Il mio compleanno, a dicembre, mi colse
impreparato.
Arrivò così, all’improvviso, all’alba
d’un qualunque mercoledì sera.
Gradito come il parmigiano sugli spaghetti alle vongole.
Allegro come un film in bianco e nero con Amedeo Nazzari.
Lo accolsi con la stessa gioia con la quale accolgo mia suocera
quando si presenta alla mia porta con la valigia e dice: “rimango
da voi un mesetto”.
Arrivò così, senza avvisare, una sera qualunque
d’un mercoledì in cui invece avrei voluto delirare
fino all’alba.
E’ tempo di bilanci, mi dissi.
Feci due conti, ma il risultato aveva sempre il segno negativo.
A casa non c’era nessuno, quella sera.
Tutti avevano qualcosa.
Mia moglie aveva la partita a canasta con le amiche.
Mio figlio, il calcetto.
La colf, il giorno libero.
Il telecomando, le batterie scariche.
Io, l’incazzatura. E la depressione.
Sì, io avevo due cose. Ma ero il capofamiglia e questo
era uno dei segni tangibili della posizione privilegiata che occupavo.
Oltre al diritto di insediarmi sulla poltrona grande in salotto.
“Meglio essere folle per proprio
conto, che saggio con le opinioni altrui “
Frederick Nietzsche continuava a martellarmi
con le sue parole, insinuandosi fra i grappoli di pensieri che
si andavano accatastando nella mia testa.
Spostai lo sguardo sull’orologio a parete: segnava le ventitré.
Poi guardai lo schermo tv che proiettava immagini d’uno
spettacolo-contenitore piuttosto banale. Ancora orologio a parete,
schermo tv. Schermo tv, orologio a parete.
Ventitré e tre minuti.
Mi alzai di scatto, indossai il giaccone
ed uscii.
Pioveva piano.
L’asfalto bagnato appariva lucido
e brillante, e nelle pozzanghere galleggiavano tremolanti le luci
dei lampioni come fossero tante, piccole, lune precipitate improvvisamente
a terra. Il vento spostava in zigzaganti mulinelli foglie secche
e sottili ramoscelli. Mi sorpresi a pensare che erano frammenti
d’autunno in volo verso l’inverno.
Seguii i miei passi, sicuro che m’avrebbero condotto da
qualche parte.
****
La stazione era stranamente “quasi”
deserta.
Pochi treni erano in attesa di partire per chissà dove.
Alcuni sparuti passeggeri, infagottati nei cappotti, procedevano
a passo svelto sotto le pensiline, cercando con lo sguardo il
numero della carrozza dove salire.
Appariva enorme la stazione di notte. Amplificava le voci, il
rumore secco dei passi e il cigolio ritmico dei carrelli portabagagli,
generando un’atmosfera di tetra desolazione.
Scorsi il tabellone nero delle partenze mentre i piedi non riuscivano
a stare fermi al pensiero di andare via stando comodamente seduto
nella pancia di quel serpente d’acciaio cromato.
- Non si va mai via, si va soltanto da
un’altra parte - Biascicai sottovoce.
Stavo facendo retorica, filosofeggiando
un po’ tra me e me. Ed ero anche piuttosto compiaciuto di
questa cosa. Da qualche tempo avevo ripreso a leggere della letteratura
classica e il risultato era che avevo iniziato a notare con sempre
maggior frequenza una serie di contraddizioni che caratterizzavano
la vita di tutti i giorni. La mia e quella degli altri. Come fosse
del tutto normale.
Intanto, era calata la nebbia.
I binari erano numerati in ordine crescente,
da sinistra verso destra. L’ultimo era contrassegnato dal
numero 17 e decisi di salire proprio sul treno che lo occupava,
in barba alla superstizione. Percorsi tutta la banchina incuriosito
da un minuscolo puntino di luce che vedevo brillare in fondo.
Non capivo da dove potesse scaturire e ne ero assurdamente attratto.
Camminai per qualche minuto prima di rendermi conto che non c’era
nessun treno in partenza su quel binario. Eppure, ero quasi sicuro
di averne scorto la sagoma pochi secondi prima.
La luce però, quella continuava a danzare nel buio spandendo
un alone rossastro tutto attorno. Continuavo a fissarla come ipnotizzato.
Improvvisamente, una voce dal forte accento straniero tuonò
alle mie spalle:- C’è sempre un treno in partenza
per un desperado, amigo.
Il cuore mi saltò in gola colpendo duro, come un martello
pneumatico. Impaurito feci uno scatto, voltandomi indietro, e
mi ritrovai a osservare una faccia da indio che sorrideva con
un’espressione sospesa tra l’ironico e il comprensivo.
- C’è sempre un treno in partenza per un desperado
– ripeté, scandendo bene le parole e accennando un
sorriso.
Lo guardai attentamente.
Indossava un giaccone verde militare di almeno due taglie più
grande, pieno di tasche informi che nascondevano chissà
quali cianfrusaglie; un paio di jeans che avrebbero avuto bisogno
di una buona lavata e un maglione di lana grossa, con i polsini
rivoltati. In testa uno zuccotto dal colore indefinibile. Forse
grigio sporco. O forse solo sporco. Capelli lunghi e neri, e denti
bianchi. Uno zufolo di legno portato a tracolla.
Mi guardai attentamente.
Indossavo pantaloni in fresco lana, una camicia cucita su misura
e un giaccone imbottito su un gilet dal taglio impeccabile. Scarpe
in pelle nera, come il portafoglio ben fornito. Aveva ragione
lui: ero io il desperado fra noi due.
- E dove si trova questo treno di cui parli?-
domandai, vagando intorno con lo sguardo come a cercare una risposta.
- Vieni, ti accompagno.
Esitai qualche istante e poi lo seguii.
Camminava a passi lunghi, anche se non era molto alto. Avanzava
spedito, dando chiaramente a intendere di sapere benissimo dove
stavamo andando. Avevo contato 48 passi, che equivalevano a circa
40 metri, quando svoltò verso sinistra, verso il binario
deserto. Scendemmo 4 gradini, neri di grasso, facendo attenzione
a non scivolare. Proseguimmo per altri duecento metri circa, al
buio, seguendo le travi metalliche e affondando i piedi nei sampietrini.
Io nel frattempo cercavo di prestare orecchio e attenzione a ogni
più piccolo rumore che potesse indicare pericolo.
- Non temere, è un binario morto questo, c’è
soltanto il nostro treno. E quello non ha motore.
Sembrava leggermi nel pensiero, o forse nei movimenti e, anche
se la sua risposta avrebbe dovuto tranquillizzarmi, quel vago
e irragionevole sospetto mi inquietava non poco.
****
Il treno consisteva in tre vagoni in disuso
da tempo immemorabile, o almeno questa fu l’impressione
che ebbi osservandolo da lontano.
Mentre ci dirigevamo verso il primo vagone notai che il mio compagno
di viaggio sembrava circondato da un alone trasparente tendente
al rosso, così come adesso lo sembrava anche l’intero
treno e il tratto di terreno dove era stato abbandonato.
Collegai immediatamente il puntino luminoso che avevo visto dalla
banchina del binario 17 a quell’insolito ammasso di ferraglia
luminescente.
Un brivido mi scosse da capo a piedi e automaticamente rallentai
l’andatura: non ero più tanto sicuro di voler partire
col treno dei “desperados”.
L’incertezza evidentemente era scritta a chiare lettere
sul mio viso perché l’indio mi prese per un gomito
e, sospingendomi gentilmente verso la pedana, m’esortò
a salire.
- Dai amigo, sbrigati che fa freddo. Ti offro un tè.-
Forse vive qua dentro, pensai. Ed ero già più rilassato,
solo per aver formulato quell’ipotesi tra me e me.
Dopo un ultimo istante di tentennamento aprii il pesante portello
ed entrai.
****
Di colpo avevo la gola secca e non riuscivo
a produrre neanche quel minimo di saliva necessaria a deglutire.
Non ero in grado di spiegare, utilizzando la ragione, ciò
che stavo vedendo.
All’interno del vagone un salone immenso, con soffitti altissimi,
di cui non riuscivo a scorgere le linee perimetrali e i relativi
angoli che di solito soddisfano l’occhio procurandogli una
sensazione di appagamento visivo.
C’erano delle finestre su un lato, anch’esse molto
alte, con vetri che non permettevano di osservare ciò che
accadeva all’esterno ma lasciavano entrare una luce intensa,
bianca, con riflessi a volte azzurri a volte viola a volte arancio.
Due poltrone affiancate, dei tavolini bassi, qualche cuscino dall’aspetto
morbido, un paio di enormi tappeti decorati con immagini che cambiavano
se cambiava l’angolazione dalla quale si osservavano, come
fossero grandissimi schermi sui quali venivano proiettate scene
di rassicurante quotidianità. Su un’altra parete
c’erano appesi dei quadri. Vuoti. Cornici con il nulla dentro.
Come tante porte spalancate su un nebbioso mondo a pochi metri
di distanza.
Realizzai di essere rimasto solo, nel bel mezzo di quella allucinazione.
Invece, il mio ospite si materializzò accanto a me con
un vassoio in mano. Due tazze di tè fumante e una ciotola
contenente delle minuscole sfere che emanavano lampi di luce rossa.
- Accomodati pure, non stare lì in piedi. – Lo disse
come fosse la situazione più normale di questo mondo.
La paura mescolata a una sorta d’impotenza mi stava tormentando
lo stomaco.
Obbedii più per inerzia che per volontà. La debolezza
mi aveva preso alla testa e faceva piegare le gambe.
Allungò il braccio porgendomi la tazza colma del liquido
bollente, sul fondo intermittenti riflessi sanguigni. Curiosamente,
osservandoli, pensai a un faro, a una luce guida, e alla sicurezza
che trasmette ai navigatori quando vagano sperduti nella nebbia.
O nel buio…
Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo dell’indio. Lui prese
il suo zufolo di legno e iniziò a suonare una musica strana.
Non che non fosse bella, ma era come… innaturale.
Le luci si spensero tutte insieme.
Il vagone cominciò a tremare, a sobbalzare; una serie di
scossoni mi fecero dapprima cadere sul pavimento, poi invece mi
sollevarono lentamente, quasi cullandomi, facendomi galleggiare
sospeso. Iniziai a salire sempre più in alto, in balia
di un vento che non sentivo ma che doveva esserci visto che continuavo
a volteggiare senza riuscire a controllarmi. Poi improvvisamente
mi fermai. Attorno a me si andavano componendo figure fatte di
fumo umido, di vapore. Ombre lattiginose che per qualche secondo
vestirono milioni e milioni di cangianti colori d’arcobaleno.
Poi ingrigirono di nuovo. Ad inquietarmi rimasero soltanto i loro
occhi: sguardi rosso fuoco che ondeggiavano in una frazione di
tempo tinto seppia.
Restai in attesa, più perché non sapevo proprio
cosa fare che per voglia di stare fermo. Ed ecco che una delle
fumose creature, staccatasi dal gruppo, mi fece un cenno. Indicò
col dito uno dei quadri vuoti aperti sul nulla, al centro del
quadro di nuovo un puntino luminoso. Era un invito silenzioso.
Lo accettai.
Mi avvicinai alla cornice che andava man mano ingrandendosi per
permettere il mio passaggio e, senza esitare, mi tuffai nel mondo
accanto.
Atterrai sul morbido. Un tappeto di lana mi accolse impedendomi
di ferirmi. Accusai soltanto un vago malessere, nausea e vertigini.
E imputai il tutto alla velocissima discesa appena fatta.
Mi guardai intorno con la netta sensazione di riconoscere alcuni
oggetti, come se gli stessi mi fossero appartenuti molto tempo
prima.
Poi lo vidi.
Stava seduto sulla poltrona grande, in salotto. Un libro sul pavimento,
disordinatamente aperto. Il telecomando poggiato sul tavolo e
la TV che trasmetteva le immagini di un banale spettacolo-contenitore.
La testa era innaturalmente reclinata sulla spalla sinistra.
L’orologio a parete segnava le ventitré e tre minuti.
Allora, solo allora, mi riconobbi.
E per qualche istante provai quasi dolore.
Distolsi lo sguardo come per difendermi da quell’immagine
sgradevole e subito dopo vidi avvicinarsi un paio di scarpe. Un
numero piuttosto abbondante, date le dimensioni. Si fermarono
accanto a me. Una di loro mi spostò prima a destra, poi
a sinistra e, giocando con la punta rinforzata di metallo, mi
fece ruzzolare per qualche centimetro.
Cercai con gli occhi, conscio della mia impotenza, la mia luce
guida, il minuscolo faro rosso che mi aveva condotto fin là,
ma non lo trovai.
Poi qualcuno mi raccolse.
- E questo coso come ci è finito qua per terra? –
Il padrone delle scarpe, mio figlio, mi stava osservando perplesso
rigirandomisi fra le mani.
- Boh… sarà un altro dei gufi portafortuna di mamma.
Orrendi i suoi soprammobili, vero Pà? – Aggiunse.
E mi depose sull’angoliera di cristallo, accanto a un elefante
di giada verde, mentre s’avvicinava alla poltrona. Dopo,
arrivò il suo urlo.