Rocca
della Testa del Sud
Ore
05.30 am
Ho fatto una promessa: bere l'anima di un'alba in Australia. Liscia,
gassata o…? Vedremo. Intanto iniziamo ad alzarci e manteniamo
la promessa fatta. Il plurale majestatis mi fa sentire in buona
compagnia. Fatico ad aprire gli occhi e a sollevare la cornetta
del telefono che continua a gracchiare insolente. Poi lo faccio
e già sono sveglio.
In pochi minuti sono pronto ad uscire. Il concierge mi saluta
con la mano.
Sydney, mezza addormentata, mi accoglie stiracchiandosi pigramente
al soffio dell'aria fresca. Indossa un pigiama di microscopiche
stelle gonfie d'acqua.
Allargo le braccia e la stringo a me, in un respiro profondo che
invade ogni mia cellula.
Con gli occhi sfioro le strade deserte. Le sfioro piano, per paura
di destarle bruscamente.
Intorno, soltanto l'eco dei miei passi che si moltiplica portandomi
lontano.
C'è azzurro nel vento.
E come un folletto dispettoso gioca ad arruffarmi i capelli.
La baia, adagiata mollemente tra il verde, mi strizza l'occhio
tra gli alberi di piccole barche che stanno cullando sogni di
vele spiegate.
Palpebre abbassate, grigio acciaio, sigillano i negozietti del
porto.
Sono solo e non ne sento la mancanza.
Un auto rallenta e s'avvicina: "do you need a taxi"?
Ci penso una frazione di secondo e poi salto a bordo.
Chiedo di andare dove non c'è nessuno, neanche i tassisti.
"OK" risponde l'autista osservandomi perplesso dallo
specchietto retrovisore.
Quindici minuti di immagini, pescate alla rinfusa al di là
del finestrino, riempiono il vuoto di parole tra noi.
Rallenta e si ferma di nuovo. E' proprio un posto solitario, penso.
Pago, scendo e dimentico la mancia.
Faccio un giro completo su me stesso. Registro riferimenti, distanze,
altezza e densità emotiva.
L'auto intanto s'è allontanata nel nulla.
Ascoltando il rumore del silenzio, m'inebrio dell'assenza di voci
e sono preda di un attacco di euforia che a stento riesco a controllare.
Poi una lieve vertigine mi costringe a riprendere contatto con
l'ambiente intorno.
Il mio sguardo viene catturato e s'incatena a una rocca a picco
sul Pacifico. Anzi sarebbe meglio dire "nel Pacifico".
Artigli di arenaria protesi verso lo spazio in strati di colore
pietrificato.
Un cartello recita: Rocca della Testa del Sud. Altrimenti nota
come Rocca dei Suicidi.
E' delimitata da filo spinato e sbarre di ferro, un cartello prega
(please) di non oltrepassare le barriere. Io, ovviamente, non
ci penso neanche a rispettare il divieto.
Poche agili manovre e sono dall'altra parte.
Sondo il terreno sassoso, pieno di frammenti piccoli e grandi,
con un bastone di eucaliptus trovato per terra. Ho voglia di salire
in cima alla Rocca e osservare il basso da lassù. Un piede
avanti all'altro e inizio la scalata. Rosarancio e oro vestono
i miei passi dei colori del mattino.
Scaglie di terra dura sembrano sfaldarsi come unghie sotto le
mie scarpe. Di nuovo il vento. Questa volta però non sta
giocando e mi aggredisce come un guardiano irritato da un visitatore
inopportuno.
Finalmente conquisto la vetta e mi alzo in piedi su quel pinnacolo
che misura non più di un metro e mezzo di diametro. Un
urlo di pietra stratificata, lanciato in mezzo a impetuose onde
di disperazione salata. Mi guardo intorno dapprima movendo solo
gli occhi e poi lentamente facendo perno sui miei piedi. Sono
sospeso. Sospeso nell’aria, sospeso nel mare, sospeso nel
tempo e nella ragione. Qualcosa d’inquietante m’attorciglia
lo stomaco. L’assurda voglia di fare un passo più
lungo e arrivare a pochi centimetri dal vuoto. E sentirlo addosso
quel vuoto, sentirlo dentro, respirarlo a pieni polmoni, respirarlo
con la pelle e con gli occhi. Lasciarmi prendere in affitto da
questo misto di paura, irragionevolezza e pazzia.
Fare l’amore con l’idea d’un volo in planata.
Icaro doveva sentirsi così. Sento spuntare le ali e un
fruscio piumato accompagna i miei passi immaginari verso il cielo
australiano. Nella mente vibra il suono ipnotico d’un didgeridoo,
fermando le lancette del mio pensiero sull’assurdità
di quegli istanti.
Un brivido sale su per la schiena correndo come un piccolo serpente
umido.
Crollo in ginocchio e accolgo la testa fra le mani mentre parole
senza suono fuggono disordinate dalle mie labbra. Rimango accartocciato
nei colori di quest’alba provvisoria per non so quanto tempo.
Poi piano mi chiamo per nome, mi parlo sottovoce, e rientro in
me stesso dalla porta di servizio.
Il mondo è ancora là, vivo, palpitante, davanti
a me. E mi sta aspettando.
Il sole, quasi sveglio, mi accarezza le spalle. Tiepido tocco
su morbido cachemire.
E intanto i gabbiani volano basso...
La
luce verde di Barcellona
E’
stata colpa di quella luce. Tutta colpa di quella luce là,
quella verde fosforescente, se sto a Barcellona, adesso. Che io
mica ci volevo venire, anzi, io volevo andare a vedere Berlino,
che è molto più tedesca di Barcellona. Praticamente
qua è come una Madrid che è andata in vacanza al
mare. E poi sono tutti spagnoli a Barcellona. Anche i turisti
stranieri sono spagnoli. Anche io. Proprio uno spagnolo di Barcellona,
sembro. Amigo, que pasa? Che mi ricorda la canzone degli Intillimanni
di quando andavo in giro con la sciarpa a quadrucci rossi e bianchi
e le frange, che poi era una tovaglia piccola di mia nonna, anche
un po’ strappata. I barcellonesi sono gente strana. Così.
Strana, appunto. Non dormono mai e escono tutte le sere dopo cena,
solo che un po’ più tardi. E poi ridono. Ridono un
casino, per ogni cosa, ridono. Sembrano cubani coi vestiti seri
e senza Coimbra. Ecco, se non avessi visto quella luce verde fosforescente
adesso non stavo qua, a guardare questa cosa strana che ha fatto
Gaudì. Gaudì era un architetto catalano che secondo
me però era di Barcellona anche lui, in fondo in fondo.
Faceva le cose surreali Gaudì. Anche io faccio le cose
strane a casa mia. Ma nessuno dice che sono surreale. Dicono che
sono matto e basta. Dicono. Loro.
Inizia a piacermi, qua. Ieri in un negozio di dischi ho incontrato
un francese di Barcellona. Prima era di Parigi. S’è
sposato una spagnola e adesso gli stanno sul cazzo, i francesi.
Ecco perché è diventato spagnolo anche lui. Agli
spagnoli i francesi stanno un po’ sul cazzo in generale.
Forse perché ridono poco e sembra che hanno sempre il naso
in sù come schifati da tutto, i francesi. Questo invece
rideva proprio come uno spagnolo. E usciva anche tutte le sere
dopo cena, solo che un pò più tardi, ha detto. Beato
lui. La luce verde fosforescente era una scritta e diceva -Vieni
a Barcellona: offerta speciale 88 euro-. E lampeggiava,
che per leggerla tutta ho dovuto rimanere sotto il cartello e
leggere a rate. Allora ho pensato che un mio amico che lavora
in un’agenzia di viaggi dice sempre che le occasioni così
vanno prese al volo. E io l’ho presa al volo e sono partito
con l’aereo. Solo che non pensavo di andare a Barcellona
così, subito. E neanche la valigia avevo. Solo la 24ore
con gli appunti per la riunione di oggi in ufficio, che gli ho
telefonato e ho detto che avevo l’emicrania, anzi non –emi-
ma proprio tutto intero ce lo avevo il mal di testa e che non
potevo andare. Loro mi hanno detto riposati e io gli ho detto
non preoccupatevi sto a letto e ho il cellulare acceso per le
emergenze. Poi ho tolto la batteria al telefonino, così
per accenderlo devo rimontare tutto e mi passa la voglia. Invece
di voglia m'è venuta di assaggiarla, a Barcellona. Un altro
mio amico dice sempre che una città si vede da come mangi,
dice quest’altro mio amico. Lui fa il cuoco. Io no, ma mi
è venuta fame lo stesso. E dire che se quella luce fosse
stata rossa non ci sarei venuto a Barcellona. Che il rosso mi
fa venire l’irritazione. Un pò come l’orticaria
ma senza bolle. Per fortuna che era verde. Per fortuna.
Io
siamo un gruppo ben affiatato, nonostante.
La
stanza da letto è di dimensioni normali. Un letto normale,
una cassettiera normale, comodini normali, lampada normale. Quadri
normali appesi alle pareti. Una normalissima tenda nasconde finestre
ultra normali.
Una super-normale stanza da letto. Come se ne trovano in tutte
le case normali.
E allora che c’è di strano, vi domanderete voi. Niente,
rispondo io.
E’ il resto della casa che è spettacolo vero.
Specchi. Ovunque specchi. Specchi dappertutto. Grandi, enormi.
Cielo-terra, a parete, sui soffitti, negli angoli.
Specchi tra gli scaffali della libreria, attaccati alle porte,
sulle ante dei pensili in cucina, dentro al caminetto, in salone.
Cornici di specchi, tavoli di specchi, piatti d’acciaio
lucido antigraffio, così ti specchi anche lì.
Pavimento di specchi. Così ti cammini sopra. E cammini
sopra anche a tutti gli altri. Tutti quelli che ogni volta che
entri in casa ti si fanno incontro da davanti e quelli che corrono
verso di te di lato, e quelli che ti osservano come spie, appesi
al contrario, dal soffitto. Cioè, a quelli appesi al soffitto
non puoi camminargli sopra ma sono gli unici che si possono guardare
negli occhi da vicino. In effetti hanno un’espressione da
pazzi che m’inquieta un po’ e cerco di non incrociare
il mio sguardo con il loro. Li saluto giusto una volta ogni tanto,
per evitare che s’innervosiscano troppo pensando di essermi
antipatici. Eh già, perché, stavo pensando, se per
caso in preda alla rabbia mi sputassero tutti quanti insieme non
ci sarebbe mica da stare allegro, cavolo!
Poi ci sono quelli di spalle, che fanno finta di non vederti e
sembrano allontanarsi tanto quanto tu ti avvicini. In modo inversamente
proporzionale. E allora sentendoti rifiutato ti sfoghi con quelli
che stanno la sotto, sotto i tuoi piedi e che sembrano incollati
con l’attack forte. Se tiri su il piede viene su anche il
loro, se gli salti sopra sembrano scansarsi ma poi rimangono lì
a farsi calpestare. Subiscono e basta. Che personalità
del cazzo. A farsi maltrattare così. E’ proprio il
caso di dire che si fanno mettere i piedi in testa da tutti. Anche
se effettivamente l’unica volta che gli ho visto la testa
da vicino è stato quando mi sono chinato a raccogliere
il mio specchietto da borsello e, anche se ci ho provato, non
sono riuscito a sferrargli un calcio in faccia.
Io sono figlio unico. Mia madre dice per fortuna. Io però
ogni tanto incontro mia sorella, mio fratello e qualche altro
amico. Mi vengono a trovare quando sono solo e non c’è
nessuno in casa. Ecco perché mia madre dice che sono figlio
unico. Lei non li ha mai incontrati. Però, dico io, dovrebbe
ricordarseli visto che li ha partoriti lei. Dev’ essere
il “morso di Alzheimer”. Ho sentito dire che è
più pericoloso di quando ti morde una vipera. Praticamente
puff… ti si mangia il cervello in tre bocconi. Quando mi
vengono a trovare mio fratello, mia sorella e qualche altro amico,
di solito ci chiudiamo in camera da letto. Abbiamo bisogno di
stare da soli con noi stessi, ogni tanto. Non siamo neanche padroni
di litigare con tutti quelli che ci guardano, là fuori.
Mia sorella è una complessata, soffre di solitudine e così
ha voluto gli specchi perché dice che le sembra d’essere
insieme a tante amiche. Quando ha voglia di fare due chiacchiere
si siede per terra in mezzo al corridoio e organizza una conferenza
stampa. E’ sempre sicura che parteciperanno in molte. E
ha ragione, è sempre affollato là fuori. Mio fratello
è un tipo strano, ha dei gusti tutti particolari e non
gli piace il mio modo di vestire. L’altra volta si è
messo a strillare contro di me perché portavo dei pantaloni
di quelli un po’ moderni, quelli con gli strappi per il
ricircolo d’aria. Ha detto che gli sembravo un barbone.
Allora prima mi ha costretto a togliere tutto, anche i boxer con
i dinosauri che mi aveva regalato lui, e poi s’è
messo di nuovo ad urlare dicendo che l’avevo lasciato nudo
rubandogli i vestiti e che ero uno svergognato ingrato. Gli ho
dato il gessato di papà ma non l’ha voluto. Dice
che da quando gli hanno messo tre punti sotto al mento l’odore
dell’ospedale gli fa venire la nausea.
Il suo amico poi non ne parliamo. Sta tutto il tempo seduto sul
mio letto a mangiucchiare pop corn e burro d’arachidi, olive
e salatini, pistacchi e cioccolatini, salamini, formaggini, panini
imbottiti, trapuntati e con il risvolto. Mi riempie il letto di
briciole e poi mi viene da grattarmi tutta la notte dal prurito.
Ieri glie l’ho detto: ma lo vedi quanto sei diventato grasso?
Sembri un pallone enorme con una palla da bowling al posto della
testa. Lui ha smesso di masticare e si è alzato. Si è
guardato allo specchio e ha visto che non c’entrava tutto.
Allora si è infuriato e mi ha mandato al bagno a pesarmi.
Oh, pesavo 117 chili, mica uno scherzo!
Basta! Ho deciso! Adesso mi faccio una bella visita dal dietologo
e inizio una dieta seria ed equilibrata, sennò mia sorella
non può indossare il bikini la prossima estate. In fondo
non mi costa niente, il dottore è un vecchio amico, praticamente
siamo cresciuti insieme. Devo solo prendere un appuntamento.
Prima però devo ricordare dove ho messo il camice e il
ricettario…
Se
non è pazzia, allora è una zucchina
Stamane
all'angolo della strada c'era un tipo strano. Camminava scotendo
la testa e ciondolando le mani, in un muto discorso senza fine.
Poi all'improvviso ha iniziato a imprecare urlando, e stavolta
a tutto volume, contro Re Pipino e contro Nerone che non aveva,
prima di incendiare Roma, costituito il corpo dei Vigili del fuoco.
Ho
pensato: questo è matto.
Poi
ho pensato: questo è matto e, meno male, che se questa
è pazzia, e lo è, io sono sanissimo. Sano come una
zucchina. Quelle dell'orto di mia nonna. Belle, normali e inequivocabili.
Io non ho mai ucciso nessuno, neanche una mosca. Forse qualche
zanzara, d'estate, tanti anni fa quando non capivo, e solo quelle
che mi avevano punto. No, non mi piace uccidere le zanzare, poi
le rondini morirebbero di fame. Per questo chiudevo la mia sorellina
in camera e non la facevo uscire da maggio a settembre. Perché
lei le avrebbe uccise, le zanzare. Avrebbe comprato quelle bombolette
piene di veleno spray o quelle girandole verdi che insudiciano
l'aria. Per questo le ho dovuto mettere le goccine nell'acqua.
Così lei dormiva e non s'accorgeva se qualche zanzara,
per errore, la pungeva.
Io cammino dritto dritto per la strada. Non ciondolo le mani e
neanche la testa. Cammino così dritto che se mi cade qualcosa
per terra devo applicare il teorema di Pitagora per calcolare
il grado di flessione, che sono anche un buon matematico. Quando
sono in casa, porto sempre tre-quattro libri in testa per esercitarmi
a camminare dritto dritto. Però niente classici, o mattoni.
Compro solo Liala e Danielle Steel: libri leggeri insomma. Anche
se hanno 658 pagine e rilegatura rigida.
A me fanno rabbia quelli che urlano e cantano sugli autobus e
non rispettano la legge. "Non parlare al conducente"
c'è scritto sul cartello. E a quelli non glie ne frega
niente, e quel poveraccio dell'autista deve sopportare tutto e
rispondere a domande inopportune. E' per questo che l'altro ieri
ho portato il nastro adesivo, quello largo largo, di tela resistente,
sull'autobus della linea 64. Ho imbavagliato tutti i passeggeri
e anche l'autista. Così non potevano dire che era maleducato
se non rispondeva alle domande. Che tanto non le potevano neanche
fare le domande tutti imbavagliati, ma per sicurezza è
stato meglio imbavagliare anche lui. Non si sa mai.
Oggi sono rientrato a casa prima del solito. Ho trovato in cortile
dei bambini che stavano torturando delle lucertole. Gli tagliavano
la coda per vederle muoversi da sole senza il resto del corpo.
Allora gli ho detto: vi sembra giusto quello che state facendo?
E loro hanno risposto: tanto gli ricresce.
Io non lo sapevo che se si tagliano le code quelle ricrescono.
Forse sono come i capelli: più li spunti e più si
rinforzano. Allora ho preso il pastore belga di mio zio e gli
ho mozzato la coda. Poi gli ho messo la lozione rinforzante ma
quello scappava e strillava che non sembrava neanche più
un cane. Allora gli ho detto: peggio per te, quando ti ricrescerà
la coda, i peli saranno deboli e diventerai pelato!
Poi sono andato su, in camera mia. Ho aperto l'armadio e mi sono
salutato nello specchio. Era tutta la mattina che andavo in giro
e ancora non mi ero fermato a dirmi almeno buongiorno. Forse ero
irritato con me stesso per qualche cosa e non lo sapevo.
Me lo sono chiesto. Non mi sono risposto mica. Ho continuato a
guardarmi con questa faccia da scemo senza dire una parola. Certe
volte non mi capisco proprio. Non sarebbe meglio parlarne tra
me e me, invece di tenermi il broncio da solo?
Bah, io mi sto un po' sul cazzo quando mi comporto così.
Quasi quasi la prossima volta che m'incontro mi do' un sacco di
botte...
Al Blues Canal avrebbero dovuto suonare jazz,
quella sera
Lo spicchio di limone si divincolò
ancora, cercando di sfuggire all'ennesimo attacco della cannuccia
a righine blu che, con un colpo secco e preciso, lo inchiodò
al fondo di vetro del bicchiere e iniziò a farlo girare piano,
in ipnotici cerchi concentrici.
Occhi aspri al lemonsoda e davanti, un contro-umore alla birra scura,
con pizzetto.
Al Blues Canal avrebbero dovuto suonare jazz, quella sera.
Avrebbero dovuto.
- Senti, andiamo via di qua. Non si riesce neanche a parlare...-
Con un gesto a metà tra l'irritato e l'esasperato, Danny
afferrò il giubbotto di jeans chiaro ed uscì. Tam
lo seguì a ruota gettando un ultimo sguardo al cadavere dell'agrume
e alla cannuccia assassina. Qualche goccia di pioggia distratta
bussò sulle maniche della camicia di Danny che affrettò
il passo, anche se apparentemente sembrava non prestarvi attenzione.
Tam faticò a tenergli dietro; non aveva una falcata da circa
un metro e dieci d'apertura, e le scarpe col tacco le impedivano
di sostenere un'andatura vivace sul fondo scivoloso che lastricava
le viuzze attorno al Naviglio. Tintinnio di chiavi, testa bassa
a schivare le goccioline che ora stavano facendosi più attente
e con uno "sbam" soffocato, la pioggia e Milano restarono
fuori delle portiere dell'auto.
Quindici secondi di silenzio tagliato sottile, servito tra un sedile
e l'altro. Con contorno d'occhiata eloquente. - Allora, come va?
? Il tono di Danny era di quelli che dicevano: "Dai, parla,
sfogati, sono qui." Con gesto nervoso e spostando lo sguardo
fuori del parabrezza Tam sfilò la fascetta nera che le stava
strozzando i capelli in alto, in una coda di cavallo lenta e disordinata.
Chissà perché, quando c'era qualcosa che non andava
o l'umore si riempiva di nuvole minacciose, non riusciva a tenere
i capelli legati. Il passare le mani sul viso e poi in mezzo a quella
massa pesante di fili chiari, le dava quasi l'impressione di riuscire
ad afferrare i pensieri che s'agitavano senza sosta nella testa,
di poterli ingabbiare tra le dita per poi domarli, riconducendoli
alla ragione.
- Cazzo, una vera merda...-
Danny soffocò un singulto; un lieve rantolo fischiato scivolò
nell'aria umida, testimone suo malgrado di una strascicata bronchite
primaverile. - Cristo santo Tam, che v?insegnano al SISDE, pubbliche
relazioni con il botto? Non ti ricordavo così...-
Lentamente si girò a perforare gli occhi luccicanti della
bionda, facendo frusciare la fondina da polpaccio della piccola
Beretta Cougar, nascosta sotto lo spesso strato di cotone dei pantaloni.
La cicatrice diramata sulla rotula sinistra cominciò ad urlare
la sua vendetta; sentì distintamente la placca di titanio,
che gli sostituiva l'articolazione, mandare un sinistro avvertimento
di torsione sbagliata. Quella donna gli ricordava troppe notti insonni,
troppe sigarette russe, troppe ore passate ad ascoltare conversazioni
rubate. Si concesse un lento sospiro accarezzando la cascata chiara
che scintillava alla luce dei lampioni piantati sui marciapiedi
fradici; i capelli di Tam avevano fatto perdere la testa a più
di un dirigente del servizio segreto.
- Senti, lo so che non è facile ma, insomma, è il
tuo lavoro! Hai sudato sangue per riuscire a far carriera in questo
cazzo di mestiere. Quanti buchi maledetti hai visitato in questi
anni Tam? -
La bionda sorrise nella penombra spruzzata di tensione latente.
Era vero. Era tutto dannatamente vero. Quella era la sua vita. Aveva
lottato per arrivare in quella posizione: responsabile operativo
della divisione L. Cedere adesso alle intemperanze nevrotiche del
marito avrebbe significato buttare nel cesso tutto quello in cui
aveva creduto. Eppure...
(Torna su)
Emailmania....
E’ tutto come al solito. Stessa aria. Come sempre di mattina
presto o di sera tardi. Senza scossoni e terremoti improvvisi.
Ti siedi, accendi il computer, sistemi il tappetino del mouse e
fissi gli occhi sullo schermo: Windows 95. Outlook express. Click.
“Nell’archivio esiste spazio inutilizzato. La compressione
dell’archivio consente di utilizzare al meglio tale spazio.
Comprimere l’archivio ora? Sì – No” .
Click – No –
Non te ne frega niente di comprimere l’archivio proprio adesso.
Proprio in questo momento. Mentre il bisogno di leggere e di comunicare
ti mangia lo stomaco a morsi piccoli, a strappo.
Sarà crisi d’astinenza? Ma astinenza da che? Dall’essere
te stesso senza dovertene vergognare? Dal poter comunicare senza
false maschere? Da libertà d’espressione che solo l’anonimato
o la lontananza può regalarti? O magari dal poter impersonare
colui che vorresti o non vorresti essere?
Forse. Fatto è che non lo vuoi comprimere adesso quel dannatissimo
archivio.
Mano sul mouse ergonomico: tre tasti e doppia rotella di scorrimento
veloce. Invia-Ricevi. Click. Posta in arrivo: (1) (2) (3) (4) (5)
(...) (11).
11 nuovi messaggi in posta in arrivo.
Ahhhh. Sospiro di sollievo.
Porc!!! Pubblicità. – 1. Ufficio. – 4. Quel rompipalle
dell’amministratore. –5.
Alla fine ne rimangono soltanto 6. Soltanto? E che vorresti l’afflusso
delle PP.TT.?
Gli occhi veloci leggono i mittenti. Sì, sì, sì,
toh chi si vede, sì, sììììììì.
La prima dose è entrata in circolo. Ti rilassi e finalmente
poggi la schiena sulla spalliera della sedia.
Inizia il rito della lettura. Click. Il primo messaggio perde il
brillante colore azzurro-verginità.
Sei dentro. E cominci ad accarezzare con lo sguardo quelle righe
Times New Roman carattere 12.
Più leggi e più leggi. Non vorresti così velocemente,
sennò poi il messaggio finisce subito, ma non puoi farne
a meno e non riesci a trattenerti. Come un assetato ad una sorgente
d’acqua fresca. Prima ti disseti senza avvertire il gusto
dell’acqua poi, sazio, cominci ad assaporare le piccole gocce.
Veloce parte la risposta: quasi che avessi paura di interrompere
quel contatto. Anche se il messaggio ti è stato inviato 6
ore prima e presumibilmente non c’è nessuno in quel
momento dall’altra parte. E poi avanti così, il secondo
il terzo il quarto il quinto e infine l’ultimo. Per ognuno
una risposta, un’interpretazione.
Signori e signori, si alza il sipario. Via le luci (tranne quel
faretto bianco “angelico” che t’illumina nel ruolo
del solo protagonista). Inizia lo spettacolo. Ti-ti-ti-ta-ta-tà.
ti-ta-ta-ti - tatà. Le dita sfiorano con amore i tasti, come
farfalle su petali di fiori di vetro. E tutto ciò che senti
lo vorresti trasmettere con la stessa intensità attraverso
il feltrino che attutisce la tua folle digitazione. Espressioni
vive prendono forma sul tuo viso e tutto il corpo si atteggia a
pose intonate al ritmo che vai suonando.
Assolo al pianoforte, allegro ma non troppo. Vivace. Vivace con
movimento. Tutte le quattro stagioni ti scivolano addosso mentre
ti vendi l’anima al provider per avere la connessione più
a lungo possibile.
Alla fine del concerto solingo, l’assolo lo lanci con distacco.
Pausa ad effetto. Click. Invio. Invio messaggi in corso. Cala il
sipario. Inchino. Applauso personale.
Su il sipario. Click. Invia - ricevi. Nessun messaggio nuovo.
Com’è possibile? Non c’è nessuno che sente
il tuo grido? Di nuovo: Click. Invia-ricevi. Disconnessione in corso.
Nessun messaggio nuovo. Quasi t’indigni per quel silenzio
assurdo. E dire che anni fa se ti arrivava una lettera prima di
7 giorni dalla data di spedizione pensavi: ah, ha fatto presto…
Ti rassegni. Tu il tuo messaggio in bottiglia lo hai gettato in
mare. Tra i tanti navigatori del web, qualcuno lo raccoglierà.
Click.
Disconnettersi da tiscalinet? Sì – No.
La freccia del mouse si stordisce di cerchi concentrici.
Alla fine cedi alla ragione. – Sì –
Gli occhi si chiudono da soli. Meglio. Arriverà presto domani.
E domani mattina tornerai ad essere te stesso.
Forse.
INCUBO
Lara si guardò nello specchio. Con la punta del dito mignolo
asportò la lieve sbavatura del burrocacao alla fragola dall’angolo
della bocca. Poi strizzò le labbra all’indietro come
per spalmarlo ancora di più e farlo aderire meglio. Ne sentiva
nelle narici e in gola il sapore dolce e fruttato.
Con movimenti imprecisi e tremolanti scurì le ciglia chiare
con il mascara “resistente all’acqua”, regalo
della sua amica Annamaria. Era la prima volta che Lara si truccava.
Si osservò meglio. Prima il profilo destro, poi quello sinistro,
poi di nuovo di fronte. Atteggiò il viso e le spalle a pose
da vamp. Fece boccuccia e sbatté più volte le lunghe
ciglia sporcate di nero, emulando scene d’improbabile seduzione.
Poi scoppiò a ridere facendo sberleffi alla propria immagine
e compromettendo ancora di più il già debole risultato
del suo make-up.
Una cerbiatta magra e ancora acerba. Due occhi verdi sempre in
movimento e curiosi di scoprire chissà quali segreti; le
gambe lunghe e muscolose, dono di ore e ore d’allenamento
sul campo da pallavolo; una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle
guance rendevano grazioso un viso abbastanza regolare, mentre la
zazzera bionda e cortissima sembrava animarla ancora di più
dello spirito allegro che abitava in tutte le sue fibre.
Era un ciclone in compagnia, sempre pronta ad entusiasmarsi per
idee scapestrate e a correre dietro a sogni irrealizzabili. “Per
gli altri” amava precisare ogni volta che era rimproverata.
“Per gli altri saranno irrealizzabili. Non per me.”
Acquario. Ascendente sagittario. Un dramma, dicevano in famiglia.
Una “figata”, diceva Lara con le sue amiche. <![endif]>
Prese la borsa fatta con lo strofinaccio dei pavimenti, ricamato
a punto croce con fili di lana colorata. Era la fine degli anni
settanta ed impazzava lo stile “hippy”. Lara non fumava
spinelli e non amava bere. Però indossava jeans a zampa d’elefante,
portava la camicia fuori dei pantaloni e l’immancabile foulard
era ora annodato su una coscia, ora avvolto intorno al collo, ora
a cingerle la fronte. Lo aveva acquistato di nascosto il foulard,
risparmiando tutte le mattine sui soldi della merenda. In casa non
volevano che lo portasse. E lei rispettava il divieto. Lo metteva
dopo essere uscita dal portone e lo toglieva prima di rientrare.
Le procurava un formicolio nello stomaco tenere il suo segreto in
tasca.
Uscì da casa alle tre e mezza. Alle sei doveva essere di
ritorno, altrimenti sarebbero state storie.
Era dura per Lara accettare le tante regole impostele dalla sua
famiglia: nessuna gita scolastica senza genitori, niente cene con
gli amici di scuola o di comitiva, niente feste a casa altrui, niente
mare se non scortata da un familiare, niente cinema e niente discoteca.
Una vita da reclusa. Con due ore e mezzo d’aria al giorno
e solo in pieno sole. Una vita da inconsapevole, innocente, peccatrice
punita dal castigo divino. Prima figlia femmina di una famiglia
mediocre ed ignorante. E di un padre geloso e ossessivo. Pazzo.
Qualche volta Lara pensava fosse pazzo. Ancora ricordava quella
volta che, in occasione di una partita di campionato, era stata
convocata come titolare a giocare fuori Roma. Una tragedia. Accuse
assurde furono scagliate su di lei e sui motivi per i quali voleva
andare a quella partita. “Sono stato a controllare al capannone,
domenica scorsa. Stanno tutti ammucchiati sulle gradinate. Chissà
che combinano la in mezzo…” aveva asserito urlando con
rabbia. Lara, per la prima volta in tanti anni, si era infuriata
e aveva scagliato valanghe di parole, veleno e risentimento contro
il suo atteggiamento indagatore, maniacale, e oltretutto totalmente
ingiustificato, che tanto la umiliava.
Uno schiaffone a mano aperta le lasciò evidente il segno
di cinque strisce di fuoco sul viso. Nell’anima invece, lasciò
un’impronta di cemento armato che indurì nel tempo
e appesantì i suoi sentimenti per quel padre violento.
Era sempre stato così, fin da giovane. Scorbutico e manesco.
Lara non riusciva a capire come sua madre, mite e paziente, potesse
sopportarlo. Non riusciva a capire come avesse potuto dividerci
diciassette anni della sua vita e dargli anche tre figli.
Con la moglie non aveva mai alzato le mani. Di questo anche Lara
n’era convinta. Ma con i figli era un’altra cosa. Loro
erano di sua proprietà e poteva maltrattarli gratuitamente.
Tutti i giorni, a tavola, guai a lasciarsi distrarre da un’immagine
in TV. Se s’impiegavano più di dieci minuti a mangiare,
si ricevevano pezzi di pane in faccia, scagliati con violenza. O
tovaglioli appallottolati sparati sugli occhi o per il malcapitato
che gli sedeva accanto erano serviti altri sonori sganassoni.
In quei momenti, la mamma con lo sguardo supplicava Lara e i fratelli
più piccoli di fare in fretta a finire quello che c’era
nei piatti.
Lui intanto si godeva lo spettacolo trasmesso dalle reti nazionali
mangiando rumorosamente e ignorando anche le più semplici
regole della buon’educazione. Se ne faceva un vanto della
sua rozzezza e non perdeva occasione di metterla in mostra ogni
qualvolta n’aveva l’occasione. Soprattutto se questa
si presentava nelle vesti di qualche compagno di scuola di Lara.
Sembrava godere nel far vergognare la figlia di suo padre. Sembrava
soddisfatto soltanto quando, grazie a lui, gli amici di Lara rifiutavano
anche solo di venirla a trovare a casa.
“Devono rispettarmi, come io rispettavo mio padre”
questo era quanto amava ripetere quando qualcuno gli chiedeva perché
fosse sempre così scontroso con i figli.
Non gli passava neanche per l’anticamera del cervello che
in quel modo non avrebbe mai ottenuto rispetto. Poteva incutere
paura o anche terrore, forse. E qualche volta disgusto. Ma mai,
mai, rispetto. Non da Lara.
Lara aveva in sé una tale pienezza di spontaneità,
di sincerità, che dagli occhi trasparenti trasudavano i suoi
pensieri e i suoi sentimenti. E, in fondo a quelli, si poteva scorgere
la robusta pianticella dell’odio che pian piano aveva messo
radici e s’inerpicava fin dentro al suo cuore. A Lara di suo
padre dava fastidio persino l’odore. Puzzava di prepotenza.
E le faceva venire il voltastomaco. Quando era in casa, lei apriva
tutte le finestre, anche in inverno. Sperava, invano, che insieme
alla puzza se n’andasse anche lui. <![endif]>
Erano le sei passate da quasi trenta minuti quando Lara suonò
il campanello. Uno scalpiccio veloce si fermò dietro la porta
che, con uno scatto metallico, si aprì.
“Lara, entra forza. Fai piano che tuo padre è in camera
che dorme” mentre diceva questo, la mamma gettò uno
sguardo all’orologio da muro in un muto, implicito, rimprovero.
Lara represse a stento un sospiro di rabbia. Era inutile discutere
con la madre: sottomessa era e sottomessa sarebbe rimasta. Il vero
problema era che sembrava considerare normale il modo in cui era
trattata. Mai, finché Lara n’aveva memoria, aveva sentito
il padre rivolgersi a lei con parole gentili. Mai lo aveva sentito
chiedere alla mamma qualcosa “per favore”, o dire “grazie”
dopo averla ottenuta.
Questi ormai erano discorsi ammuffiti e Lara era stanca di lottare
anche per chi non n’aveva nessuna voglia.
Entrò in bagno e chiuse la porta trattenendo a malapena
l’istinto di bloccare la serratura con la cesta della biancheria
sporca. Era rotta e la chiave era sparita. Lara odiava non poter
chiudere fuori, a doppia mandata, quell’atmosfera pesante
seppure per pochi minuti.
Sfilò, facendo forza con la punta dei piedi sui talloni,
le espadrillas decorate con le perline colorate.
Seguirono i jeans e la camicia. Dopo una veloce rinfrescata, Lara
sedette sul water, con indosso solo slip e reggiseno e iniziò
a sfogliare una rivista. Amava leggere, Lara. Di tutto. Dai libri
al dizionario, da topolino all’enciclopedia. E soprattutto
libri d’avventura e romanzi storici: con quelli poteva evadere
dal suo inferno personale e compiere imprese ardue e coraggiose.
Quella rivista doveva essere nuova perché la mattina non
c’era. Chissà chi l’aveva portata? In casa sua
leggere sembrava essere un delitto e soprattutto uno spreco di soldi.
Con uno schianto la porta del bagno si spalancò. Lara balzò
in piedi afferrando l’accappatoio e cercando di coprire il
corpo nervoso come quello di una puledra spaventata. Le budella
s’annodarono in uno spasmo dolorosissimo, mentre la rabbia
riempì prima i polmoni e poi la gola quasi soffocandola col
suo stesso odio. “Perché non bussi prima di entrare!??!!!
Perché non lo fai mai!!???” urlò quasi annegando
nelle sue stesse lacrime. “Mammaaaaa!!!”
“Non c’è tua madre, è scesa a ritirare
la posta: è inutile che strilli” intanto un ghigno
sadico si era dipinto su quella faccia orrenda che tanto le ricordava
l’immagine descritta nel “ritratto di Dorian Grey”.
Lara era paralizzata dall’orrore e dallo schifo. Guardava
suo padre, immobile sulla porta che l’osservava con uno sguardo
tutt’altro che paterno. Cercò di coprirsi ancora meglio.
Cercò di coprirsi ancora di più stringendo fino a
farsi male la cinta dell’accappatoio.
“Sei rientrata tardi oggi. Dove sei stata? Con chi sei stata?”
Il tono si era fatto minaccioso ed ironico allo stesso tempo.
“Sono stata ai grandi magazzini, con Annamaria”. Lara
si era rintanata nell’angolo più lontano. A farle scudo
soltanto la rivista che stava leggendo.
“Ah sì? Annamaria è una puttana. E tu? Tu ti
sei fatta toccare da qualcuno?” Intanto si stava avvicinando
con quel passo strascicato, trasandato. Lara pregava che cadesse
e sbattesse la testa. E non si rialzasse mai più.
“Annamaria è una brava ragazza ed è mia amica”
Rispose con un filo di voce. Le labbra le tremavano, perle di sudore
le brillavano sul viso, mentre brividi freddi s’insinuavano
sotto la sua pelle provocandole scariche nervose ad alto voltaggio.
Poi vide quella mano avvicinarsi, farsi sempre più vicino.
Artigli che volevano ghermirla e che, se l’avesse lasciati
fare, l’avrebbero ferita più con una carezza che con
una coltellata in pieno petto.
Quel pensiero le annebbiò la ragione, la rabbia le gonfiò
le vene, il dolore e la repulsione fecero scorrere adrenalina in
tutti i vasi sanguigni. Con una mossa felina si alzò ben
ritta in piedi sovrastando il padre di pochi centimetri. Lo fissò
negli occhi con cattiveria e avanzò verso di lui. Con un
gesto secco spinse via quella mano schifosa. Lui iniziò a
perdere sicurezza davanti a quella fiera inferocita che non riconosceva
come la succube figlia.
Lara gli puntò un paio di forbici sul petto. “Non
ti azzardare mai più a fare quello che hai appena fatto.
Non lo fare mai più. Sono stata chiara?” Ora l’odore
del padre non sapeva più di prepotenza. Adesso era odore
di paura. Paura della sua insospettabile reazione di forza. Paura
della sua ribellione.
Lara si allontanò dal bagno e si diresse verso la sua camera.
Poi, come se un pensiero l’avesse colta alle spalle, si voltò
di nuovo verso il padre che ancora la osservava a distanza.
Lo fissò e per una manciata di secondi lunghi come due vite
e non parlò.
Poi con calma innaturale sibilò: “Ah, dimenticavo.
Se ci riprovi t’ammazzo.”
E con un tonfo si chiuse la porta alle spalle. Il padre alle spalle.
La paura alle spalle.
Accese una candelina e ci soffiò sopra.
E poi pianse perché il giorno dopo sarebbe stato il suo
compleanno.
Quindici meravigliosi, schifosissimi, anni.
CON I PIEDI, CON GLI
OCCHI E CON IL CUORE
L’aeroporto di Muscat era un caleidoscopio di
tuniche bianche e lilla, e una confusione di baffi, barbe e telefonini.
Affollatissimo e saturo d’odori pungenti. Cardamomo, cannella,
curry, gelsomino e incenso. Odore di Medio-Oriente. Laura fece scivolare
gli occhi sulla massa ondeggiante di teste nere e lucide e su un
numero imprecisato di copricapo colorati. Socchiuse gli occhi nello
sforzo di isolare tra le mille voci schiamazzanti, qualche suono
conosciuto.
- Ahlan wa sahlan, habibi. Ben arrivata, tesoro.
Per primo avvertì l’alito caldo, profumato di liquirizia,
tra i capelli. Poi la voce bassa, roca e carezzevole. Si voltò
e per poco non gli rovinò addosso. Alzò la testa per
guardarlo in viso, incontrando nell’ordine prima la bocca
carnosa, poi i baffi scuri e curati, il naso dritto ed infine gli
occhi. Neri e ustionanti. Non aveva notato quanto fosse alto la
prima volta che s’erano incontrati, a Milano. Non aveva notato
neanche quello sguardo canzonatorio che adesso la stava esaminando
attentamente.
- Ciao, Nasser. Fa un certo effetto vederti vestito così.
Sembri diverso. Mentre lo salutava, Laura automaticamente accostava
al corpo lo spolverino blu notte, lungo fino alle caviglie.
Lui osservava, con un sorrisetto a metà tra il compiaciuto
e l’ironico, le sue manovre di copertura.
- Lora, rilassati. Non ho alcun’intenzione di rapirti per
chiuderti nel mio
Harem. Domani verrò in giacca e cravatta, se questo ti fa
sentire meglio…
- Ma cosa stai dicendo? Io non ho minimamente pensato a …
Sei un
presuntuoso!
Dannato beduino! Sembrava leggerle nella testa. E poi, pronunciava
male il suo nome. Laura, non Lora. Anche a Milano glielo aveva fatto
notare e lui, ridendo con quella parata di denti da pubblicità,
aveva risposto: sì, Lora. Me ne ricorderò. Nasser
avvicinò la mano al suo fianco e la diresse gentilmente verso
l’ uscita. Laura era tremendamente consapevole della sua vicinanza.
Anche troppo.
Dall’aeroporto all’hotel c’erano almeno venticinque
minuti d’auto e lei li dedicò ad osservare le aiuole
con l’irrigazione a goccia a goccia, che correvano lungo il
ciglio della strada a sei corsie. La pulizia meticolosa della città,
l’impressionò favorevolmente. Entrarono in un lungo
viale circondato di giardini. Nasser fermò la macchina, le
indicò una porta a vetri e, con la più assoluta tranquillità,
la informò di aver cancellato la sua prenotazione e di aver
riservato due camere in quest’altro hotel. Non voleva che
si dicesse in giro che trattava male i suoi ospiti. Soprattutto
quando si trattava di ragazze carine, fifone e malfidate. Fifona
e malfidata! Già le stava salendo alle labbra una delle rispostacce
che l’avevano resa famosa nel suo ambiente, che la voce le
si strozzò in gola. Un’altissima cupola di marmo bianco,
al centro della grandiosa hall, lasciava filtrare la luce di qualche
lampada nascosta con maestria, illuminando di toni d’azzurro
e verde acqua una fontana di forma esagonale. Archi appuntiti, in
chiaro stile islamico creavano una cornice di lucenti mosaici intorno
ad una piazzetta centrale con tanti piccoli, invitanti sofà.
Ad un angolo una tenda chiusa su tre lati arredata con tappeti soffici
e cuscini colorati ospitava un uomo intento a preparare sui carboni
ardenti, il tipico caffè arabo. Nell’aria aleggiava
il profumo dell’ incenso. Tutto contribuiva a creare un’atmosfera
solenne e magica. Osservò Nasser mentre sbrigava le normali
procedure di check-in. Si muoveva con grazia felina ed eleganza.
Si muoveva come uno abituato ad avere tutto. - Lora, habibi, è
tutto a posto. Questa è la tua chiave. Io sono nella stanza
accanto. Se hai bisogno di me, bussa pure. Le camere sono comunicanti…
Si sporse a baciare l’aria vicino al suo viso e se n’andò
sogghignando, lasciandola in preda ad una furia nera.
Dopo qualche minuto, salì anche lei. La camera era tutta
orientaleggiante, con mobili lavorati a mano. Il bagno era il triplo
di quello del suo appartamento a Milano. Controllò per bene
tutto, anche gli armadi. Bastardo! Non c’era nessuna porta
comunicante. L’aveva detto solo per irritarla. Allora pensò
di rendergli la pariglia. Fece il numero della sua camera e quando
dall’altra parte rispose già mezzo addormentato, gli
disse con voce suadente:
- Tisbah al khair, habipti. Buonanotte tesoro.
- Lora, io…
Non gli diede il tempo di continuare e riagganciò la cornetta.
...........................
- Madam, madam? Room service.
Sbattendo più volte le palpebre, mise a fuoco le lancette
dell’orologio. Le otto e dodici! Il cameriere continuava a
bussare.
- Yes, please. Come in. Prego, entri.
Osservò il giovane, probabilmente indiano, disporre sul tavolino
di fronte la finestra, ogni sorta di cibo. Poi aprire le tende,
lasciando entrare un luminosissimo giorno. Infine, con un sorriso
e un inchino appena accennato il cameriere uscì, chiudendosi
la porta alle spalle. Balzò sul letto. Il primo appuntamento
era fissato per le nove. Il suo sguardo fu catturato da un biglietto
poggiato sul piatto vuoto.
“Sabaah al khair. Buon giorno. Ti aspetto giù alle
otto e quarantacinque,
non fare tardi. Nasser”
Uno a zero per lui. Aveva ordinato la prima colazione in camera,
convinto che lei non si sarebbe svegliata in tempo. Ingoiò
il di succo d’arancia e quasi soffocò mandando giù,
senza masticare, tre o quattro biscotti farciti. Si preparò
in un lampo. Indossò un abito blu, corto sopra le ginocchia,
senza maniche e un paio di sandali in tinta. Truccò leggermente
il viso e mise anche due gocce di profumo. I capelli biondo oro,
li lasciò fluttuare liberi sulla schiena.
Nella hall, Nasser stava discutendo con qualcuno e le dava le spalle.
Indossava una tunica bianchissima e un turbante di un colore indefinito.
Forse uno scrittore mieloso l’avrebbe definito “color
mare in tempesta”. Laura si avvicinò, consapevole dell’effetto
che, di solito, ottenevano la pelle bianca, gli occhi verdi e la
magnifica cascata di capelli alla quale dedicava ore di cure meticolose.
L’ospite di Nasser era, infatti, visibilmente colpito. Lui
un po’ meno. Con totale indifferenza, fece le presentazioni,
poi la scortò al banco per consegnare le chiavi prima di
uscire. Avvertì chiaramente il suo risentimento nella stretta
esagerata sul braccio. Si divincolò leggermente e lo guardò
sollevando il mento in atteggiamento di sfida.
- Non farmi fare la figura del cretino, Habibi. Ho parlato di te
come di una
persona in gamba. Non hai bisogno di ancheggiare per far colpo sui
nostri
ospiti.
- Non avevo nessuna intenzione di sedurli, i tuoi preziosi ospiti,
Alì Babà.
Si pentì immediatamente della frase che le era sfuggita senza
volere. Contrita, stava cercando le parole per scusarsi dell’appellativo
poco simpatico quando lui esplose in una fragorosa risata.
- OK. Scusami, forse ho esagerato. Senti Lora, c’è
una variazione di programma. Andremo prima a Wahiba, nel deserto.
Poi proseguiremo per l’ entroterra. Jeans e scarpe da ginnastica
andranno benissimo. Mentre tu ti cambi, io intanto carico l’attrezzatura.
Laura accennò un sì con la testa e si diresse a passo
svelto verso gli ascensori. Pochi minuti dopo era già di
nuovo nella hall, pronta a partire. Si avviarono verso la porta
di cristallo e quella con un lieve fruscìo si aprì
come se li avesse visti arrivare.
Una ventata d’aria calda li abbracciò inaspettatamente
stordendoli per qualche istante. Il sole s’insinuò
dietro le lenti scure, facendo lacrimare gli occhi, mentre milioni
di microscopici granellini rosa lottavano contro i vestiti per conquistarsi
un posto dove potersi insediare.
- E’ una tempesta di sabbia Lora! Rientriamo! Non possiamo
partire in queste condizioni.
Nasser riparandosi il viso con un braccio, fece dietro front.
La voce tagliente di Laura lo colse alle spalle.
- La vita comoda che fai a Milano a modificato il tuo DNA Nasser?
O hai paura di dover portare l’auto al lavaggio se esci con
questo tempo?
La delusione di non poter partire si stava trasformando, per Laura,
in malumore. Continuò ad inveire contro Nasser, anche se
si rendeva conto che l ui non poteva far niente. Potevano soltanto
aspettare. E sperare che finisse presto.
- Insh Allah. Non è cos’ì che dite voi? E allora
andiamo lo stesso, no?
Tanto che cambia? Se deve succedere qualcosa, succederà anche
in albergo. Laura cercava di convincere Nasser e l’autista
a partire, nonostante le previsioni ascoltate via radio, qualche
minuto prima, fossero pessime. L’autista iniziò a parlare
in arabo con Nasser, gesticolando agitato e lanciando, di tanto
in tanto, occhiate torve verso di lei. In quel diluvio di suoni
gutturali Laura riuscì a percepire solo “saidati”
e “Allah”. Nasser ascoltò in silenzio per qualche
istante, poi con un gesto della mano lo zittì, gli mise in
mano un rotolo di banconote e lo congedò. In silenzio, senza
neanche una parola all’indirizzo di Laura, si alzò
e si diresse verso il banco della reception. Parlò con due
impiegati, che si prodigarono con mille sorrisi, e scomparve dentro
una porta invisibile.
Laura iniziò a sentirsi a disagio. Sapeva di sembrare una
isterica incosciente ma, aveva così tanto puntato su questo
viaggio che ogni ostacolo adesso rappresentava una perdita di tempo
e di opportunità.
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