Il cartello segnalava traffico intenso e lunghe code, ma per fortuna
tutto era fluito meglio del previsto e l’auto non aveva perso
velocità.
La pineta di Castelfusano le aveva riportato alla mente alcuni ricordi
che credeva sepolti del tutto. Non muore mai niente del tutto, aveva
pensato, non fino a quando la memoria riesce a tramandare le cose
vissute. Fra i pini di Monte Pellegrino aveva fatto un giorno l’amore
con Dino. Era un pomeriggio di marzo, la luce filtrava attraverso
la fitta rete degli alberi e loro si erano accorti, dopo, di una
figura che andava in giro spiando. Lei aveva provato disagio, si
era sentita come frugata, violata, lui aveva riso: è un povero
matto, non ci conosce nemmeno, cosa vuoi che gli importi. Questo
ricordo era stato per lungo tempo motivo di fastidio, ma dopo le
aveva procurato tenerezza e rimpianto. Ora, solo indifferenza. Era
soltanto un episodio fra altri. Il tempo aveva prosciugato tante
emozioni. Si erano susseguite tante stagioni, nella sua stanza si
erano regolarmente alternati stufa e climatizzatore, innumerevoli
volte sulla sua terrazza i cuscini colorati avevano ceduto il posto
ai teli cerati.
Aveva preso dei biscotti dalla sacca posata ai suoi piedi e li aveva
mangiati con avidità, poi aveva versato in un bicchiere di
carta un’abbondante dose di succo di frutta. Ingurgitandolo
aveva pensato che la sua dieta era andata a farsi benedire. Troppe
trasgressioni, che però le davano una specie di eccitazione,
mentre si diceva che, appena fosse stata a casa ,avrebbe ripreso
le sue regole alimentari. Era come ritornare bambina, quando la
sera ripassava i buoni propositi per il giorno dopo: niente bugie,
studiare di più, andare più spesso in chiesa.
Il tempo dell’infanzia era talmente remoto che le pareva appartenesse
ad un’altra persona, pure le piaceva indugiare in qualche
piccolo particolare insignificante e costruirvi sopra fino al punto
di non capire più dove finiva il ricordo e dove incominciava
la fantasia. Erano dell’infanzia anche la paura e l’insicurezza
che non l’avevano mai abbandonata del tutto, e il bisogno
di una presenza fisica che colmasse la distanza fra sé e
il mondo che la circondava. Questo l’aveva spesso condotta
a scelte sbagliate, a volte soltanto subite: incontri, relazioni,
amicizie, amanti, tutto pur di vincere la paura dell’isolamento,
pur di non perdere il legame, seppure effimero, con i suoi simili.
Ed era un bisogno incontenibile riempire ogni ora di ogni giorno,
sfuggire al silenzio anche di un solo momento, disertare la casa,
accumulare indumenti su sedie e poltrone rinviando all’infinito
la decisione di mettere ordine. Anche questo breve viaggio era il
risultato della sua paura, una decisione presa per non patire la
lontananza da Vanni e per cercare di rinsaldare quello che sperava
si potesse trasformare in un vincolo duraturo.
Era ancora tutto in gioco. Ancora due giorni, un tempo abbastanza
lungo per recuperare il periodo della permanenza di Vanni a Milano.
Erano stati quattro giorni insensati, lui dai suoi figli, lei dalla
cugina Liliana. Quattro giorni di noia e di pensieri tristi. Il
cielo sempre grigio, oscurato da intense nuvole che, di tanto in
tanto, riversavano pioggia; i bambini di Liliana che litigavano
urlando, le telefonate di Vanni che tardavano ad arrivare. A denti
stretti attendeva di ritornare, faceva progetti rifiutandosi di
tenere conto che oltre alla sua esisteva la manifestazione di un'altra
volontà. Quattro giorni lunghissimi, insopportabili se non
fosse stato per quel fine settimana in Valtellina dove Liliana aveva
insistito per portarla. Là era riuscita a mettere da parte
ogni cruccio. Tutto era nuovo e insospettato. Le case si rassomigliavano
tutte, con i loro tetti di legno, le balconate infiorate di gerani
multicolori, a ridosso dello Stelvio, superbo nella sua verde magnificenza.
Un paesaggio da fiaba nordica, dal quale pareva dovessero apparire
da un momento all’altro gnomi e folletti, così lontano
e diverso da quelli della sua Sicilia, solari, bruciati dalla calura,
circondati dal turchino delle acque mediterranee, soffusi di azzurro
e di giallo.
Nel silenzioso torpore generato dal monotono scorrere della strada
le passavano sotto le palpebre socchiuse le immagini dei giorni
trascorsi, ma tutto era confuso, ingarbugliato, gli eventi di ieri
si intrecciavano con quelli di due giorni prima, quello che era
già accaduto si mescolava con quello che pensava potesse
accadere, il tempo passato le sembrava un nastro con tanti nodi
ancora da sciogliere. Si sentiva sotto l’effetto di un’anestesia.
E in quel vuoto pieno di tante sensazioni irreali le era giunta
la voce preoccupata di Vanni che sospettava un guasto alla macchina.
Alla prima area di servizio Vanni si era fermato per un controllo.
No, l’auto non era in condizioni di affrontare il lungo tragitto
che ancora li aspettava, aveva detto il meccanico, bisognava fermarsi,
un giorno o due, non era in grado di precisare, occorreva rivedere
il motore se non volevano correre il rischio di restare bloccati
in autostrada. Gli aveva dato l’indirizzo di un’officina
e una guida degli alberghi. Vanni si era riseduto al posto di guida
in silenzio, era pallido e nervoso, non si risolveva a niente, né
a ripartire né a scendere dall’auto.
"Prendiamo un caffè- aveva detto lei- E’ un banale
guasto, risolveremo tutto entro domani"
Dopo il caffé era andata alla toilette. Aveva guardato il
suo viso riflesso sullo specchio appannato del lavabo: gli occhi
erano cerchiati, i capelli in disordine, la pelle opaca, inaridita
dalla polvere e dall’aria, le labbra screpolate. Aveva estratto
il rossetto dalla borsa e se l’era passato più volte
sulle labbra, aveva ravviato i capelli portandoli tutti indietro
e si era spruzzata alcune gocce di profumo dietro le orecchie e
sui polsi. Si sentiva un po’ rimessa a nuovo, in grado di
affrontare il seguito.
L’albergo sul lido di Ostia li aveva accolti con una folata
di vento caldo che alzava la polvere e le foglie cadute dagli alberi.
Il litorale era disseminato di insegne luminose, una gazzarra di
luci colorate che non riuscivano a smorzare la malinconia della
sera autunnale.
Era una doccia la cosa che desiderava di più, aveva detto,
deponendo la borsa da viaggio sulla sedia e iniziando a spogliarsi.
Gli indumenti cadevano uno per uno disordinatamente sul letto, non
si era neppure preoccupata di tirare le tende nell’ansia di
guadagnare per prima la strada verso la stanza da bagno. L’acqua
che le scorreva addosso le dava un senso di liberazione, si strofinava
la pelle come se dovesse espellerne uno strato, come se da quella
abluzione avesse dovuto venire fuori depurata, miracolata.
Si era distesa sul letto avvolta nel telo di spugna, cedendo il
bagno a Vanni e aspettando che lui le si stendesse accanto. Dopotutto
quella sosta forzata poteva risolversi in loro favore, aveva pensato,
una pausa di distensione utile anche ad affrontare il discorso che
li riguardava.
Dopo la doccia Vanni si era messo a letto cupo in volto, gli occhi
arrossati. Si era allungato sul materasso silenziosamente, con lo
sguardo perso dentro il bianco del soffitto.
"E’ soltanto un guasto- aveva detto lei- domani lo faremo
riparare e sarà tutto risolto" Lui si era agitato e
si era coperto il viso con le mani che iniziavano a tremare. "Bisognerà
sostituire parte del motore- aveva spiegato con la voce che si spezzava-
non è roba da poco"
"Va bene -aveva ribadito lei- è solo una questione di
soldi"
Ma Vanni aveva un tremito per tutto il corpo, piangeva.
"Non ho soldi- aveva detto- ho lasciato a Lidia un assegno
per tutta la scopertura del mio conto. Era nei guai,confusa, avvilita,
disperata"
Aveva capito tutto: i giorni trascorsi con Lidia e i ragazzi, le
telefonate che non arrivavano e lui che andava sbandierando ai quattro
venti come la sua ex fosse stata gentile e disponibile,quasi amabile,
come si fossero intesi bene su tutto, tanto da aver preso anche
in considerazione l’ipotesi di un’eventuale riconciliazione.
Tutto quello che le aveva procurato l’ansia dolorosa di una
possibile rottura fra lei e Vanni adesso le appariva sotto una luce
nuova, quella vera: Lidia aveva soltanto circuito Vanni con l’intento
di prosciugare le sue risorse economiche, lasciandolo in preda alla
sua nevrosi e alla sua labilità emotiva.
Il mio prossimo uomo, aveva pensato, saltando completamente la fase
del compatimento, se mai ci sarà, dovrà essere ricco
e senza problemi.
Si era alzata. Il telo di spugna le era scivolato e lei si era ritrovata
nuda davanti allo specchio. Aveva guardato il suo corpo con attenzione
critica. Che cosa ho che non va, si era chiesta, per attirarmi sempre
addosso le storie più impossibili. E aveva ripensato al passato,
a tutte le sue storie d’amore senza lieto fine e a tutte le
amarezze che le avevano lasciato. Per chiudere una storia, anche
la più infelice, aveva avuto bisogno di iniziarne un’altra
e per questo non aveva mai capito a tempo in cosa si imbarcava.
Andava avanti come nel gioco della mosca cieca, senza sapere mai
di chi era la spalla che aveva sfiorato con le dita. Era stata una
catena, un anello dentro l’altro. Un passaggio di testimone,
una staffetta, ma al traguardo della serenità e della pienezza
d’amore non l’aveva mai condotta nessuno. Tutti gli
uomini che aveva conosciuto le avevano recato in dono i loro problemi,
le loro situazioni pregresse, la loro instabilità, spesso
la precarietà delle risorse finanziarie che aveva fatto di
tutto per risanare.
Vanni guardava le sue nudità senza vederle, le mani strette
al lenzuolo. Gli si era avvicinata e si era accorta che i nervi
lo stavano vincendo. Allora aveva aperto la valigetta di lui ed
aveva cercato il Valium. Ne aveva versato alcune gocce nel bicchiere
che stava sul tavolo, vi aveva aggiunto dell’acqua e glielo
aveva porto. Lui aveva seguito le sue mosse inebetito, aveva preso
il bicchiere con tutte e due le mani e ne aveva inghiottito il contenuto
tutto d’un fiato.
Ora mi toccherà pure consolarlo, aveva pensato, e per un
attimo aveva provato un moto di compassione. Si era chinata su di
lui, lasciando che i suoi seni gli sfiorassero il petto. Cercava
di stabilire un contatto fisico che allentasse la tensione e riportasse
le cose ad una dimensione meno greve. Lui le si era avvinghiato
come ad un ceppo incontrato fortunosamente durante un naufragio.
Non parlava ma si stringeva a lei e la guardava come se volesse
dirle delle cose che però non riusciva a dire. Allora gli
aveva accarezzato la guancia col dorso della mano e aveva detto:
"Sta’ tranquillo, penserò io a tutto"
Quelle parole pareva lo avessero calmato, si era assopito e lei
si era sentita irrimediabilmente sola in quella stanza estranea,
in quell’ambiente anonimo che tutti gli effetti personali
non riuscivano a personalizzare.
Dalla finestra guardava il mare. Era scuro ed agitato per via
del vento che sollevava tutt’intorno mulinelli di sabbia.
Sulla spiaggia gli ombrelloni chiusi erano piccoli alberi ischeletriti
. Nel gazebo di sotto all’albergo le poltroncine bianche e
rosse di resina erano poggiate ai tavoli in una posizione d’abbandono.
Le giungeva, attraverso i vetri sporchi, un’atmosfera da sobborgo
di periferia. Si era chiesta dove fosse finita la magia di quel
luogo e se mai fosse esistita. Ora quel posto non era che un ammasso
di costruzioni che avevano invaso ogni più piccola porzione
di spazio. Restava solo il mare.
Sono troppo stanca, aveva pensato, tutto mi appare in una luce triste.
Ritornando ogni cosa riassumerà le giuste proporzioni. Anche
il viaggio, con tutte le insofferenze ed i cattivi pensieri, le
si sarebbe ripresentato come qualcosa di piacevole, un intermezzo
del quale avrebbe ricordato le fasi migliori. Ma non riusciva ad
immaginare il seguito, tutto era ipotetico, imprevedibile, solo
la sua ansia, la solitudine di tanti giorni vissuti nell’altalena
del sì e del no erano una realtà immaginabile.
Il centralinista dell’albergo le aveva passato la telefonata
di Vanni. Le diceva che ne avrebbe avuto per tutto il pomeriggio,
ma che sarebbe ritornato per il pranzo, che prenotasse, sì,
certo, al ristorante dell’albergo, era più comodo,
se tutto andava bene si sarebbero rimessi in viaggio in serata.
Sembrava non avere vissuto l’abbandono e lo scoraggiamento
della sera prima, quella forma di muta disperazione che lo aveva
consegnato al totale sconvolgimento dei nervi.
Si era alzato come rinvigorito, recuperato alla piena padronanza
di sé ed aveva atteso alle consuete pratiche mattutine senza
fare alcun riferimento ai fatti della sera prima. Era uscito come
sgravato, senza mostrare segni di nervosismo o di preoccupazione.
L’aveva abbracciata e nell’abbracciarla aveva cercato
di stabilire un’intesa che preludesse ad un contatto più
profondo. Come se avesse voluto aprirle la vestaglia e distenderla
lì, su quel letto, nuda, e fissarvela come una farfalla imbalsamata,
nell’attesa del suo ritorno.
Il vento sbatteva alla finestra, fischiava attraverso le stecche
delle tapparelle e passando per gli spifferi gonfiava la pesante
tenda verde.
Aveva tolto dalla borsa il libretto degli assegni, lo aveva firmato
e, confidando per l’ultima volta nell’onestà
e nella buonafede di lui, aveva lasciato in bianco le caselle della
cifra. Lo aveva deposto sul tavolino da notte fermandolo con il
pesante e dozzinale posacenere di vetro.
Al tassista che l’aspettava sotto la cupoletta di plexiglas
all’ingresso dell’albergo aveva detto, con voce sicura:
"Alla stazione, prego"
(torna sù)
L’ULTIMA VOLTA
"Ho qui un assegno per lei. Le consiglio di accettarlo e di
chiudere la faccenda" disse l'avvocato. Seduto dietro ad una
monumentale scrivania, circondato da mobili massicci e da una serie
di stampe raffiguranti cavalli di tutte le razze, mi stava consigliando
una transazione con l'assicurazione.
"Non è una cifra equa -obiettò Giorgio- la signora
ha fatto fronte a delle spese che vanno ben oltre la cifra che le
vogliono risarcire"
"Mi rendo conto, ma le assicurazioni sono sempre molto avare.
D'altra parte, se la signora non accettasse dovremmo finire in tribunale.
Capirà, testimonianze, perizie…non so fino a che punto
le convenga"
"Ma sì -dissi- chiudiamo la questione. Non voglio andare
incontro ad altre seccature né procurarne agli altri"
Erano stati Giorgio e Livia a trovare gli espedienti per farmi recuperare
una parte delle spese che avevo sostenuto a causa dell'incidente
e dunque non volevo porli nella condizione di finire in tribunale.
Era una sera di ottobre ed era il compleanno di Giorgio. Avremmo
festeggiato assieme, come ogni anno da quattro anni. Anche se la
nostra relazione andava avanti fra scossoni e strappi, non avevamo
smesso di frequentarci. Saremmo andati come al solito da "Gigi",
ristorantino esclusivo con enoteca.
Alle nove in punto Giorgio suonò al mio campanello con il
solito segnale: tre scampanellate a breve distanza l'una dall'altra.
Quando aprii la porta mi resi conto che non era solo, con lui c’era
Aldo. Ok, pensai, ha invitato anche lui. Ormai erano inscindibili,
vorticavano tutte le sere nelle discoteche, nei pub, nelle enoteche,
tirando le ore piccole. Giorgio si definiva nottivago, cominciava
a vivere quando il sole iniziava a scomparire.
Entrarono e mi accorsi che erano un poco in imbarazzo. Non ne capivo
la ragione.
"Un aperitivo?" dissi.
"Grazie, no…andiamo di fretta" disse Aldo.
Che storia era? Perché rispondeva lui e non Giorgio?
"Senti…-Giorgio accese una sigaretta- Aldo ed io andiamo
a cena da Livia"
"Da Livia? Come mai? E' il tuo compleanno, l'abbiamo sempre
trascorso assieme…"
"Lo so, ma questa volta è andata diversamente. Livia
ci ha invitati una settimana fa'"
"Non mi avevi detto nulla"
"Mi è passato di mente"
Mi stava assalendo la rabbia, avrei voluto urlare e ricoprirlo di
ingiurie, avrei voluto spezzare il suo sorriso ironico scagliandogli
contro il pesante posacenere di onice del Pakistan proprio sulla
bocca. Ma mi finsi indifferente.
"Bene, noi andiamo. Non mi fai gli auguri?
"Crepa" risposi. E gli chiusi la porta in faccia.
Livia era l'ultima amicizia femminile dei due. L'aveva portata Aldo
una sera a Villa Chiara, dove eravamo andati ad ascoltare Mario,
il nostro amico pianista. Se la contesero tutti e due e lei scivolò
con indifferenza fra le braccia di entrambi, mostrando di non avere
preferenza né per l'uno né per l'altro. Ci raccontò
della sua vita di moglie frustrata e negletta, condizione cessata
con il suo stato di vedovanza; ci parlò della figlia, brillante
studentessa di filosofia con l'anima d'artista e della sua casa
tappezzata di quadri del padre, da lei definito 'noto pittore ormai
rincoglionito'. Aldo e Giorgio avevano fatto di lei l'attrazione
della serata e cercavano di entrare sempre più nelle sue
vicende personali. Da quella sera Livia si introdusse nelle nostre
serate, nelle nostre passeggiate, nelle nostre partite a carte,
nei nostri spuntini notturni, in una parola invase la nostra vita.
E adesso quell'invito dal quale ero esclusa. Decisi che non gliela
avrei data vinta. Lasciai passare mezz'ora e mi misi in macchina.
Li avrei raggiunti, mi sarei presentata a casa di Livia e in qualche
modo avrei rovinato la loro serata.
Due ore dopo ero ricoverata alla clinica Salus: frattura scomposta
del condilo femorale destro e trauma cranico erano le conseguenze
dell'incidente. Il mio cervello annebbiato dalla rabbia aveva danneggiato
i miei riflessi, le lacrime mi avevano offuscato la vista, il risultato
non poteva essere che un urto pauroso contro uno dei platani che
orlavano il viale omonimo dove risiedeva Livia. Ebbi comunque la
forza di chiamarla col mio cellulare e chiederle che mi venissero
in aiuto. Avevo rovinato la loro serata ma ne avevo pagato il conto.
Durante la degenza Livia venne a trovarmi ogni giorno, meno assiduo
fu Giorgio, Aldo si rese latitante. Nel corso della mia convalescenza
Giorgio ebbe modo di palesare il suo disinteresse sentimentale nei
miei confronti. Era sempre più distante e le sue visite si
riducevano ad un veloce saluto e ad un inutile "posso fare
qualcosa per te?". Avrebbe potuto, ma ciò di cui avevo
bisogno non era quello che lui era disposto ad offrirmi. Ed ogni
volta che scompariva oltre la porta della mia camera il grumo che
avevo in gola si scioglieva in lacrime.
Dopo che mi ebbero tolto il gesso gli chiesi se mi accompagnava
a fare una passeggiata. Era una domenica di sole, ero stanca della
mia prigione, ero pallida e debole, piena di paura nel compiere
i primi passi. Il ginocchio mi doleva e non riuscivo ancora a piegarlo,
la mia terapista mi aveva consigliato di cominciare a camminare,
con cautela e possibilmente in compagnia di qualcuno.
Giorgio mi guardò rammaricato. "Mi dispiace- disse -ma
avevo preso un impegno"
"Un impegno di domenica? Niente che puoi rinviare?"
"No purtroppo. Ci siamo organizzati per una gita sulla neve,
sto andando via."
Frenai a stento il pianto. Una settimana dopo partì per il
Marocco. Un viaggio che gli aveva offerto la sua ditta, disse, come
premio di produzione.
" Allora, signora, pensa di accettare l'offerta dell'assicurazione
o preferisce continuare la vertenza in sede legale?"
"Accetto" dissi. Volevo chiudere in maniera definitiva
quella dolorosa parentesi. Non volevo più avere niente a
che fare con quell'incidente, con Livia, con Aldo, perfino con Giorgio.
Presi l'assegno e uscimmo.
"Soddisfatta?- mi chiese Giorgio - alla fine non è una
cifra misera, considerato soprattutto che è stata una battaglia
ottenerla"
Annuii. Le spese erano in parte ammortizzate, ma il mio equilibrio
faceva acqua da tutte le parti.
"Non credi che Livia ed io ci meritiamo una cena?" Disse
Giorgio, facendo scattare la serratura della sua auto. Il suo tono
era scherzoso ma l'intenzione era proprio quella di sollecitarmi
un invito.
"Sì…certo- risposi annaspando- sarà un
modo per ringraziarvi"
Miriam strabuzzò gli occhi quando le dissi che il sabato
successivo avrei invitato a cena Giorgio e Livia. "Perlomeno
sei pazza" -disse- sono entrambi la causa delle tue sofferenze.
Hai dimenticato che l'incidente è avvenuto per andare a pescare
Giorgio in casa di Livia? Non capisco cosa vuoi dimostrare"
"E' solo un modo per ringraziarli. Un atto dovuto"
"Capirai, con tutto quello che ti è costato l'incidente…di'
piuttosto che se fossi stata più riflessiva non avresti patito
quello che hai patito. I rami secchi vanno tagliati, è inutile
ostinarsi a curarli, se non li recidi non ne cresceranno mai di
nuovi"
La metafora dei rami secchi era la preferita di Miriam che non mancava
occasione per propinarmela. D'altra parte lei era sempre stata ostile
a Giorgio, cosa potevo aspettarmi se non l'esortazione a troncare
qualunque tipo di rapporto con lui? Per conto mio, invece, da Giorgio
mi ero lasciata convincere che, se si era conclusa la nostra storia
sentimentale, non per questo doveva spegnersi la nostra amicizia.
Sapevo che quella cena mi sarebbe costata molto più del
conto del ristorante. Me lo dicevano i battiti accelerati del cuore,
il tremito delle mani che non riuscivano ad agganciare il reggiseno,
i capelli che si insubordinavano alla spazzola. Perfino il soffio
caldo dell'asciugacapelli che mi arroventava la nuca mi diceva che
stavo rischiando.
Sostai a lungo davanti alle ante spalancate dell'armadio, una mano
sul mento, l'altra stesa a far scorrere le grucce sull'asta per
decidere cosa indossare. Livia sarebbe stata elegantissima come
sempre, inutile pensare di poter competere con lei. Mi dovevo accontentare
di essere 'distinta'. Scelsi pantaloni di seta marrone e casacca
bianca a disegni cachemire.
Livia aveva superato se stessa: tuta in seta blu notte, parure di
turchesi ai lobi e al collo, sguardo torbido nel viso squadrato
incorniciato dal carré ramato. Mi sentii una servetta vestita
a festa. Ma Livia non era donna che lasciasse trasparire complessi
di superiorità, anzi, si dichiarava depressa e perseguitata
dalla sfortuna per essere rimasta vedova di un marito che non l'aveva
mai soddisfatta né gratificata. Che le avesse lasciato una
ragguardevole posizione economica era un fatto marginale che a sentir
lei non la ripagava di un passato di frustrazioni.
La cena fu il supplizio che avevo presagito. Giorgio si dedicò
quasi esclusivamente a Livia che raccontava dei suoi viaggi, delle
sue amicizie, delle serate in discoteca, delle favolose pietanze
che sapeva cucinare. Io aspettavo solo che tutto finisse al più
presto e mi chiedevo se non avesse avuto ragione Miriam a darmi
della pazza per non essermi risparmiata quella soverchia tortura.
Alla fine Gigi si avvicinò al nostro tavolo recando con sé
una bottiglia di Retablo, versò il liquido rosso nei bicchieri
e propose un brindisi. "All'amicizia" disse. Accostammo
i bicchieri facendoli tintinnare.
Lasciammo Livia a casa e proseguimmo verso la mia abitazione.
"E' stata una bella serata -disse Giorgio- grazie"
Non risposi.
Davanti all'ascensore, mentre stendevo la mano per salutarlo, lui
disse: "Vuoi che dorma con te, stasera?"
Una vampata al viso, un pugno allo stomaco, uno smarrimento…che
stava succedendo? Perché dopo tanta distanza e tanto disinteresse
Giorgio si riavvicinava a me?
"Che significa…?- chiesi - hai detto che fra noi poteva
sopravvivere solo l'amicizia"
"E invece non è così…"
Scossi più volte la testa. Forse il vino mi stava facendo
uno strano scherzo. Mi sentivo confusa ed esitavo. Intanto Giorgio
saliva con me, entrava a casa mia, nel mio bagno, e si spogliava,
si ficcava dentro al letto e mi abbracciava. Sentivo l'antico calore
percorrere la mia pelle, e riaffacciarsi il mio desiderio, dimenticavo
tutto il male che avevo ricevuto e mi dicevo lo sapevo, lo sapevo
che non poteva finire…
Giorgio mi sovrastava, in ginocchio fra le mie gambe che si spalancavano
per accoglierlo. Vedevo la sua erezione, il suo sesso proteso verso
la mia fenditura mi toccava, si strusciava contro la mia carne procurandomi
un piacere dimenticato. Improvvisamente il suo pene si afflosciò
e ritornò ad essere un attributo che non mi apparteneva.
Giorgio stramazzò al mio fianco e fece in modo di darmi le
spalle. "Non posso" disse.
In quel momento mi fu tutto chiaro: “Era Livia che ti volevi
scopare” Pensavo che il dirlo mi avesse liberata invece sentivo
più che mai il senso dell’umiliante realtà.
Ero stata davvero ingenua ma sarebbe stata l’utima volta.
(torna sù)
INCONTRO
Era bastato il gesto.
"Posso?"
E il dorso della sua mano destra aveva sfiorato la mia guancia.
Un gesto delicato, quasi timido, che non poteva dirsi neanche carezza.
Uno sfioramento lieve, ripetuto, su e giù sulla pelle, quasi
una foglia che staccandosi dal ramo indugia nell'aria perché
non conosce il posto dove si poserà. Vicini e lontani, ci
guardavamo negli occhi in silenzio, mentre ancora la sua mano scivolava
sul mio viso, ed io mi sentivo nuda e vulnerabile, esposta a quel
gesto che mi inteneriva e mi riportava a dolcezze perdute. Lasciarsi
andare, scrostare la ruvida scorza nella quale il passato mi aveva
avvolta, dimenticare gli anni, l'età, le condizioni; dimenticare
la paura, la sofferenza, l'abbandono, tutto ciò che mi aveva
relegato in un angolo della vita, rintanata, incappucciata, con
i gomiti alzati ed i pugni stretti alle orecchie per non sentire
nessun richiamo.
La sua mano si attardava ancora nel gesto di tenerezza. Muto, solo
i suoi dolcissimi occhi castani parlavano, chiedevano risposte.
La sua bocca era una finestra che aspettava di essere dischiusa,
una finestra alla quale sarebbe stato bello affacciarsi.
La mia mano si mosse verso il suo volto, lo sfiorò. Le dita
si imboscarono fra i peli della barba, salirono a circumnavigare
i contorni delle labbra, si diressero verso il lobo del suo orecchio.
La bruna cartilagine mi suscitò il desiderio di un piccolo
morso. Con tutte e due gli indici disegnai un cerchio attorno ai
suoi occhi che lui languidamente chiuse.
Stavamo l'uno di fronte all'altro, ancora il silenzio permeava l'aria.
"Ciao,sono Nino"
" Io sono Nadia,piacere"
" Vivo a Palermo e tu?"
"Anch'io"
Sul quadratino bianco che si era disegnato sull'azzurro del desktop
le parole si affacciavano in sequenza. Sotto, su di una striscia,
appariva l'avviso: Nino is typing a message.
"Sei sposata?"
",Non più. E tu?"
"Ancora"
Una pausa. "Che lavoro fai?"
"Segretaria presso un'associazione "
"Interessante. E di cosa vi occupate?"
"Organizziamo manifestazioni culturali:convegni,dibattiti,conferenze…"
"Io lavoro in una banca, al viale della Libertà. E il
tuo ufficio, dove si trova?"
"A piazza Mordini"
"Siamo vicini"
Le solite inutili informazioni. Un pretesto per un approccio qualsiasi,
un modo come un altro per riempire un quarto d'ora di vuoto. Non
c'era neanche fantasia.
Nino is typing a message…
"Sei al lavoro adesso?"
"No,sono in pausa"
"Anch'io. Posso offrirti un caffè?"
"Grazie,no"
"Perché no? E' solo un modo per conoscersi"
"Non ho voglia di fare nuove conoscenze"
"A me invece fa piacere incontrare gente nuova"
"Adesso devo andare,ciao"
"Ciao,ci risentiamo?
"Può darsi"
Buio. Un velo di buio steso sul mio corpo. Rifiutato, nemico a
me stessa, un corpo che nascondevo, che avvolgevo nel primo panno
a portata di mano per non sentire l'algida carezza della solitudine.
Dai muri trasudava silenzio. Solo un cane abbaiava nel cortile,
alle sette in punto di ogni sera. Anni. Tempo passato a segnare
di sé tutto il bello che avevo avuto nel cuore. Tempo senza
ritorno. Al suo insensato fluire mi ero consegnata senza amore,
senza pietà verso me stessa ed esso mi accerchiava senza
abbracciarmi, freddo e indifferente. L'assenza assorbiva ogni energia,
mi risucchiava dentro la sua spirale perversa. E risultava vano
ogni tentativo di riempirla quell'assenza, un' inutile prova, alla
quale mi sottoponevo per provare a me stessa che esistevo, e che
alla fine risultava una ridicola parodia.
Sul quadratino bianco lampeggiava un segnale. Nino is typing a
message…
"Ciao, posso offrirti un caffè?
"Se ci riesci…Puoi attraversare il video"
"Dai, fissa tu l'appuntamento"
"Non mi piace il caffè"
"Allora un gelato"
"Forse…vedremo"
"Ci sentiamo al telefono?"
"A che serve?"
"Vorrei sentire la tua voce. Com'è la tua voce?"
"Roca,per via delle sigarette"
"Adoro le voci roche,sono sexy"
"La mia è solo roca"
"Lascia che lo decida io"
"Non voglio"
"Sei ostinata,ma io lo sono di più. Perché non
vuoi?
"Non voglio complicazioni, la mia vita è già
abbastanza incasinata"
"Complicazioni…per un caffè…"
"Anche…sono troppo vulnerabile…mi conosco"
"Basta solo lasciarsi andare…"
"Io non mi lascio andare, mi consegno…"
Sulla finestrella si andava componendo il mio numero di telefono.
Due telefonate. La sua voce soffiata, il tono pacato, convincente.
La mia voce calda, avvolgente come una sciarpa di velluto (così
disse), ma che cercava di differire.
"No,oggi non è possibile"
"Allora domani, alle 17"
"No, giovedì,alle 18"
Era bastato il gesto. E mi sembrava di averlo sempre atteso. Uno
sconosciuto, un uomo che entrava per la prima volta in casa mia
e del quale non riuscivo a diffidare. Quelle sue mani eleganti,
dalla pelle scura e sottile, mi davano i brividi. Avrei voluto sentirle
su tutto il corpo. Da quanto tempo non provavo questo desiderio?
Chiusa nel buio della solitudine, non avevo accolto nessun richiamo,
avevo ignorato ogni sollecitazione. Ed ora da questo sconosciuto
avrei accettato tutto. Senza riserve,senza esitazione, senza paura.
Le nostre dita si intrecciarono. Lentamente condussi la sua mano
sul mio seno e lui diresse la mia sul suo sesso. Non c'era lussuria
ma una dolcezza estrema, uno sfinimento. Silenzio, solo i nostri
occhi parlavano. Ed era uno struggimento quel volersi senza dirselo,
quel cercarsi senza fretta.
Mi sorprendeva il mio arrendermi ai sensi. Una vita vissuta nella
convinzione che solo l'amore generasse il desiderio e legittimasse
il sesso. Ora tutto si capovolgeva: era il mio corpo che chiedeva
attenzione, era il desiderio che mi inviava i segnali di una possibilità
d' amore.
Che cadessero tutte le barriere, via dalla prigione dei falsi convincimenti.
La sua nudità m'intenerì, il suo sesso mi travolse:
bruno, imponente, leggermente arcuato. Il mio sguardo si perdeva
nella breve superficie del suo corpo e sentivo che era quello che
volevo,quello e niente altro.
Le mie mani si strinsero attorno al suo collo. I nostri fiati erano
vicini. La sua lingua sapeva di mare ed io ne assaporavo il gusto
con voracità. Poi sarebbero venute le parole.
(torna sù)
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