Glauco
Glauco guardò con ansia l'alba,
oltre le sbarre.
La sua detenzione durata dieci anni era terminata.
Era finito in carcere dopo aver ucciso, durante una banale lite,
un suo vicino di casa.
Al bar gli uomini entravano e offrivano da bere a tutti e lui,
quasi senza accorgersene, si era trovato alticcio. Quando entrò
Ennio, il suo vicino, un tipo arrogante che da anni lo sfotteva
per la sua abitudine di uscire con il cane al guinzaglio, Glauco,
taciturno e schivo di carattere, si alzò per andarsene.
Si avviò alla porta. Ennio lo seguì cantilenando:
" Bello bello Bibooo...".
Sentirsi deridere di fronte agli altri gli perdere il lume, lo
afferrò per il giubbotto e gli si avventò contro.
L'uomo cadde e la sfortuna volle che battesse la testa contro
uno spigolo con una violenza tale che niente servì a rianimarlo.
Per anni quella scena l'aveva perseguitato, per anni si era chiesto
il motivo che lo aveva indotto ad andare al bar quella sera.
Prima della disgrazia, la vita non gli aveva riservato grandi
sorprese se non quelle comuni alla maggior parte delle persone.
Era stato manovale, poi muratore. Si alzava all'alba e andava
a dormire presto.
Aveva tentato di mettersi in proprio, di formare una piccola ditta,
ma l'onestà con cui gestiva la società gli aveva
impedito d'essere competitivo rispetto ad altri impresari.
I suoi uomini erano regolarmente assicurati, pagava le tasse,
non chiedeva favoritismi per le gare d'appalto e la sua impresa
non sopravvisse alle regole del mercato. Guadagnava poco e decise
di tornare ad essere un dipendente.
Oltretutto, essendo esperto e abile, era ben pagato e alla fine
del mese non aveva grane. A parte il lavoro, conduceva una vita
schiva. Si era sposato, ma non aveva figli.
Forse questo fu il motivo del suo attaccamento eccessivo a Bibo
un bastardo trovato fuori di un casale che stava ristrutturando.
I primi anni in carcere erano stati un inferno. Cercava di trovare
una risposta al perché la sua vita avesse preso quella
direzione, perché era successo proprio a lui che aveva
sempre evitato di trovarsi in situazioni poco piacevoli.
Col tempo si era rassegnato, i giudici avevano compreso che si
era trattato di un incidente, l'ergastolo gli era stato ridotto,
doveva, in ogni modo, scontare dieci anni di pena.
In quest'arco di tempo, nella realtà carceraria, l'unica
novità era stata l'introduzione dei permessi di semilibertà.
All'interno le giornate erano scandite dalle tabelle imposte dalla
direzione, sveglia, colazione, attività lavorative, ora
d'aria, partite a pallone. Chiacchierava a lungo con gli agenti
di custodia che per il loro mestiere gli apparivano talvolta doppiamente
prigionieri.
All'esterno lavorava come muratore e a Pasqua o a Natale godeva
di qualche giorno di libertà. Il breve viaggio era sempre
un'avventura, sul treno e sul pullman guardava le persone e immaginava
le loro vite, ricamando e fantasticando sulla base di ciò
che leggeva sui giornali o vedeva nelle trasmissioni televisive.
Era tranquillo, rientrava in paese, stava in famiglia, scaduto
il permesso faceva ritorno al carcere.
Quel giorno invece sarebbe partito per non tornare.
Si guardò attorno, prese la valigia che aveva preparato
da una settimana, respirò a lungo e salutando in fretta
e furia gli amici, per non cadere nella nostalgia, uscì
dal carcere.
La strada gli apparve subito diversa dal solito, più rumorosa,
più affollata e si guardò attorno, come se non fosse
mai uscito dal carcere. Si diresse a piedi verso la stazione per
evitare la calca dei ragazzini sui tram.
Nell'andare il suo passo si fece incerto, la vista gli si annebbiò,
iniziò a sudare freddo.
Strinse forte i manici della sua borsa, quasi a cercare un appoggio.
L'edificio della stazione, a pochi metri da lui sembrava irraggiungibile.
Aumentò l'andatura per attraversare il piazzale nel minor
tempo possibile, ma sbandava, il cuore batteva con un'insolita
velocità.
Prese a correre, guardando ai lati per controllare se arrivavano
auto.
C'era quasi. Era quasi riuscito ad arrivare al marciapiede.
Gli rimaneva solo superare i binari del tram.
Lo vide arrivare, ma era ancora lontano. Esitò incerto
se attraversare o no.
"Sono libero" si disse e andò avanti, il tram
frenò ma i tempi in dieci anni erano cambiati in fretta.
Gli orologi del conducente e di Glauco segnavano ore diverse.
Glauco morì sul colpo il suo orologio si era fermato il
giorno dell'omicidio, fuori la vita era andata avanti.
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LE SCARPE
di
Sandra Palombo
Le scarpe sono sempre state fondamentali nella mia vita.
Ho ancora presente il piacere che provavo quanto scioglievo le
stringhe delle alte pantofole di panno scozzese a sfondo rosso,
tiravo via i calzini e camminano scalzo sul pavimento.
Sul ripiano dello scaffale metallico sono poggiate due paia di
scarpe, quelle da lavoro, moderne, firmate, con la forma quadrata
e accanto le vecchie scarpe da ginnastica che da tempo si sono
adattate ai miei piedi sino a perdere la forma originaria.
Infilo le ultime con aria soddisfatta.
Fausta scodinzola, anche lei è contenta. Sa che nelle prime
ore del pomeriggio di ogni sabato, lavoro e cielo permettendo,
usciamo a passeggiare.
Non cammino per tenermi in forma, per quello frequento la palestra,
e neppure per abbronzare il mio viso, vado semplicemente perché
sto bene in mezzo al verde.
Il mio corpo ha bisogno di compensare.
Ogni mattina, infatti, prendo la macchina e arrivo al piazzale
della stazione, parcheggio, monto sul treno e scendo in città
dove con un tram raggiungo l’ufficio. La sera, ogni sera,
ripeto il tragitto contrario. Il sabato mi metto le scarpe e accompagnato
da Fausta finalmente esco in campagna, tra le colline.
Chiudo il cancello del giardino e andiamo.
L’aria è tiepida, la neve non c’è ancora,
ottobre è il mese ideale per vagare nei campi.
Scelgo un sentiero sterrato e inizio la mia passeggiata che mi
porterà a scendere, a salire, a camminare in piano.
Su di una strada laterale si ferma un camioncino, Fausta abbaia,
l’accarezzo sul collo, la calmo e scambio due parole con
il conducente, un vicino. Taglio di traverso il sentiero ed entro
in una vigna.
Le scarpe affondano leggermente e si sporcano di terra, Fausta
annusa e corre veloce avanti e indietro.
Vorrei ci fosse Anna al mio fianco per condividere questi momenti
d’ossigeno puro, ma lei non vuole sporcarsi le scarpe. L’ho
sposata dopo una delusione d’amore, mi voleva bene, era
una cara ragazza. Adesso mi cura, a modo suo: abbigliamento firmato,
viaggi in località esotiche, cene con gli amici e serate
al cinema. E’ bella Anna, la corteggiano scherzando i miei
amici, io sorrido e li lascio fare sapendo che non oserebbero
andare oltre.
Ma se fosse? Se mi liberassero dalle scarpe di marca?
Se potessi andare alla ricerca di una donna che nel fine settimana
si sentisse libera di camminare scalza sul cotto ? Se volesse
poi infilarsi un vecchio paio di scarpe da infangare ?
Esco da una vigna e rientro sul sentiero sterrato, tiro un pezzo
di ramo secco a Fausta che corre a prenderlo e lo riporta nelle
mie mani.
Arrivo nei pressi di una villa padronale, molto diversa dall’appartamento
che ho ricavato da un’ala della casa colonica di nonno Giovanni,
ma il proprietario attuale ha ospiti e mi limito a salutarlo con
il cenno della mano. Attorno alla costruzione signorile è
nato un piccolo borgo in miniatura composto da casolari di servizio,
un tempo adibiti a pollaio, cantina, forno e stalla che sono stati
ristrutturati e inseriti nel circuito turistico della nuova economia.
Vedo un bambino camminare lungo il sentiero di ghiaino tra i
filari d’ulivi ai cui lati brilla il verde dei pampini,
gli guardo le scarpe, sono comode e usate e sorrido. Lo osservo
scegliere un breve viottolo che porta ad altre vigne degradanti
verso la pianura. La madre lo chiama, anche lei calza scarpe comode,
è carina, mi piace. A suo agio si avvia verso il bambino,
come fosse nata dalla terra.
Guardo l’orologio, è tardi devo rientrare per non
sentire i brontolii di Anna.
Stasera si esce a mangiare una pizza con gli amici e dovrò
rimettermi le scarpe firmate.
NAPOLEONE E MARIA
WALEWSKA
racconto storico di Sandra Palombo
Sierra Ventosa (Isola d’Elba), 1° settembre 1814
Con il cannocchiale appoggiato sulla spalla dell’ufficiale
d’ordinanza Bernotti, Napoleone Bonaparte scrutava il mare,
lo stesso mare che dopo aver visto la sua ascesa, lo osservava
relegato su un’isola in cui non poteva far altro che fantasticare
la rinascita: il ritorno trionfale in Francia e in tutta Europa.
Apparve una vela e dall’immobilità passò all’azione,
impartì ordini, disposizioni e si preparò a ricevere
gli ospiti, la cui identità era conosciuta solo a pochi.
A sera inoltrata, dalla fregata inglese alla fonda nel golfo di
Portoferraio, complice il buio, scese una donna velata accompagnata
da un bambino, da una dama e da un ufficiale polacco.
Scomparvero in una carrozza tirata da quattro cavalli, diretta
al romitorio della Madonna del Monte, sopra il paese di Marciana,
dal quale si domina lo specchio di mare che unisce il Mar Ligure
al Mar Tirreno e, in esso, Corsica, Capraia, Gorgona, il continente.
Raggiunto il bivio di Procchio, la carrozza si fermò. Napoleone
scese da cavallo, salutò la dama velata, si unì
agli ospiti e insieme ripresero il viaggio. L’incontro,
a quel che tramandano le cronache, fu commovente, baci e abbracci,
lacrime e sorrisi.
Per giungere a destinazione era necessario percorrere una strada
impervia accessibile solamente a cavalli e a muli. La dama montò
a cavallo e il tragitto si fece penoso. La luna era scomparsa,
il buio sempre più fitto, i pericoli, precipizi e scogliere,
incombevano.
Alle tre di notte, Napoleone davanti alla sua tenda, accolse la
donna minuta, delicata, bionda, esile quasi eterea, dolcissima
nei tratti e nei modi, con queste parole: «Ecco il mio palazzo».
E avvenne quel che doveva avvenire: due notti e due giorni d’amore
in uno dei più bei luoghi dell’isola, dove castagni,
rocce, cielo e mare si fondono in un panorama suggestivo, quasi
da favola. La dama rimase invisibile, il figlio chiamava papà
Napoleone, ma non era Maria Luisa, come tutti credevano e speravano.
Maria Walewska, contessa polacca, corteggiata a lungo e poi amata
da Napoleone al punto che dalla Polonia la volle a Parigi, madre
di suo figlio, non aveva retto al desiderio di vederlo e abbracciarlo,
di correre da lui.
Maria Walewska, moglie di uno degli uomini più potenti
della Polonia, spinta dalle autorità polacche a cedere
alla corte del Bonaparte per salvare il suo paese, perché
liberasse la sua terra, aveva sofferto, si era tormentata, aveva
temporeggiato.
L’imperatore a lungo l’aveva corteggiata inviandole
mazzi di rose rosse, ma alla ragion di stato subentrò ben
presto la passione e con l’amore venne meno anche la promessa
di fedeltà eterna al marito. Con lei, all’Elba, Napoleone
assaporava di nuovo l’ebbrezza dei giorni felici, ma Maria,
sull’isola, era anche il cordone che lo univa alla Francia,
all’Europa intera, uno degli anelli che lo avrebbero portato
di nuovo a regnare.
Proprio questo sogno fece sì che l’incontro rimanesse
segreto, il corso non voleva che giungesse alle orecchie della
moglie Maria Luisa d’Austria.
Arrivò il giorno della partenza.
La sera del 3 settembre, mare in burrasca e vento sconsigliavano
di salpare le ancore, ma l’esule fu inflessibile, l’amata
doveva lasciare l’isola.
Il brick inglese da Portoferraio fu portato nel golfo più
riparato di Porto Longone.
Napoleone accompagnò la contessa fino a Marciana, dove
senza congedarsi e salutare, si voltò e ritornò
indietro in sella al suo cavallo.
Fu l’ufficiale Bernotti a scortarla sino al brigantino ancorato
nella cala di Mola.
Una volta rientrato al romitorio l’ufficiale «rinvenne
l’Imperatore assiso sopra un tronco di castagno, col capo
pesantemente reclinato sulla mano destra, solo, silenzioso, immobile,
assorto forse nelle rimembranze destate in lui dalla recente visita»(1).
L’esule attese sei giorni, inquieto, scostante, agitato,
scontroso, prima di sapere che madre e figlio erano in salvo sulla
terraferma.
Da allora ricominciò a sperare e a sognare.
Maria Walewska, in Francia lavorava per lui per preparare il ritorno
trionfale dell’Imperatore Napoleone Bonaparte.
1) Vincenzo Mellini Ponce De Leon, Napoleone I all’Isola
d’Elba, Firenze, Leo S. Olschki, 1962, p.146
NON ESISTONO LADRI D’ORIZZONTI
di
Sandra Palombo
Il treno partirà a minuti e i tuoi occhi già indugiano
sull’orizzonte alla ricerca dei segni
apparsi alla vigilia di un’altra partenza.
Lassù solo Sirio, bianca come un diamante, ti guarda silenziosa
e distante.
Tutto si è compiuto. Tace il cielo.
La psiche aveva provato ad avvertire il tuo corpo, a suggerirgli
di non oltrepassare la diga.
La paura d’esser abbandonata t’accecò.
Con lui, in lui, per lui,
ribelle sempre,
contro tutti e contro tutto,
andasti avanti lungo il sentiero intrapreso.
Nella tuo tratturo vedesti i suoi - i tuoi - ideali assorbiti
da una madre tiranna.
I segni si fecero verbo, i sogni forme deformi.
Avevi forme e misure perfette.
90 di seno – 60 di vita – 90 di fianchi.
Lui colse il nettare migliore,
ne fece miele e lo ricoverò, in un barattolo, nel pensile
in cucina, per assaporarlo al bisogno.
Ogni giorno ti fece sua e ti mise in un vaso, in bella vista,
sul tavolo di sala.
Eri un bel fiore.
Minuti, ore, mesi ad aspettarlo alla finestra, davanti alla televisione
con le gote bagnate.
Anni di solitudine, rami secchi che scricchiolano, senza spezzarsi
mai.
Anni di ribellione messa a tacere da cenni di violenza fisica
o mentale.
Anni di cattività, anni di rassegnazione.
Anni di germogli e di frutti agrodolci.
Libri e Martini dry.
Libri e sigarette.
Libri e ragazzi e bambini,
accompagnati con pazienza per un tratto di strada.
Avvocati, musicisti, giornalisti, interpreti,
ora e sempre, in giro per il mondo
e tu, ora e sempre, nella stanza a girare per il mondo sulle orme
di Giulio Verne.
Per loro fosti fortezza, lo sarai per la carne della tua carne?
Una cometa, non segnalata dagli astrologi ,dipinse una scia dorata
nella notte.
Incantata rimanesti alla finestra.
Poi svanì, come le altre stelle.
Per lui tornasti a essere sorella, madre, nonna amata , ma non
donna.
Della donna coglieva solo il sesso, a lui bastava.
La rete cade e lui appeso a un filo, oscilla nel vuoto.
Chiede aiuto per ricostruire la trama assieme a te, ma è
tardi per creare un nuovo imene.
Troppa storia, troppi affetti lungo le stazioni .
Non ti resta altro che capire, capire e accettare, accettare ed
amare.
Guardalo,
guardalo come un figlio adulto,
soddisfa i suoi desideri con i balocchi,
e con aria materna controlla che non cada e non si faccia male.
Verrà la vecchiaia a porre la parola fine ai doveri o
forse arriverà prima la morte .
Comunque sia, l’Ostia spezzata tornerà ad essere
tonda e la materia non avrà più peso.