Ferdinando vi ha già
spiegato tutto sulla porta. Resta da dire che anch’io ho una
mia teoria sulla scritta. Secondo me è una forma contratta
di “Uroboros”, che in alchimia è il serpente
che si morde la coda, e Stroebio era precisamente un alchimista.
Un serpente che si morde la coda disegna un cerchio magico e rappresenta
il cosmo, dove Tutto è ridotto a Uno… Eresie rinascimentali,
ossessioni di spiriti malvagi. Dio, attraverso Gesù, ci ha
indicato la via da seguire: non quella chiusa dal cerchio e ispirata
dal serpente malefico che tutto avvolge nelle sue spire, ma quella
dell’espansione verso gli altri, dell’altruismo. Il
serpente chiude lo spirito dentro l’egoismo e lo fa preda
delle forze infernali. Ne avevo abbastanza di quella storia. Ritornai
a casa covando un’ inquietudine particolare, con l’idea
di fare le valigie e partire quanto prima.
Andrea mi attendeva sulla porta con un fagotto in mano e l’aria
di chi ha
fretta.
– Mia moglie vi ha preparato qualcosa da mangiare, ingegnere.
Mi consegnò il pacco e se ne andò, scusandosi per
la premura. Salii le scale e mi diressi verso la stanza che avevo
scelto la sera prima per abitarvi. Sul tavolo di legno vi era la
mia borsa da viaggio e, accanto a essa, sobbalzai nello scorgere
un antico incunabolo, con la rilegatura marrone consunta dalla muffa
e dalle tarme. Doveva averlo dimenticato lì Andrea e, sebbene
non mangiassi dal giorno prima, la tentazione di vedere quale fosse
l’argomento del libro fu più forte della fame. Misi
da parte il fagotto e presi l’incunabolo. Lessi il titolo:
“ De lingua universalis” di Joacchinus Stroebius. Allontanai
da me il libro come se fosse d’un tratto diventato incandescente
e saltai in piedi. Chi lo aveva lasciato là ? E perché?
Era stato proprio Andrea o, piuttosto, qualcun altro che era penetrato
dagli sterminati sotterranei? Mi guardai attorno per vedere se vi
fosse qualcuno nascosto nella stanza. Vidi solo un bel raggio di
sole che penetrava dalla finestra, che ebbe il potere di tranquillizzarmi.
Cosa c’era in effetti sul tavolo? Un semplice e innocuo libro
antico, nulla che potesse giustificare il timore che avevo provato
al suo contatto. Ripresi il libro in mano e ne sfogliai le pagine
che, sature di umidità, sfilarono via in gran parte appiccicate
le une alle altre. Il libro era scritto in latino, con stampa fittissima
e minuta. Poiché non capivo nulla della frasi che leggevo
a casaccio, decisi per il momento di accantonarlo e ritornarci sopra
più tardi, dopo aver mangiato, felice con me stesso per aver
superato quella sia pur piccola prova di coraggio. Finii di scartare
il fagotto e mi sentii prosciugare. Davanti a me, posata su un piatto,
una testa di capra mi guardava con occhi spenti. Il pelo bianco
era macchiato dal sangue che ancora sgorgava inspiegabilmente copioso
dalla gola recisa e si raccoglieva nel fondo del piatto, cominciando
a debordare fuori da esso. Non riuscii a impedirmi di vomitare.
Cercai con lo sguardo la porta, per uscire al più presto
e… incrociai lo sguardo del nano. Ora vi era la sua testa
sul piatto e i suoi occhi mi fissavano con curiosità, seguendo
ogni mio movimento, con lo stesso potere ipnotico di un serpente,
di quell’Uroboros che incarnava la sua arte alchemica in vita.
Gli occhi guardavano me e poi il libro, poi ancora me e poi il libro.
Là vi erano le risposte alle mie domande, sembravano dirmi,
e mi invitavano a cercarle. Percepivo anche la sua voce stridula
( o era la mia mente allucinata a crearla?), che mi invitava a compiere
l’atto finale per il quale ero stato predestinato. Riuscii
finalmente a scuotermi e fuggire via. Avevo la sensazione di muovermi
come in un film al rallentatore: pochi metri mi sembravano chilometri
e gli istanti ore. Infine riuscii a raggiungere la maniglia dell’uscio,
tirai verso di me la porta e… mi vidi. Vidi me stesso, di
spalle, che apriva la porta di un’altra stanza e, oltre la
porta, un altro me stesso che ne apriva un’altra e un’altra
ancora, come in un gioco di specchi. Avevo l’illusione che
le porte si rimpicciolissero man mano, fino a diventare non più
alte di un metro e, su tutte, troneggiasse la scritta URUS a caratteri
fiammeggianti.
Il pavimento mi venne incontro e persi conoscenza.
***
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai nel buio quasi totale, eccetto
che per una piccola lama di luce che penetrava dalla finestra. Da
qualche parte, davanti a me, giungeva un sommesso bisbigliare e
un frusciare cauto di passi. – Forse sarà partito –
disse una voce rauca, che riconobbi subito.
– Forse è meglio così – disse un’altra.
– Il fatto è che dobbiamo esserne certi e dobbiamo
essere certi che nontornerà più : non possiamo rischiare.
Giacevo prono e, sotto il mio corpo, avvertivo il contatto dell’incunabolo
di Stroebio. Lo raccolsi e, carponi, scivolai lentamente dietro
la porta, acquattandomi nell’ombra. Cercavano me, senza dubbio,
e le loro parole non tradivano intenzioni benevole. Non era più
questione di paure immotivate o di presunte presenze infernali a
minacciarmi, ma di un pericolo reale e concreto. Stranamente fu
proprio questa consapevolezza a darmi coraggio, giacché era
più facile per me combattere contro un pericolo materiale
che contro le mie paure.
Vidi la figura tarchiata del professor Fernando oltrepassare l’uscio
con cautela e fermarsi, respirando affannosamente.
– Non c’è – annunciò. – E’
andato via.
Entrò nella stanza seguito da don Vincenzo il quale, dopo
un attimo di esitazione, si avviò verso il tavolo, attirato
dagli oggetti che vi erano poggiati sopra.
– Santo Dio! – Esclamò. – C’è
la sua borsa da viaggio sul tavolo. E’
ancora qui!
Il professore trasalì, girandosi in direzione dell’uscio
dietro il quale stavo rannicchiato. Quello era il momento! Balzai
fuori dal nascondiglio, con il grosso volume fra le mani, e lo colpii
con violenza al volto. Mi giunsero il rumore degli occhiali che
si spezzavano e il suo urlo di dolore, mentre io già correvo
via di là. Avanzai a tentoni nell’oscurità,
ma ero ormai abbastanza pratico della casa per ricordare dove fosse
l’uscita. Un lampo di luce improvviso mi accecò. Qualcuno
mi aveva inquadrato nel cono di luce di una torcia elettrica.
– Ehi, fermo! – Intimò Andrea. E poi, agli altri
compari : - E’ qui, correte! Mi ritrovai nei pressi della
scala che conduceva in cantina e, non avendo altre vie di fuga praticabili,
cominciai a scendere in basso alla massima velocità possibile,
ma scivolai sui gradini e precipitai giù. Incurante del dolore,
mi rimisi in piedi e continuai la mia corsa alla cieca, una corsa
che mi conduceva in una direzione obbligata: il sotterraneo e le
mille caverne che si aprivano in esso. Quando toccai la parete viscida
di funghi seppi che ero arrivato e mi inoltrai ancor di più
nelle profondità della terra, mentre dietro di me sentivo
gli inseguitori che si facevano più vicini. Di sotto venni
colto da una sensazione del tutto nuova e fino ad allora sconosciuta
per me. Era come se conoscessi quel posto come le mie tasche e fossi
consapevole di non essere più in un ambiente ostile. Avevo
ora la sensazione di trovarmi a mio agio, come se tutte le paure
precedenti avessero esorcizzato il mio animo rendendolo solido e
determinato. Avevo vissuto la mia vita col terrore dell’oscurità
e forse ne avevo esaurito tutta la carica per trovarmi calmo e lucido
al momento opportuno. Scoprii che mi muovevo a mio agio tra quegli
anfratti, come se non avessi fatto altro per chissà quanto
tempo.
I tre inseguitori si fermarono in prossimità della costruzione
in mattoni eretta da don Alfonso Cappelli. Il primo a parlare fu
il parroco. – Ingegner Orsini, non ci rendete le cose più
difficili, vi prego. Se vi consegnerete spontaneamente a noi, vi
promettiamo che non vi faremo del male e vi lasceremo andare via
incolume. Voi dovete sapere alcune cose, amico mio. La curia conserva
tutti gli atti del processo contro Stroebio: egli era l’ incarnazione
del demonio, il suo compito era quello di scoprire la formula rituale
per aprire le porte degli inferi che gli Antichi avevano chiuso
ermeticamente. All’epoca in cui venne giustiziato vi era quasi
riuscito, ma i santi inquisitori fecero appena in tempo a impedirglielo.
Pronunziare quella parola innominabile nel modo giusto significa
spalancare la via a orrori inimmaginabili, a sofferenze indicibili,
al male che si spargerebbe sulla terra con la forza di un uragano.
Abbiate fiducia in noi, consegnatevi, non permettete tutto questo.
Il parroco sembrava convincente. Non notavo acredine o minacce nelle
sue parole. Allora perché erano entrati di nascosto dentro
casa mia? Avevo interpretato male le loro intenzioni e le frasi
che avevo sentito pronunciare? Ma poi, le avevo sentite veramente
o le avevo soltanto immaginate? Ora la voce che parlava era quella
del professore. - Stroebio, sul rogo, aveva giurato che sarebbe
ritornato ogni volta che un suo legittimo discendente fosse entrato
nel palazzo che era stato di sua proprietà. La sua anima
avrebbe vagato nella casa in attesa di quel momento, per la suprema
vendetta e il compimento dell’opera. Don Alfonso Cappelli
ha speso tutta la sua vita per scoprire il segreto di quella porta.
Ha dilapidato una fortuna alla ricerca di rituali e persone che
potessero aiutarlo a violarla, ha eretto perfino questa specie di
tempio attorno a essa per praticarvi cerimonie inutili, ma invano.
Egli non era un predestinato. Voi, invece, avete visto il nano non
appena giunto in paese: egli vi aspettava, ha bisogno di voi. Egli
è solo un’ombra e perciò gli necessitano una
gola e una voce umana per pronunciare nel modo esatto la parola.
Non concedetevi al male, affidatevi a noi!
Il libro di Stroebio, che ancora stringevo contro il petto, mi pulsò
tra le dita. L’incunabolo scivolò via dalle mie mani,
senza che potessi impedirlo, e levitò sopra una roccia, mentre
le pagine frullavano via, una dopo l’ altra, come in un battere
d’ali di uccelli, fermandosi su una pagina precisa. Una luminescenza
fuoriusciva da essa e io in quel momento riuscivo a leggere correntemente
il latino, lingua che non avevo mai studiato. “ … gli
Antichi parlavano la Lingua degli Uccelli, la vera lingua degli
Dei, trasmessa da iniziato a iniziato, perché ogni parola
racchiude in sé il potere. U è la lettera per il mondo
ultraterreno,invisibile ma sempre presente intorno a noi; R è
la lettera delle forze primigenie che sorsero dal Caos…”
- Orsini! – Urlò don Vincenzo, con quanto fiato aveva
in corpo. – Sono quattro secoli che il nostro Ordine veglia
su questo segreto. Noi abbiamo dedicato le nostre vite a questo
unico scopo, scegliendo di montare la guardia su questo umile paese,
perché il male non vincesse. Il professor Ferdinando ha sacrificato
una brillante carriera ecclesiastica per votarsi a questa missione;
Andrea, quarant’anni or sono, ricevette l’incarico direttamente
dal Santo Padre e altri verranno dopo di noi. Vi prego, non fatevi
travolgere dalla debolezza peggiore dell’uomo: la curiosità.
Improvvisamente udii una voce sovrapporsi a quella di Don Vincenzo,
soffocata, fioca, vicinissima al mio orecchio. Vicino a me non vi
era nessuno, ma io sentivo ugualmente una presenza fatua, discreta
ma non ostile. Per me, in altri momenti, sarebbe stata l’apoteosi
del terrore, la voragine che avrebbe inghiottito per sempre la mia
mente; allora, invece, la voce quasi venne a conforto. Ed era una
voce che conoscevo… << … Ogni qualvolta un legittimo
discendente fosse entrato nel suo palazzo…>> Mi ritrassi,
come scosso da una scarica elettrica, perché mi era sfuggito
il senso profondo di quella frase nel momento l’avevo udita
la prima volta, pronunciata dal professore.
– Padre! – Urlai.- Padre, sei tu!
La lama di luce della torcia virò immediatamente verso il
punto dov’ero nascosto.Mi avevano individuato, ma non mi importava
più.
– Lo avete ucciso voi, maledetti – ringhiai.
- Fu un incidente di miniera - ribatté il professore, e la
sua voce si era
fatta più vicina.
- Voi, i suoi migliori amici…
Non ebbi più dubbi. Come avevano detto? Non potevano rischiare
di lasciarmi andare… e non avevano neppure rischiato con mio
padre. Tornai a leggere, anche se sentivo distintamente dei passi
sopra la buca dove avevo trovato rifugio.
“ … l’altra U è l’urlo della terra,
delle correnti telluriche. Del mercurio che si sprigiona nell’atanor…”
- E’ qui, - mi giunse lontanissima la voce di Andrea, perso
com’ero ormai sulle parole del libro. – Ha il libro!
“ … ed S è sia! Sia!”
Attorno a me vedevo un vorticare di volti: Gioacchino, mio padre
e altri assolutamente sconosciuti. I miei inseguitori dicevano che
l’apertura della porta avrebbe aperto la strada ai demoni
infernali, ma questi non erano già presenti nel mondo? Cosa
vi era di più infernale della sopraffazione, della schiavitù,
della malvagità , della scelleratezza e della crudeltà
gratuita? Nulla poteva esservi di peggio. E se fosse stato il contrario
di quello che affermavano i miei inseguitori? Non poteva, da quella
porta, sgorgare la saggezza degli Antichi, di coloro che parlavano
la stessa lingua degli Dei? E se i veri demoni erano gli assassini
che volevano impedirmi di aprirla?
“ Sia”, mi dissi. E urlai, con quanto fiato avevo in
corpo :
- URUS!!
Un lampo violentissimo di luce sgorgò dal libro e illuminò
a giorno la caverna. Sopra la mia testa vidi i miei inseguitori
arrestarsi perplessi e poi arretrare oltre il bordo del fosso, addossandosi
al muro, bianchissimi in volto. Osservai i muscoli guizzare potenti
sotto la pelle delle mie braccia e le unghie delle mani e dei piedi
trasformarsi in artigli di luce. Con un balzo fui fuori dalla roggia.
Vidi la porta spalancata e piena di luce anch’essa. Avanzai
lentamente, lentamente, pronto a iniziare l’Opera.
(Torna su)
Colazione
inglese.
Riconoscevo quello sguardo. Lo avevo visto troppe volte perché
potessi sbagliarmi. Di certo lei ancora non se ne rendeva conto,
ancora non ricordava, e probabilmente quel modo di guardarmi era
l’esordio non ancora cosciente di quello che sarebbe accaduto
tra noi tra non molto. Forse nella sua mente c’era amore,
ma nei suoi occhi no… perché avrebbe ricordato e non
si sarebbe potuta sottrarre al destino che ci legava ancor più
strettamente di quanto, fino a poco tempo prima, io stesso non avessi
potuto immaginare. Ci sarebbero volute ore, o forse solo minuti
per lei, chi poteva dirlo?, ma ciò che doveva accadere sarebbe
accaduto, come sempre. Io invece ricordavo. Non sapevo se vi fosse
un senso, una ragione in quegli eventi. Forse si trattava soltanto
di misteriosi disegni divini o forse di oscuri scherzi del destino
che si divertiva a giocare con gli uomini come se fossero marionette,
tirando i fili a casaccio e godendo dei loro sforzi a ricercare
un senso dove senso non vi era. Il fatto era che stavolta io ricordavo
e lei ancora no. Non più di dodici ore prima eravamo seduti
sulla panchina di un parco pubblico, come una qualsiasi normale
coppia di non più novelli sposi, intenti a guardare foglie
di ontani cadere attorno a noi e ad ascoltare distrattamente una
pretenziosa banda musicale che si esibiva al riparo di un gazebo.
Una merdosa domenica inglese.
Una deliziosa bimba dai capelli rossi, certamente ispirata da una
serie di sceneggiati sulle streghe trasmessa in quei giorni dalla
BBC, si affannava a ripetere le operazioni di un rogo a discapito
di un'amichetta, sussurrandole
: << Ora ti brucio le budella, brutta caccona !>>
<<… Ti brucio le budella…>>
Un sipario nero si era aperto improvvisamente davanti ai miei occhi,
svelando l'orrore che si celava dietro.
***
Il volto della contessa recava le tracce devastanti del vaiolo,
ma la sua voce era straordinariamente profonda e gradevole quando
mi disse: - I miei informatori mi hanno informato dei suoi maneggi
con quella setta di eretici bogomili, cancelliere. Mi irrigidii.
Con lei non serviva a nulla mentire. Se parlava così sapeva
già tutto, ma io non mi sentivo affatto colpevole.
- Sono uomini anch’essi. Sono miti, non hanno fatto nulla
di male, non si
sono macchiati di crimini.
- Sono fomentatori di disordini, dispregiano Cristo… e voi
siete come loro. Siete un traditore e tramate contro di me.
Fece una pausa per grattarsi, con l'indice inanellato, un angolo
della bocca
- Oggi sarete affidato all’Inquisizione.
***
Loreena mi fissò ancora per qualche istante con i suoi penetranti,
freddi, occhi azzurro cupo, poi ritornò al suo giornale.
Mi sembrò che accompagnasse il gesto con una lieve scrollata
di spalle, come per scacciare un pensiero fastidioso. Io, con studiata
noncuranza, addentai una fetta di pane imburrato e roteai gli occhi
di qua e di là, per non incrociare di nuovo il suo sguardo.
Una merdosa colazione inglese.
E pensai che le nostre vite erano come due spirali le cui circonvoluzioni,
di tanto in tanto, interferivano l'una con l'altra, per poi svanire
nel volgere del tempo e delle stagioni. E noi sembravamo due attori
che recitavano sempre la stessa parte. A pensarci bene forse lo
eravamo veramente ma, per la prima volta, vedevo il passato in anticipo
e non nell'attimo immediatamente precedente la morte. Stavolta era
diverso e Dio, o chi per lui, aveva deciso di assegnarmi un copione
diverso. In quel maledetto gioco di ruoli sempre uguali, forse non
era più scontato chi fosse la vittima e chi il carnefice.
Il problema era quanto tempo avrebbe impiegato per ricordare ? Non
potei impedirmi di ritornare a scrutarla di nascosto. In quel momento
mi sembrò bella come non mai. Nessuno, a vederla così
minuta e aggraziata, avrebbe potuto immaginare di trovarsi di fronte
a una poliziotta dal brillante ruolino di servizio. Mia moglie era
uno dei migliori agenti del Dipartimento.
***
La faccia del generale, nonostante fosse lunga e affilata come quella
di un lupo, non era priva di un ambiguo fascino femmineo. Fece un
gelido sorriso. - Negli Stati Uniti perfino il capo di un puzzolente
branco di indiani Cherokee ha diritto a un regolare processo, con
tutte le spese che questo comporta. Una procedura del tutto inutile
e fastidiosa...
Si grattò con l'indice inanellato un angolo della bocca.
Seguii affascinato la scia brillante che l'anello tracciò
in aria. Non fossi stato tanto provato dalla fame anche allora avrei
potuto vedere oltre, collegare , capire. Ma a cosa sarebbe servito?
Chinai il capo, non udendo neppure le parole del generale. - ...
Questo tribunale condanna costui all'impiccagione. La sentenza sarà
eseguita domani all'alba.
***
Loreena mi mostrò una pagina del giornale e disse : - Hai
visto, caro ? L'identikit di uno degli attentatori ti assomiglia.
Te l'immagini? Tu , un attivista del gruppo di fuoco dell'IRA !
Emise un risolino. - Molto umoristico. Immagina i titoli : "
Catturato uno degli esecutori dell'attentato al tunnel sulla Manica.
Dottor Jeckyll e Mr Hyde : feroce terrorista dell'IRA la notte,
dolce marito di una poliziotta di giorno..."
Inghiottii un boccone di cemento. - Veramente esilarante - borbottai.
- Scusami.
Mi pulii in fretta la bocca, cercando di mascherare col tovagliolo
il tremore delle mani che mi aveva improvvisamente colto, e mi diressi
in bagno, chiudendo a chiave la porta alle mie spalle. L'acqua fredda
del rubinetto sferzò violentemente i miei nervi, anestetizzando
per qualche istante l’antica paura che stava impadronendosi
di me. Eppure dovevo essere abituato alle situazioni di pericolo.
Lo specchio sopra il lavandino rifletteva l'immagine di un uomo
precocemente invecchiato, grassoccio e con una grave calvizie. Stentai
a riconoscermi. Era il mio viso quello? Uno dei tanti visi…
Pensai che avrei potuto rispondere in maniera più convincente
a mia moglie, dicendo per esempio che il mio era un viso comunissimo
ed era facile confondermi con chichessia; ma non l'avevo fatto,
a cosa sarebbe servito? Non era un'ombra di sospetto quella che,
per un attimo, aveva velato gli occhi azzurro cupo di Loreena? Nello
specchio, ora, non era più riflesso il mio viso, ma una scena
diversa.
***
Le labbra sottili della donna dell’ufficiale si piegarono
in un sorriso crudele. Il tedesco si sfilò i guanti di pelle
nera con studiata lentezza e sferrò un violento manrovescio
sul mio viso di vecchio. L'anello dell'indice tracciò una
stria di sangue , lacerando la guancia fino all'osso dello zigomo.
- Questo cane giudeo, non vale neppure il piombo di una pallottola
– sussurrò suadente la donna all’orecchio dell’ufficiale
nazista. Il suo occhio azzurro cupo balenò di piacere quando
lo stiletto affondò nella mia gola.
***
Distolsi gli occhi, il fiato spezzato in gola. Avevo voglia di vomitare,
di urlare di rabbia. Ricominciava. Sentivo il puzzo delle mie carni
bruciare in piazza, la mia gola distrutta dal cappio, il fiotto
di sangue sgorgare dalla giugulare recisa. Trattenei il respiro.
Lei dov'era? Cosa faceva? L'avevo sentita passare davanti alla porta,
diretta in camera da letto. Adesso si stava vestendo. Avevo tempo...
Avevo tempo... Stavolta avevo tempo. Una frenesia nuova si impadronì
di me. Avevo sparato contro soldati inglesi, avevo confezionato
bombe per miei compagni e altre le avevo piazzate io personalmente,
gli scrupoli soffocati dall'esaltazione per l'ideale supremo di
una patria libera dagli aguzzini. Avevo fatto nient’altro
che quello che avevo sempre fatto, adesso lo capivo. Ma, per la
prima volta, il destino mi offriva la possibilità di invertire
un
ciclo.
Come guidato da una volontà sovrumana entrai in azione. Con
un temperino forzai un piccolo ripostiglio mascherato nel pavimento
e mi impadronii della pistola che vi tenevo nascosta. Uscii dal
bagno, attento a non fare il minimo rumore.
Loreena era seduta davanti al grande specchio della camera da letto
e stava finendo di pettinarsi. Mi dava le spalle.
Appena sulla porta, alzai la pistola e mirai alla sua nuca, con
mano ora fermissima.
Lei mi vide riflesso e si irrigidì.
I nostri occhi si incontrarono nello specchio: i suoi erano gelidi
e lontani, ma risoluti. La vidi prendere un anello dalla scatoletta
delle gioie che teneva nel comò e infilarlo sull'indice destro,
lentamente. Ora ero certo che anche lei ricordava, ma per una volta
era troppo tardi. Strinsi il dito sul grilletto. Era così
facile! Bastava premere solo un po' più forte e io, noi,
tanti ci saremmo vendicati. La vendetta era un dovere, per tutti
i significati simbolici dei quali si caricava in quel momento. Era
la rivolta dell'umanità ferita e oltraggiata, mia e non più
mia. Non eravamo solo io e Loreena di fronte, di spalle, accanto,
ma tante e tante anime dannate prima e, probabilmente, anche dopo
di noi.
Già, dopo di noi.
Forse,dopo, tutto sarebbe cambiato e ogni vittima si sarebbe trasformato
in carnefice… io mi sarei trasformato in carnefice. Loreena
non mi guardava più dallo specchio: aveva chiuso gli occhi
e reclinato la testa all'indietro, in attesa del colpo liberatorio.
Io invece mi vedevo, col braccio armato teso davanti a me e il volto
deformato da una smorfia famelica che non era mia.
Quel viso non era il mio, non mi apparteneva!
E io amavo Loreena, più di ogni altra cosa al mondo. L’amavo,
l’amavo… Come avrei potuto tirare il grilletto? Perché?
In quel momento compresi che ancora una volta il destino si era
preso gioco di me. Abbassai la pistola e mi avvicinai a lei. Mi
chinai lentamente e la baciai sul collo.
- Ti amo - le dissi. - Lo sai… non sarei mai capace di farti
del male.
(Torna
su)
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