La signora del temporale - Pippo Pippo

Quali sono i meccanismi che presiedono alla memoria, e come e perché accade che ritornino in mente, d’improvviso, fatti e cose che credevamo dimenticati per sempre?
Perché una parola, un gesto, un viso scatenano a volte cascate di ricordi concatenati l’uno all’altro e che vibrano tutti insieme come bracci di cento diapason piantati da qualche parte, laggiù, nel cervello?
Non credo che qualcuno sia in grado di dare una risposta precisa a questa domanda, ma di certo è una sensazione non sconosciuta ai più. Certo, era l’occasione del mio viaggio annuale a Roma ad eccitare la memoria, ma altre volte l’incursione dei ricordi non era stata così intensa e altrettanto coinvolgente.
Mio padre scriveva racconti e quello che passava davanti ai miei occhi era uno dei suoi. L’avevo letto la prima volta molti anni prima, trovandolo insieme ad altre carte abbandonate in una vecchia libreria che gli era appartenuta, e poi lo avevo lasciato da parte a mia volta in una cassapanca in cantina, insieme a libri inutili e altre cianfrusaglie. Prima di prendere il treno mi era improvvisamente tornata la voglia di rileggerlo e, caso singolare, mi ricordavo perfettamente dov’era, sicché era stato gioco facile riprenderlo in mano.
All’epoca in cui era stato scritto mio padre aveva avuto ventinove anni.
I caratteri di una vecchia Olivetti, nonostante fossero stati impressi su un foglio protocollo che poi si era ingiallito col tempo, guizzavano ancora stranamente freschi e pareva odorassero d’inchiostro, come se invece di più di trent’anni fosse passati solo pochi giorni.
Reggevo con delicatezza tra le dita i fogli tenuti insieme da un fermaglio arrugginito come se fossero cosa molto preziosa - e in verità per me, dopo la loro riscoperta, lo erano davvero - quasi temendo che un movimento brusco o uno scossone del treno potesse sciuparli e strapparli.
Ero talmente concentrato nella lettura da non accorgermi quasi che nello scompartimento non ero più solo. Prima ancora di vedere chi era entrato tanto silenziosamente da non richiamare la mia attenzione, ne avevo sentito la scia di profumo. Sollevando gli occhi vidi che si trattava di una donna che vestiva un lungo abito nero e portava un antiquato cappello con la veletta, anch’essa nera. La osservai furtivamente , ponendo e distogliendo a tratti lo sguardo, come di solito si fa quando in un ambiente angusto ci si trova a stretto contatto con un estraneo del quale si cerca, in pochi istanti, di scoprire qualcosa della sua vita e del suo carattere.
Lei sedeva in prossimità della porta dello scompartimento e mostrava di non essere per nulla interessata al suo compagno di viaggio. Così, un po’ imbarazzato, preferii ritornare alla lettura.
°°°

Roma, giugno 1938.
“Quando il cuore dell’uomo alberga il temporale perché s’innamora di una donna leggera, soffrirà certamente”.
E ancora:
“Se uno dei due è pazzo, impazzirà anche l’altro”.
Lesse e rilesse le parole sul vecchio libro e gli sembrava che ogni volta le lettere cambiassero di colore e di senso. Le vedeva ingrandirsi e poi impicciolirsi fino a dileguarsi; avvicinarsi fino a occupare la pagina intera e poi mescolarsi, fondersi in lontananza, in mille ghirigori misteriosi che ruotavano come minuscoli coriandoli agitati dal vento.
Ricordava. Laggiù, in quel paese aggrappato sulla sommità di un colle, aveva creduto una volta d’essersi innamorato. Un bacio sotto un pioppo. Poi una partenza forzata.
Ricordava. In città una fiamma si era accesa nel suo cuore per una fanciulla delicata e anemica che l’aveva stuzzicato ed estasiato con cenni civettuoli da un balcone sul cortile.
Ricordava. Cosa ricordava ancora? Una fila di donne abbandonate appena conquistate. Ma qui i ricordi divenivano confusi e i cerchi si sovrapponevano, intersecandosi e aggrovigliandosi. E allora riportava gli occhi sul libro e ritornava in sé.
Cosa c’è di più leggero di una donna?
Egli aveva dato un’importanza speciale alla leggerezza delle donne e tante volte gli erano piaciute appunto per questo. Perché – pensava – la leggerezza è la base della loro femminilità
E non aveva mai sofferto per la loro leggerezza perché, riconosceva egli stesso, il suo cuore non aveva mai battuto di amore vero. I disinganni, le delusioni, le relazioni troncate non lo avevano prostrato, ma irrobustito. Con una certa aridità, però. L’amore grande, quello vero, sarebbe poi venuto? Era giovane, poteva sperarlo. Certo però non era mai diventato pazzo, su questo era pienamente d’accordo con se stesso. Quindi quel vecchio libro che aveva trovato a caso da un rivenditore diceva il falso.
Lo richiuse. Ma continuò a fantasticare.
Dal cortile giungeva lo scroscio della pioggia e da una grondaia chissà dove, l’acqua cadeva in qualche recipiente già pieno con un rumore continuo e snervante che gli suggestionava il cervello.
- Già, le donne sono come la pioggia: vengono improvvisamente, fanno strepito, trascinano, qualche volta lavano l’anima, e poi cessano improvvisamente.
Parve che la pioggia avesse letto nel suo pensiero, perché d’improvviso non l’udì più picchiare sui vetri. Ma vicino ci fu il rombo di un tuono e subito dopo l’acqua continuò più accanita, quasi rabbiosa.
Accese ancora una sigaretta. Era tardi. Sbadigliò. Quella sera non aveva potuto rivedere le carte. Era troppo oppresso da altri pensieri per poterlo fare. Era giugno; gli esami da procuratore erano prossimi e in quei giorni gli occupavano tutto il tempo, ma aveva la testa pesante come un macigno e non rimaneva che andare a letto e cercare di rifarsi domani delle ore perdute.
Dal corridoio gli giunse la voce della padrona di casa:- Signor Mario.
- Che c’è, signora Fordelli?
La porta si aprì e la donna gli si avvicinò. Era grigia, grassa. Ansava come se avesse salito cento gradini a quattro a quattro.
- C’è una signora che chiede… chiede di voi.
- Una signora? A quest’ora?
S’avvicinavano le undici.
- Sì, ha insistito per entrare.
- Bene. Fatela entrare.
Si alzò per infilarsi la giacca mentre la signora Fordelli usciva, quasi trascinandosi a stento, tirandosi dietro l’uscio.
Chi poteva essere? Che voleva?
Non ebbe tempo di pensare ad altro perché se la vide innanzi. E gli parve che l’uscio non si fosse neanche riaperto. Forse la signora Fordelli l’aveva semplicemente accostato uscendo.
Era una donna alta, elegantissima nel suo abito tutto nero, dalle forme squisitamente delineate. Doveva essere certamente bellissima, ma Mario non poté vederla: una veletta nera, fittissima, le scendeva dal cappellino. Guanti neri le foderavano le mani.
Camminò fino al centro della stanza e si fermò esattamente sotto la lampadina, in modo che il viso fosse in ombra. Cercò di riconoscere la donna, ma il velo era impenetrabile, e lei rimaneva ferma, statua nera sotto una luce vivissima.
- Vogliate accomodarvi.
Le girò attorno per accostarle la sedia. La donna girò su se stessa, leggermente, silenziosa, senza fare un gesto.
- Sono lieto, signora, di accogliervi nella mia stanzetta, e qualunque sia il motivo della vostra visita sarò onorato di potervi essere utile in qualche cosa. Soltanto ditemi che debbo fare.
La donna non rispose, ma Mario notò che dal posto degli occhi, di sotto la veletta, una luce parve sprigionarsi. Ma non era luce; era qualcosa di più nero del velo, che rifulgeva, come due diamanti a una luce lontana.
°°°

La veletta nera: quello era il particolare che più mi aveva incuriosito della donna; la veletta e anche il vestito attillato, che sembravano usciti da una rivista di moda anni Trenta. In tutto il mondo impazzavano minigonne e stivaloni sopra il ginocchio, abiti dai colori sgargianti e buffi vestitini a strisce, cappotti fino ai piedi o camicioni informi, e lei se ne andava in giro così? Se quella donna voleva essere originale, bèh, ci riusciva benissimo. Non passava certo inosservata. Aguzzai gli occhi, cercando di indovinare i lineamenti sotto il velo. Non capivo se mi stesse osservando oppure no, se dormiva o guardava da un’altra parte. Il velo era troppo fitto per lasciar intravedere qualcosa.

°°°
Essa taceva. Ed anche l’uomo tacque. Non sapeva più cosa dirle; gli parve che i diamanti neri l’avessero sconvolto nell’anima. Forse una donna conosciuta nel passato veniva ora a reclamare una parte di quel cuore che egli le aveva detto di darle? Forse una vendetta, un ricatto?
Ma la donna sembrava troppo elevata per abbassarsi a tanto. Da tutto quel corpo meraviglioso emanava qualcosa d’indefinibile, una forza affascinatrice e misteriosa che attraeva come un vortice. E l’uomo cominciò a sentire qualcosa nel petto. Un calore. Una fiamma.
La figura di lei diveniva ora d’aspetto più nero. Si mosse, fece un passo verso di lui. L’uomo la vide avvicinarsi e restò fermo. Aveva deciso di dominarsi e attendere.
“ Diavolo, dopotutto non è che una donna”, si disse, “ che ho da temere?”
- Non sono una donna.
La frase non fu pronunciata, ma egli la udì. La udì come proveniente da un abisso, dalla sommità di una pira infiammata e rumoreggiante di un fuoco immane.
Non aveva nulla di umano quella voce: era strana, da incubo.
- Signora…
Restò inorridito da quel che vedeva. Davanti alla donna non c’era l’ombra. Eppure ora la luce era dietro di lei.
Aveva letto di racconti di fantasmi, aveva visto al cinema tali racconti sullo schermo, ma poteva ciò esistere in realtà? Eppure era chiaro che non sognava.
E ancora l’orrore lo prese alla gola come se si fosse improvvisamente trovato davanti a una divinità umanizzata. Restò immobile, statua dello stupore. Le sue labbra, come per abitudine acquistata, ripeterono:- Signora…
Né seppe dire altro.
Un tuono che fece tremare la casa rispose all’appellativo soffiato piuttosto che pronunziato. Nello stesso tempo un lampo giallastro solcò il cielo riflettendosi sui vetri della finestra e la luce elettrica cominciò ad affievolirsi.
E allora nella penombra vide gli occhi della donna divenire rossi come fiamme, brillare, diffondere raggi che si proiettavano davanti a lei. Poi improvvisamente tutto fu buio.
Il giovane per la prima volta nella sua vita provò lo spavento. La facoltà di pensare gli venne meno.
Si ritrovò a chiamare: - Signora Fordelli!
Dall’estremità del corridoio gli giunse fioca e affannata la voce della padrona di casa: - Vengo. Porto subito il lume.
Non si mosse. Temeva di toccare la donna. Ansava. Qualche goccia di sudore gli scendeva sulle guance.
Ma quando la signora Fordelli arrivò col lume, nella stanza non c’era nessuno oltre lui. Però sul fondo nero della scrivania spiccava una frase scritta con tremule lettere di opalescente madreperla:<< Domani, ore venti, al Colosseo>>.
- Dio! Che avete signor Mario? Siete bianchissimo.
- Nulla, forse è il caldo, o l’aria troppo pesante. E’ andata via la signora?
La padrona di casa aggrottò la fronte. – Quale signora?
- Quella che avete fatto entrare in camera mia poco fa.
- Una donna in casa mia a quest’ora di notte? Ma dico, signor Mario, mi volete prendere in giro? Dovreste sapere che è regola di questa casa non accettare visite femminili se non in casi eccezionali e comunque sempre di giorno.
La signora Fordelli se ne andò , borbottando:- Voi avete sempre voglia di scherzare.
Ma allora era un sogno? Possibile se no che lei non ricordasse neppure di aver annunciato la visita solo pochi minuti prima? Ma la scritta? La scritta era l, come gli occhi di lei al loro primo bagliore. Passò del tempo prima che si potesse rimettere. Man mano che si calmava non sapeva rendersi ragione di quanto era avvenuto. Forse era questa l’avventura galante e misteriosa che tante volte aveva accarezzato nei suoi sogni? Forse una forma sconosciuta d’amore, l’amore fantastico che gli si offriva ora da una donna esaltata che amava circondarsi di mistero. Tanti altri “forse” gli vennero in mente, ma non sapeva a quale appigliarsi perché gli mancava qualsiasi ragione fondata su qualche cosa di reale per potersi regolare. Siccome era certo di non aver sognato, pensò anche che quando avesse acquistato con la sconosciuta una certa intimità, le avrebbe raccontato tutte le supposizioni di quella sera, e allora come avrebbero riso di gusto!
E la rivide che rideva, a faccia scoperta, con gli occhi veramente in fiamme. Perdurava però in fondo al cuore un certo che di sospetto, come di un pericolo imminente, a cui non si poteva sottrarre, perché attirato da una volontà superiore.
Sognò per tutto il resto della notte occhi neri e rossi, di un ragno mostruoso che lo fissava nella brama di ucciderlo, distruggerlo.
°°°
Bene , se non era una strana combinazione quella…
Trent’anni prima, quando ancora ero nel grembo di mia madre, mio padre scriveva un racconto su una donna apparsagli misteriosamente, e ora una donna che le assomigliava incrociava la mia vita.
Suggestione, non era altro che suggestione.
Il racconto che stavo leggendo mi aveva tanto coinvolto, che la vista di una donna abbigliata più o meno come la protagonista aveva fatto scattare dei puerili quanto bizzarri accostamenti fra situazioni del tutto distinte. E che accadesse proprio mentre andavo a fare visita a mio padre faceva parte dei curiosi giochi del destino. In fondo quell’episodio serviva a rendermelo, in qualche modo, più vicino.
Scrutai di nascosto la mia compagna di viaggio, cercando ancora una volta di penetrare il velo, forse alla ricerca di due occhi che splendevano come diamanti neri.
Lei aveva accavallato le gambe e poi non aveva fatto altri movimenti. La testa era lievemente reclinata, come se dormisse.
Temetti di svegliarla. Ritornai con lo sguardo fuori dal finestrino, a guardare il paesaggio che cambiava. Il treno stava per affrontare una propaggine della dorsale appenninica.
°°°
L’indomani ebbe gli stessi sentimenti per tutto il giorno. E quando nelle ore del pomeriggio il caldo divenne opprimente, cominciò a prepararsi e mise tanto ardore che alle diciannove era già al Colosseo. Fremeva come al suo primo appuntamento amoroso.
Fra le rovine alcuni ragazzi si rincorrevano, qualche coppia si sussurrava parole e cercava l’ombra che scendeva sui marmi che mandavano riflessi rossastri.
Già pregustava tutta la poesia dell’incontro: le avrebbe parlato e lei avrebbe finalmente risposto alle domande. L’avrebbe vista e questa volta l’avrebbe costretta a scoprirsi il volto. Come non sapeva, ma era sicuro di sé.
Quando un ultimo raggio di sole fece brillare la sommità del muro più alto come un mosaico cosparso di rugiada multicolore, il cuore cominciò a battergli forte.
Guardò l’orologio.
Quel gesto l’aveva ripetuto cento volte tutto il giorno. Mancavano alcuni minuti all’ora fissata e più nessuno ormai si vedeva nel vecchio anfiteatro; anche perché una nuvola nera aveva improvvisamente inseguito gli ultimi raggi del sole e già qualche goccia di pioggia si schiacciava sul marmo dove Mario stava seduto.
Guardò ancora l’ora.
Mancavano esattamente due minuti alle venti. Ebbe ancora un tuffo al cuore perché un segreto istinto l’avvertiva che lei era vicina. E sentì come la prima sera, quell’effluvio indefinibile di ozono, di aria umida, che la donna aveva lasciato dietro di sé.
“Dev’essere la pioggia”, pensò.
- No, sono io.
Di nuovo la voce, che pareva giungergli da un abisso, lo fece sobbalzare.
- Mi aspettavi?
La vide sommamente bella, perfetta nel volto e nel corpo. Gli occhi le lucevano, ammaliatori e profondi, e lo sguardo lo turbava, gli dava le vertigini. Vestiva non più in nero, ma in un colore che non si poteva definire, stretta in una veste scollata che le lasciava nudo il collo e le braccia bianchissime.
- Perché mi guardi così?
Tutte le facoltà del pensiero e della parola vennero meno nell’uomo. Non poté che guardarla.
- Vieni.
Leggera come una carezza dell’aria la mano di lei gli prese il braccio. L’uomo si mosse come un automa e soltanto un passo, il suo, percepì nell’arena. Si sentiva come in un sogno, nell’irrealtà.
- Non mi dici nulla?
Egli si ribellò al mutismo e con uno sforzo poté finalmente articolare :
- Siete bella. Splendidamente bella.
Lei rise, e la sua voce fu una manciata di perle su una lastra d’argento.
- Volevi dire: foscamente bella.
- Foscamente?
- Sì, è così. Credi tu che tutti gli uomini che mi vedono possano pensare altrimenti? Credi che ognuno mi possa desiderare? Sei in errore: ben pochi mi vogliono, sebbene tutti mi conoscano. Dicono che trascino ad atti insani se m’insedio nel loro cuore e nella loro mente. E mi temono e cercano di scacciarmi lontano, ma si sentono da me attirati.
Avevano preso a salire una scaletta che conduceva in cima al muro esterno e si tenevano abbracciati. Qualche colpo di vento cominciava a penetrare nelle gallerie e ne uscivano suoni strani, come lamenti soffocati.
- Non tutti gli uomini vogliono scacciarvi, – disse lui – perché c’è almeno uno che in questo momento vi adora: io.
- Lo so; ma che può uno contro tanti? E che cosa puoi dire di me se ancora non mi conosci? Che cosa puoi sapere di ciò che accadrà se mi conoscerai?
Sembrò che un velo di malinconia si stendesse d’un tratto sulla sua fronte e in quel medesimo istante un tuono scosse le arcate secolari.
- Ecco, guarda dietro di noi.
Mario si voltò. In fondo alla scala, sui primi gradini, due uomini salivano rapidamente. Dalle visiere che luccicavano di pioggia riconobbe due poliziotti.
- Ehi, voi! Scendete!
- Andiamo di qua, invece – disse la donna al suo compagno, come in risposta agli uomini della legge. – Vedi, costoro mi danno la caccia da secoli. Mi attribuiscono delitti e stragi perché son io a travolgere l’umanità con tutte le sue passioni, con tutta la sua forza del male. Vorrebbero distruggermi e non sanno che son io quella che dà forza alla vita del mondo, ai suoi desideri, alla sua arte. Molte cose belle esistono perché io esisto; sono io che spesso do la forza e poi la riprendo, a mio piacimento. E non sono leggera, no! Vieni.
Erano giunti all’ultimo gradino. Ancora qualche passo e si trovarono sull’orlo estremo di un’arcata, a una ventina di metri dal suolo. Un’impalcatura era stata messa lì dai muratori per riparare alcune fenditure e restaurare la struttura.
- Ma siete matto a salire lì? – fece ancora la voce del poliziotto, che dalla sua posizione non poteva vederla. – Ohé, dico, scendete!
La donna parve non udirlo. L’uomo tremò.
- Ecco, stringiti a me. Così.
Lo allacciò tenacemente , avvolgendolo in un turbine di profumi, tanto da fargli male. Ed egli sentì sulle labbra il sapore di un bacio frenetico; sentì che il suo cuore voleva scoppiargli per il piacere mentre le sue gambe lo portavano verso la strada. E scesero così, dolcemente, passo dopo passo, stretti nel bacio.
Il brigadiere urlò: - No!
Ma il vento, che soffiava ora con inaudita violenza, spazzò la sua parola ed egli ristette un attimo sbalordito e istintivamente s’afferrò al braccio del compagno, come se fosse lui a precipitare. In quell’attimo si aspettò di udire il tonfo del corpo sull’asfalto, ma soltanto il vento sibilò lamentoso.
I due poliziotti rifecero la scala a precipizio e Santoni, il brigadiere, avrebbe destato meraviglia a chi l’avesse visto, pingue, basso, correre così velocemente.
Sbucarono sulla strada. In quei pochi secondi ogni idea d’applicare il codice era scomparsa in essi e soltanto un sentimento d’umanità li faceva accorrere. Ma quando vide che l’uomo saliva su un’automobile che pareva lasciata lì appositamente, Santoni non poté trattenere un’imprecazione. In verità era troppo: aver giocato così sul suo sentimento d’altruismo che per un momento l’aveva fatto deviare dal suo dovere d’applicare la legge; averlo stuzzicato all’inseguimento combinandogli poi quel tiro, e con quel tempo infernale… No, non poteva lasciar correre. Chiunque pensava di prenderlo in giro così avrebbe dovuto pagare la propria insolenza fino all’ultimo centesimo.
Anche lui aveva lì accanto la macchina e si sarebbe lanciato all’inseguimento, anche se avesse dovuto per questo fare il giro di tutta Roma.
Saltò dunque sulla macchina e si lanciò sulla scia dell’auto in fuga.
La donna pareva non essersi accorta che l’inseguivano. Avevano percorso la Via dell’Impero a un’andatura ordinaria e ora le luci multicolori di Via Nazionale si riflettevano sui vetri della macchina dove scivolavano grosse gocce di pioggia.
E Mario Terrini la guardava, muto.
- Tra poco riderai – disse lei.
Ridere? Lui non aveva voglia di certo. Era stupefatto. Il suo cervello doveva essersi atrofizzato per lo spavento.
- Ti ho fatto paura? Vedi, non posso amare perché si ha paura di me. Povero Mario! Bisogna abituarsi alle mie stranezze e non meravigliarsi più di nulla, e non ostacolarmi, e non farmi andare in furia.
Aveva lasciato che l’automobile seguisse la via che preferiva e teneva ora una mano dell’uomo nelle sue. La macchina aveva delle impennate e degli scarti da puledro selvaggio, e sbandava pericolosamente, ma continuava a correre come se conoscesse la strada, come se un vento irresistibile la spingesse in una direzione prestabilita.
Un mostro pauroso dagli occhi giallastri,l’autobus, si precipitò contro la macchina come per stritolarla.. Mario Terrini, con l’istinto di un disperato che vede una via di scampo, si afferrò allo sterzo.
- Sta’ calmo – disse lei.
Girò la macchina attorno alla fontana dell’Esedra e fu questo il momento che il poliziotto scelse per sbarrare la strada: aveva approfittato della biforcazione della strada girando a sinistra. Poteva bene infischiarsene delle leggi, lui, purché riuscisse a farle osservare agli altri.
Ma la preda gli sfuggì: rasentando il muro di Santa Maria degli Angeli si era lanciata verso Piazza delle Finanze.
Correvano ora su Viale Morgagni e la luce rossa del fanalino posteriore che s’allontanava pareva invitare Santoni con un fascino d’attrazione mai subito: era il suo supplizio. D’un tratto la vide svoltare su Via Spallanzani a una velocità folle. S’avventurò bravamente anche lui in quel budello e adocchiò la macchina ferma a pochi metri. I freni stridettero per evitare l’urto. Ma in quel mentre Santoni e il suo compagno rimasero pietrificati dall’audacia della manovra della macchina inseguita: procedeva all’indietro e correva verso di loro come un cinghiale inferocito.
Ma l’urto non avvenne. La macchina fantasma sfrecciò tra loro e un portone, sprizzando scintille, e si ritrovò su Viale Morgagni. E stette ferma.
Lo stupore inchiodava i poliziotti al loro posto. Santoni se ne liberò per primo. – Ora ti tengo, buffone.
Corsero insieme, insieme si precipitarono verso gli sportelli, dietro i vetri dei quali qualcuno rideva pazzamente.
- Scendete! - urlò Santoni.
Ma una folata di vento lo scaraventò col suo compagno a qualche metro. Santoni lottava come se contro di lui vi fosse stato uno spirito maligno invisibile che gli ostruiva il passo. Il vento gli fece volare il cappello e gli sbottonò la giubba, e più cercava di avvicinarsi e più una forza lo respingeva via. Un ghigno demoniaco gli rintronava nelle orecchie e il tuono sembrava volesse spaccargli il cranio col suo rombo.
Fu costretto a ripararsi nella sua macchina, confuso e umiliato.

°°°
Il treno imboccò una galleria, sferragliando come non mai. Le pareti del tunnel fuggivano via con quella che mi appariva una velocità pazzesca, cadenzata dal correre frenetico delle lampadine che illuminavano, di tanto in tanto, quel tratto nel grembo della montagna. Il turbinare dell’aria che veniva schiacciata e spinta dalla corsa della locomotiva, premeva a ondate contro mie orecchie, provocandomi un senso di confusione.
Poiché l’illuminazione interna non funzionava lo scompartimento era al buio, interrotto soltanto dalla fioca luce che entrava a sprazzi dal finestrino.
E la donna era buio nel buio.
Dov’era? Era seduta ancora lì, immobile, o si era spostata? Era forse vicino a me e tra poco avrei sentito il tocco della sua mano, che immaginavo bianca e fredda? Oppure quando saremmo sbucati fuori dalla galleria avrei girato gli occhi e non l’avrei più rivista?
Invece del solito odore stantio e catramoso delle gallerie della ferrovia, un inconsueto profumo come di pioggia fresca stimolava le mie narici.
Era certamente colpa dei miei sensi sovraeccitati dai ricordi se le sensazioni non corrispondevano all’esperienza. Mi stavo lasciando suggestionare, questa era la verità. Scossi la testa e tastai le tasche della giacca alla ricerca del pacchetto di sigarette. Ne pescai una e la misi sulle labbra. Forse oltre alla ricerca dell’aroma rilassante del tabacco, era anche mia intenzione fare un po’ luce per assicurarmi che non si fosse mossa e che tutto scivolasse sui binari della normalità. L’accendino si rifiutò di funzionare, non una scintilla sprizzò dalla pietra focaia.
Lo scompartimento era come illuminato da ripetuti flash fotografici, che non mi davano il tempo di focalizzare i particolari. Una volta mi pareva di vedere la sagoma della donna seduta al suo posto, un’altra volta il sedile era vuoto e avevo la sensazione che il mio viso fosse sfiorato da dita, un’altra avvertivo il calore di un corpo accanto al mio.
“Suggestione e null’altro” , pensai.
“Non è suggestione!”
La voce proveniva da un punto dello scompartimento dove mi sembrava di scorgere due piccolissime luci lontane, come riflesse su diamanti neri.
O forse proveniva direttamente dal mio cervello.
Il buio ora era diventato fittissimo e perfino le luci esterne non esistevano più. Il nostro treno pareva affondare direttamente nel centro della terra, nell’inferno, senza che più nessuna forza fosse capace di arrestarne la corsa.
E le piccole luci di diamante diventavano sempre più brillanti, capocchie di spillo che pungevano le pupille. Qualcosa mi stringeva la gola: forse una mano, forse lo spasmo dei miei stessi muscoli. Vedevo Mario Terrini e la donna fluttuare sopra il Colosseo e scendere leggeri, al rallentatore, come in un vecchio film in bianco e nero rovinato dal tempo e pieno di sfarfallii. Vedevo lei sorridere, d’un sorriso malinconico. Sentivo l’aria che mi agitava i capelli e il corpo privo di peso, foglia spazzata dal vento, spirito portato dal temporale. Forse la donna aveva aperto il finestrino, o forse una finestra si era aperta nella mia mente, spalancandomi visioni su abissi bui.
D’un tratto la luce ritornò e il treno sbucò di nuovo all’aperto, con un lungo urlo di sirena.
Da questa parte della montagna il tempo era buio e cupo e grosse gocce di pioggia rigavano i vetri.
La donna era ancora al suo posto, silenziosa come sempre. Aveva solo cambiato la gamba accavallata, mettendo la destra sulla sinistra.
°°°
Dire che Mario Terrini era felice sarebbe falso. Comprendeva egli stesso che la felicità avrebbe dovuto raggiungerlo dal momento che aveva incontrato la donna forse si era perduta per via; anzi quel po’ di contentezza che gli rimaneva nel cuore prima della sera dell’incontro, pareva si fosse dileguata e svanita per sempre. Il vuoto lasciato nell’anima da qualcosa d’indefinibile non poteva colmarsi così, di colpo. Egli si era convinto di questo, e aveva aspettato, aveva atteso. Che cosa?
Era sicuro però che qualcosa stava accadendo dentro di lui. Aveva un pensiero fisso, ossessionante, e sentiva che la donna esercitava su di lui un potere sconosciuto e tormentoso. Non poteva sfuggirle perché gli leggeva nel pensiero, non poteva abbandonarla perché lei preveniva ogni suo gesto, ogni suo tentativo. Aveva tentato di fuggire in una notte serena, piena di stelle e chiarore lunare, ma improvvisamente tutto era diventato nero, un buio infernale che l’aveva avvolto come un mare d’inchiostro. Camminando a tentoni aveva toccato il petto di lei che gli si ergeva davanti e che rideva da far agghiacciare il sangue.
Un ferro rovente aveva allora preso a bruciargli la mente e vedeva una luce rossastra, incostante e tremula, ballargli davanti in un vortice di fuoco. Poi i vortici furono due, girarono tracciando segni di mostri e larve deformi, presero consistenza e divennero due occhi rossi, quelli di lei che fissavano i suoi.
Distolse lo sguardo e fu soltanto per cambiare scena. Gli parve che la stanza si capovolgesse, che prendesse fuoco e si tuffasse in un mare incandescente. Un’orribile testa di Gorgone adirata sorse dal mare di lava e i capelli divennero razzi sprigionatisi in tutte le direzioni. Alcuni raggiunsero il suo cuore dandogli delle fitte atroci.
La donna giaceva sdraiata su un fianco. Un braccio, nella penombra, pendeva inerte e aveva il biancore della neve. Sul nitore del guanciale i capelli neri si sparpagliavano come fili d’ebano.
Si ritrovò nella sua stanzetta. Voleva chiamare a gran voce la signora Fordelli e mandare via la donna. Voleva ucciderla, liberarsi per sempre di lei.
“ Non credere che io non sapessi che avresti agito così “, gli martellava la sua voce nel cervello. “Questo è il mio destino: essere qualche volta agognata e poi stroncata nella vita. Ma io rinascerò; tu non potrai mai dimenticarmi. Mai. Albergherò nel tuo cuore sempre. Sempre…”
°°°
A quel punto il racconto di mio padre si interrompeva. Non avevo mai avuto dubbi che fosse autobiografico, ma pensavo fosse stato solo un prodotto della sua fantasia malata. Egli non aveva avuto il tempo di completarlo, non aveva potuto… Certamente, non aveva potuto.
Mentre il treno entrava ululando nella stazione Termini e io osservavo i binari intersecarsi, lasciarsi e incrociarsi ancora, la donna scomparve. Girai gli occhi e non la vidi più: era andata via, silenziosa e leggera com’era comparsa.
Impiegai un’altra mezz’ora per giungere al cimitero del Verano.
La tomba di mio padre era una delle tante comuni: un loculo in alto, con una piccola lampada perenne e un mazzo di fiori finti su un vaso agganciato alla lapide.
Le lettere bronzate dell’epitaffio, stranamente, in tutto quel tempo non avevano perso lucentezza, come se qualcuno le avesse lucidate con cura e con regolarità da quando erano state poste, ed erano trent’anni!
L’iscrizione, quindi, era leggibilissima, e semplicissima : Mario Terrini, Vasto, 4 febbraio 1908 – Roma 30 giugno 1938.
Mio padre era morto nell’arco di pochissimi giorni, dopo essere stato colpito da una misteriosa malattia che lo aveva fatto impazzire. Forse un virus, forse un avvelenamento, non si era mai saputo.
Per questo non aveva fatto in tempo a completare il racconto.
Il suo cervello aveva improvvisamente smarrito il contatto con la realtà; e i suoi scritti lo rivelavano, pieni com’erano di ossessioni e allucinazioni.
Non riuscivo a staccare lo sguardo dalla lapide.
Che barbara usanza quella di seppellire i morti lassù, in cima a una serie di loculi, così lontani che non si arriva neppure a sfiorare il marmo con la mano!
Andavo a Roma a fargli visita una volta all’anno, ma quel giorno avevo un desiderio irrefrenabile di toccare la sua foto sbiadita, le lettere bronzate, qualcosa che mi facesse ricordare materialmente che lui era davvero esistito, un giorno, che aveva amato e odiato e che era stato travolto da qualcosa più grande di lui, dentro o fuori la sua persona che fosse.
- Se vuoi ti posso far salire fin lassù – disse una voce alle mie spalle.
La riconoscevo, anche se non l’aveva mai sentita: musicale, con un accento lievemente minaccioso. Sapevo di chi era, addirittura mi aspettavo di sentirla.
Mi girai lentamente, con un sorriso sulle labbra… un sorriso che subito si spense.
Un guardiano mi fissava con espressione pensosa, carezzandosi il mento.
- No, grazie, fa niente. Tra poco vado via.
Cominciavo ad avere anch’io delle allucinazioni? Prima la donna sul treno, ora quella voce.
L’uomo scrollò le spalle, forse rimpiangendo una mancia che gli era sfuggita. -Come desidera – borbottò.
Se ne andò con passo strascicato e respiro ansante, come se avesse salito cento gradini di corsa.
- Davvero non vuoi salire? - Lei era al mio fianco. Il suo corpo non faceva ombra.
- No, non voglio salire.
- Chi credi che io sia? Hai paura di me?
Tastai la giacca alla ricerca delle mie sigarette. Ne misi una sulle labbra e presi l’accendino.
Si accese al primo colpo.
Aspirai il fumo a pieni polmoni e lo soffiai verso l’alto, osservandolo salire leggero oltre i loculi. Poi i nostri sguardi si incrociarono.
Neri diamanti che riflettevano luci lontane, profonde pozze di oscurità, Gorgone che si ergeva da acque di fuoco.
Schiacciai la sigaretta sotto il tacco.
– Lo so chi sei; e no, non ho paura di te. Non ti temo. Non ti desidero.
Le girai le spalle e uscii dal cimitero, senza voltarmi indietro.