Io odio il treno.
Prendo il treno solo quando non posso fare diversamente come in
questo caso: patente di guida ritirata, troppo macchinoso l’aereo
con atterraggio a Bruxelles, trasferimento alla stazione ferroviaria
e treno per Charleroi.
Tanti dicono che il treno è riposante, che puoi guardare
il paesaggio… stronzate. Tra te e il paesaggio c’è
una lastra di vetro spesso e sempre sporco che non ti permette
di ascoltarne i suoni né di sentirne i profumi. Ascolti
solo il tu-tun tu-tun, senti solo odore di ferro umidore e vetro
freddo. Hai mai avvicinato il naso al finestrino di un treno in
corsa? Odore di vetro freddo. E poi, secondo dove ti siedi, il
paesaggio ti arriva addosso con la violenza di un intercity o
fugge via sferragliando. In entrambi i casi non te lo puoi godere.
Un po’ come la vita.
Per questo odio il treno.
Siamo in tre nello scompartimento: io, un cieco seduto di fronte
a me e la ragazza che l’accompagna accanto a lui. Classico
stereotipo di volontaria lei, jeans e zainetto. Tipico cieco lui.
Almeno secondo i miei modelli. Porta un cappello nero a tesa piuttosto
larga, occhiali scuri e cappotto nero tipo spolverino, un fazzoletto
rosso attorno al collo come una gola squarciata, una risata sgangherata.
Un plaid gli copre le gambe. Probabilmente ha fatto il bagno nel
profumo, un profumo dolce-amaro, “Fahrenheit”, direi.
Ma sento anche la puzza della sua anima, puzza di prefica di montaliana
memoria.
Entriamo in galleria e il buio ci precipita addosso pesantemente.
Probabilmente c’è un guasto che coinvolge tutto il
vagone. Non c’è cosa opprimente come il silenzio
nel buio. E forse approfittando del buio, per la prima volta sento
la voce del cieco.
“Signorinella pallida dolce dirimpettaia...” Anna!
Maledetta sgualdrina! Anna!... Voglio raccontarti una favola...
Anna!... Ti ucciderò un giorno. L’avrei già
fatto, ma poi sarei rimasto solo come un cane... cane? Ecco cosa
ci vorrebbe!: un cane. Lo accarezzerei, gli darei da mangiare
gli avanzi del mio pasto, da buoni fratelli. Lo laverei due volte
al giorno. Non sopporto la puzza dei cani. E poi lo farei dormire
accanto a me. E in cambio lui mi terrà compagnia, al mattino
mi sveglierà e io gli dirò con voce tonante e imperiosa:
cane!... anzi no, lo chiamerò Flic. Flic! vammi a comprare
il giornale!, e poi: Flic! prendimi le pantofole!, Flic! ho freddo,
dammi la coperta!, Flic! portami a fare pipì!... Certo,
dovrà farmi tutti questi piccoli favori. D’altra
parte io lo tratterò molto bene, non si potrà lamentare.
E se si lamenterà... una buona sculacciata!... No, niente
sculacciate, ci soffrirebbe troppo, gli animali sono sensibili,
più degli umani. Indubbiamente dovrei comprarmi un cane,
anzi, comprerò subito un cane. Anna!, puoi andartene!,
non ho più bisogno di te. No, aspetta: devo ancora decidere
che cane comprare. Anna!, non andartene. Capito? Anna, dove sei?
Non mi avrai abbandonato proprio adesso!? Ah, eccoti finalmente.
Io so come si trattano i cani, ne ho avuto uno da bambino. Spingeva
la mia carrozzina e faceva arf arf: era tutto contento di spingere.
Però non agitava la coda... anche perché era un
cane lupo... il cane lupo non agita la coda? Anna non dire idiozie!
ma resta qui. Quando avevo tre anni gli montavo in groppa, ricordo
perfettamente... cosa?: che mio padre mi sgridava. Che diceva?...
dunque... “Berto! – diceva - non si trattano così
le bestie!”. Certo, proprio così diceva. Ricordo
perfettamente. Era vecchio già allora, sai Anna? Era già
vecchio. Vecchissimo. Il cane, dico. Io avevo tre anni e lui era
già vecchio. Sono le vicende della vita. Quando scopri
di star bene con qualcuno, trovi sempre che in realtà c’è
qualcosa che non quadra. Settemiladuecentocinquantasei miliardi
saremmo se non fosse così! Questo è il principio
della vita! Questo dimostra che la matematica è un’opinione!
Sono malato, dici? Io sto benissimo! Sto benissimo, ti dico. Vattene.
No, aspetta! Non sto proprio bene. Ma è solo un po’
di tosse, niente di grave, non è vero? Speriamo. Sperare?...
bah, quel cane mi è morto. No, non di vecchiaia. È
morto sotto i miei occhi... cioè, sotto un treno, davanti
ai miei occhi. Sì, ti dico, davanti ai miei occhi... Come
“sei cieco”? Cieco, sì, ma da poco, da pochissimo
tempo Cieco dalla nascita?! Ma che dici? È poco che son
cieco... Mi fai piangere... Davanti ai miei occhi è morto!
Ricordo perfettamente. Ascolta, ti racconto come andò...
mi ascolti? Il mio paese. Hai presente il mio paese? Non ci sei
mai stata? Allora non puoi averlo presente. Non importa, te lo
descrivo. Come “lascia perdere”? Perché? È
importante, lo ricordo perfettamente. Chi dice che non l’ho
mai visto? Non dire idiozie, ci sono nato... Ma non è vero
che son nato cieco. Ti dico che lo ricordo perfettamente. Mi hai
seccato, puoi andare. No!, aspetta! Prima ti racconto. Ci sei?
Toccami, sennò non ci credo... bene, proseguo: tetti...
come dire?, rossi e grigi... no, non va bene. Rossastri e grigiastri...
no, brutto. Oh Anna, perché è così difficile
dire di che colore erano? Erano fatti di tegole, più o
meno... C’era lo strato di tegole, rossastre, e sopra delle
pietre, grigiastre, per tener ferme le tegole: quindi rossastri
e grigiastri. E verdastri-marcio. Sì, verdastri-marcio!
Il tempo!: questo eterno orologio aveva permesso al muschio e
alla muffa di nascere fra le commessure delle tegole! Come “non
si può dire verdastri-marcio”! E perché no?:
è un ottimo neologismo. Vuol dire: di colore verde-marcio
ma non proprio verde-marcio. Come dire “rosso” e “rossastro”,
“grigio” e “grigiastro”, non proprio rosso
e non proprio grigio. Proseguiamo. Dunque: tetti rossastri grigiastri
e verdastri-marcio. Le case in pietra tenute su con l’argilla.
Fatte dai contadini, col loro sudore... e io la sentivo la puzza
di sudore che emanavano, impastata con l’argilla. Le pietre
venivano trasportate su dal fiume... no, non era proprio un fiume.
Comunque venivano trasportate sui muli e sugli asini per sentieri
poco battuti, e le bestie, ad ogni passo, rischiavano di fracassarsi
laggiù nel greto del torrente... torrente? No, non era
proprio un torrente. Comunque rischiavano grosso. Anna! Anna,
ci sei? Anna. Anna!...
Il silenzio si distende nuovamente
sul buio, oppressivo, insistente.
Penso che anche Berto, lentamente, trascina a stento la sua vita,
una pesante palla di ferro incatenata alle caviglie.
Con voluttà mi passo le dita tra collo e fazzoletto, mi
calo il cappello sugli occhi, tiro su il plaid e mi ci avvolgo.
Tenterò di dormire.