Aida in cerca di Radames
La donna e l'autobus
Il pensiero sul tavolo
Paròla

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

I racconti di Aida & Matisse

Aida in cerca di Radames

"Toc, toc!"
"Uff..! Arrivo!!.." risponde Efesto che si trascina zoppicando alla porta del tempio. Stava forgiando con noia un fulmine che gli sarebbe servito più che altro per entrare nella tela di Rubens al Prado di Madrid.

"Mi scusi" dice Aida, "cercavo Radamès.."
"Entra, sarai stanca.. Io sono caduto per un intero giorno prima di atterrare. Posso offrirti qualcosa?.. Una tisana calda d'Elio, della torta d'argilla?.."
"No, grazie, sono venuta solo per morire.."

Aida si guarda attorno, la stanza è quella della fucina: buia, cieca, funerea al giusto grado. Radamès è disteso, appiattito all'angolo destro della porta, quasi dimenticato tra:
- 6 frecce d'Apollo e d'Artemide
- 4 staffe di cavalli a dondolo
- il collare d'Armonia
- un'escussione dell'avvocato di Giove al tempo della nascita di Atena
- otto rotoli di idee per la costruzione di un carro solare
- 2 statuette di porcellana raffiguranti angeli che si danno le ali
- una catena promessa a Prometeo
- un martello senza manico
- una lima senza denti
- 20

Radamès ha la faccia più morbida nel sonno. Aida si avvicina, gli si siede accanto. Sfiora lentamente i suoi capelli per destarlo.

"Ehi! Voi due, laggiù ...Occhio al fulmine...OOOPS (!!!) ..."
Sfuggito dal cuneo (inteso come attrezzo), il fulmine abbrustolisce e spegne l'eterea fanciulla.
"Arghh! Ed ora dove li butto 45 chili virgola quattro di cenere azzurrina....??" brontola Vulcano mentre Zeus gratta gratta le nubi cercando di fare tempesta.


La donna e l'autobus
La donna non era guidatore dell'autobus. Era evidente la sua preoccupazione di essere ben seduta e ben "aggiustata": passò le mani sul vestito rosso a toglierne le pieghe, si assestò per meglio aderire alla curvatura del sedile, col dito bagnato di saliva tolse un'invisibile macchia dalla borsa, guardò soddisfatta la macchia che non si vedeva, strappò con gli incisivi un filo che pendeva dall'orlo della manica sinistra, accavallò le gambe, accarezzò il ginocchio e parve concludere questa serie di operazioni assumendo l'aspetto di una persona che ha compiuto l'opera lontana da me. Aveva occupato il posto: l'unico rimasto libero dietro il sua.

Io scrivo così. Come quella donna. Faccio della forma della scrittura un comportamento: ne tolgo le increspature, inarco gli attributi, detergo gli aggettivi, sradico gli avverbi, incrocio le parole fino a perderne il senso. Le abbellisco di un valore forse estraneo all'intenzione originaria: il suono.
Se lo stile attinge alla mitologia personale e segreta dell'autore, il mio non poteva che essere questo. Prigioniera del mio nome, il suono si espande indipendentemente dalle mie responsabilità.
Ecco il motivo per cui, spesso, non riesco a seguirvi. Mi sento così inadeguata, inopportuna, ingabbiata... L'ideale sarebbe un'assenza ideale di stile, la perdita volontaria di ogni ricorso all'eleganza, alla ricerca del particolare a favore del tutto, all'ornamento artificioso, al destino della musica...
"La forma costa cara" diceva Valery, io la sto pagando con una mia peculiare solitudine.


Il pensiero sul tavolo

Quando trovò questo pensiero sul tavolo della cucina, giudicò dapprima si trattasse di uno scherzo. Per diverse ragioni. Innanzitutto non c'era cucina nell'appartamento di Matisse. Poi non c'era pensiero che lei lasciasse depositare impunemente. La storia termina ancor prima d'aver saputo iniziare.
Seguì vagamente con gli occhi un cane che passava dopo aver fatto pipì sulla facciata di un ristorante. Al momento di terminare la curva, il cane aveva alzato lo sguardo alla terrazza. Una lacrima colava nei suoi occhi. Matisse lo avrebbe giurato.
Lei non era sentimentale nel senso abituale del termine. Era sentimentale nella misura in cui provava sentimenti per tutto ciò che vive. Io ricordo di averla sorpresa mentre parlava con una pietra e non credo di sbagliarmi se aggiungo che la pietra in questione sembrava seguire attentamente il filo della sua narrazione. Amava essere guardata ma non voleva farsi guardare. Era una persona complessa e sorrideva da lontano: con un gesto elegante della mano, ballava. E' incredibile quanto fossero dolci i suoi capelli.
.........
In effetti quello che poi è veramente successo, nessuno avrebbe potuto dirlo. Ciascuno dava la sua versione dei fatti. Si era vista, sembrava, passare una donna che danzava con le mani in una serata abbigliata, vale a dire in una serata graziosamente spogliata. Sulla terrazza non si parlava d'altro guardando la notte che inghiottiva il paesaggio come solo la notte
sa fare.
Quando troverai questo pensiero sul tavolo di una qualunque stanza di una casa qualsiasi, ritorna a Matisse. I ricordi sono come le macchie di colore sulla tavolozza di un artista: l'istante presente prende colori pallidi, quasi spenti. Cerca di leggervi il suo viso, le sue mani e lega ciò che porti in te ad una mail di arrivederci.


Paròla
Lui si chiama Paròla, ma il suo vero nome è un altro, già vecchio e dimenticato; così che a lui piace chiamarsi in questo modo: "Paròla, come va?" "E tu, paròla, ricordati le sigarette" Oppure: "Piano, piano Paròla! Tanto che ci frega?" Oltre che a sé, Parola si diverte a dare nuovi nomi anche alle cose. Gli piace definirle diversamente, in un codice suo che non è segreto e non è neanche un vero e proprio codice: ecco, è un codice poetico. Un neo-animismo che gli viene suggerito dagli oggetti (per via telepatica, omeopatica ecc.) Le lettere ad esempio (non l'alfabeto ma la posta), che tiene sempre in bell'ordine nel cassetto le chiama "trombette". C'è nel suo metodo qualcosa, un particolare, che rammenta il nome originario, e questo suo metodo, ha per franca oscurità di modi, un che di originale. Certo è un'inezia, una cosa così, una o due sillabe: un "ette". Perciò le sedie sono diventate "inedie" e "cherubino" il bicchiere. "Come metodo" lui dice "è abbastanza empirico". La sua non è facile anagrammatica e neppure un'oziosa disposizione ai giochi di parole, ma piuttosto la necessità come per il poeta (e lui, Paròla, è poeta solitario: "Scrittore" dice) di allargare entro breve spazio il suo universo linguistico. E non ci sono frontiere, né remore per le lingue sconosciute: pesca esotismi, coglie barocchismi, s'illanguidisce davanti alle lingue morte. In mezzo a questo "pastiche" idiomatico l'unico oggetto a conservare la propria naturale denominazione è il vocabolario: rosso, imponente, che porta sempre con sé, anche al gabinetto, dove legge, legge e trova nuovi nomi. Questa notte Paròla è assorto sui pezzi legnosi e colorati di una scatola di costruzioni, ne saggia le forme, le dimensioni: altezza, larghezza, profondità. Sempre alla ricerca di nuove combinazioni, di nuove possibilità di incastro. Questi quadrati, rettangoli, cerchi, hanno in loro qualcosa di vivo, sono i pezzetti geometrici dell'anima degli alberi. E a lui piace toccarli, farli scivolare tra le dita, ricomporli nella loro interezza di querce, di noci, di pini magnifici. Così, tra i polpastrelli un po' unti, cresce foreste lucide e lisce come la fotografia sul comò che lo ritrae quando era più giovane e portava ancora la barba. Paròla scruta la parte cieca delle anime. Paròla ascolta l'ansimare cupo del bosco. Quando il tavolo inizia a boccheggiare, con moto tumultuoso, via, via più rapido, anche paròla ondeggia, su e giù, giù e su, e le posate tintinnano urtandosi e il vitreo corpo del calice si appanna e le costruzioni si sgretolano e le anime ululano e la luce illumina a ondate di buio la scena: la stanza è piena di mare (di UN mare), la stanza è piena di tempesta (di UNA tempesta). Un mare (Oceano?) e una tempesta ridotti a un mare e a una tempesta da "ridotto", e per via teatrale, da palcoscenico, come se ne vedono ancor oggi nel "Mosè" di Rossini. Un'infantile tragedia di cavalloni e di schiume di cartapesta. Sì, il mare di Paròla è proprio vero. Vera la tempesta, veri i fulmini che abbracciano il lampadario. A lui piace così, come nel quadro che ammira tanto.

Ha sulla faccia una mascherina di quelle del carnevale. Un domino nero che forse nasconde l'assenza di parte del volto. Ché solo le pupille si vedono: liquide. Un fiore bianco, garofano, all'occhiello. Due baffi. Sta appresso a una bottiglia che non riesce a stappare. Le tasche piene di fuliggine. E' da sempre un appassionato degli Etruschi: della Civiltà etrusca, della Morte etrusca.. (e, in un certo senso, dell'urbanità della morte). Anche una barba finta, ispida, puntuta. Toglie dal frigorifero lo spumante ghiacciato e con un leggero sforzo scioglie la reticella metallica. Un po' di fuliggine sulla punta del naso che, nello strofinarlo è diventato nero. Il tappo non vuole uscire. Un'espressione indegna, un fare mitologico. Si terge la fronte col dorso della mano. Versa. Ma dalla bottiglia esce, fine fine, una polverina grigia. La scuote, ne batte leggermente il fondo sul tavolo aspettando l'esplosione del tappo. Si capisce che ha sturato un'urna cineraria. Con un velo sottile la fuliggine copre ogni cosa, e nel silenzio assoluto si leva fumante il suono delle trombette, attutito dal velo. Ogni bollicina racchiude un Etrusco; una necropoli dorata viene alla luce, sollevata dal fondo da questi minuscoli palloni aerostatici. Un botto. Il tappo che vola infila un quarto di luna del suo quarto di luna carnevalesco. Vola e sparisce in un nero senza fondo.

Nota depositata al Museo di Tarquinia, aprile 19...
La testa mi gira, gli oggetti mi girano, mi navigano attorno gli Etruschi. Nel vortice intravedo me stesso come sfasato rispetto all'immagine cosciente che ho di me: io non ci sono ancora che l'altro (io) già beve, e la difficoltà del tappo, ecc. Ecco come vedono i morti. Come me, come gli Etruschi, appunto, morti. Senza rispetto per il tempo. Alla fine sono eccitato, che quando apro la finestra una folata più forte mi rapisce (o, meglio, rapina) la testa. "Bisogna cambiare l'aria". Non penso, non dico - "Un'urna cineraria"

Già da tempo Paròla non esce più. "Il cuore" si giustifica, poggiandovi sopra una mano "non è più quello di una volta, e anche le gambe.. E solo pochi anni addietro cosa era per me la bicicletta, una sottana, cinquanta chilometri: Bergamo-Milano, Milano-Bergamo". La testa però, la bella testona di Paròla, è sempre la stessa. I ricordi, la memoria che riesce ancora a trovare.
"Li aspettavo! Li aspettavo da tempo!".