Vienna
2: Halloween
di Marina Tevini
E
allora ebbi la sensazione che tutto fosse perduto... Sferragliava
un tram rosso sulle rotaie di Vienna. Tram liso, con un pavimento
imbevuto di pioggia e di rifiuti umani. Finestrini appannati e
opachi, chiazzati di pioggia.
Sera di Halloween. Cinque ragazze vestite da streghe con calze
a rete strappate e ragnatele sui capelli si passano birre e risate.
Davanti a me un’anziana viennese porta le sue rughe con
la bellezza di una statua di legno. Noi veniamo dall’Albertina,
dalla mostra di Rubens, dove ci siamo persi per qualche ora in
chiaroscuri profondi. E allora ebbi la sensazione che tutto…Le
idee ti vengono perché vogliono venire. Non sei tu a cercarle.
Fortunate mia madre e mia nonna che hanno passato un’infanzia
traversata da guerre. Per la vecchiaia solo medicine, benessere
e, per quel che si può da umani, serenità. Noi abbiamo
ancora un tributo da pagare alla crudeltà della vita. Forse
sarà peggiore. Chiudo gli occhi mentre le ragazze streghe
intonano un canto.
Vienna
due anni fa. Un tram rosso nuovo ci portava tra ring e carrozze
alla ricerca del bacio di Klimt. Dalla Stephansplatz al Belvedere
tra parchi gialli di foglie. L’itinerario oggi mi sembra
logoro, usato. Dai manifesti mi inseguono gli occhi dolcissimi
e azzurri del bambino di Rubens: occhi magnetici, dalle lunghe
ciglia che vorrei accarezzare.
Torniamo
in albergo con comodo di tv. Ci togliamo le scarpe. Halloween
americana. Maschere. Maschere di Bush e Kerry. Festa di carnevale.
Famiglie maschere sfilano. Madri e figlie. Tutto fa simpatia.
Tutto può portare voti. Sorrisi e rassicurazioni. Gli elettori
vogliono essere rassicurati. Vincerà chi ispirerà
più sicurezza. L’America ha paura. L’Occidente
ha paura.
E
allora capii che tutto… Noi, gli uomini grigi, di eliotiana
memoria, noi che abbiamo sprecato, che abbiamo distrutto in un
secolo… Noi, l’Occidente a cui Baricco ha tolto gli
dei, come se gli eroi dell’Iliade potessero combattere senza
gli dei, noi che abbiamo dismesso i nostri dei per sostituirli
con altri più cogenti e banali.
E
allora ebbi la sensazione…No no
A Grinzing il mosto è buono.
Giù, nelle viscere della terra, freudianamente giù.
U4. Direzione Schönbrunn. Poi di nuovo in centro. Cupoloni
rotondi e statue gigantesche. Pollici di qualche chilo. Vienna
metropoli. Luna park della mente. La città è storia,
è civiltà. Se storia è civiltà. Il
che è tutto da dimostrare.
Museo delle armature. Passiamo oltre.
Museo di Efeso. Pezzi di Turchia per completare un puzzle che
due mesi fa avevo lasciato in sospeso.
I
cavalli lipizzani non corrono per me nella notte. Klimt si è
contaminato nella nudità di Schiele. L’oro è
caduto. Resta un vuoto sconcio e depravato. Museo Leopold. Mostra
di Schiele. Schiele ha colto nelle lunghe dita, nelle ginocchia
ossute, nei nudi deformi, persino nelle case che ondeggiano(la
mostra recupera molti paesaggi urbani che non conoscevo)la tragedia
di un secolo buio.
Fa buio. Vienna musica. Forse. A animo sgombro.
Andiamo vagando in una nebbia carica di pioggia che non viene
giù. L’aria è sporca. I monumenti li stanno
pulendo. Emergono zone bianchissime dal nero che l’ultimo
secolo ha regalato.
Noi, Terzani e globalizzazione. Noi, sprechi e Buttiglione. Scimmie
e idiozie.
Mi
sveglio al mattino con gli occhi arrossati. Allergia come la sorellina
Enrica? Ma a che cosa? Al caldo secco degli ambienti? Alla moquette?
Alle stanze d’albergo? Io passerei la vita nelle stanze
d’albergo. Questa vita in uso mi piace. Adoro questi oggetti
non miei proprio perché domani non li rivedrò più.
Oggi voglio la Vienna più banale, quella della Hofburg
e della Herrengasse, della Graben e delle pasticcerie.
Appartamenti imperiali e appartamento di Sisi, la principessa
triste. Stanze e ancora stanze, ritratti e gioielli. Mobili antichi.
La camera dove le spazzolavano i capelli per tre ore mentre il
maestro di greco leggeva l’Iliade, attrezzi per fare ginnastica
e un lettino dove si faceva massaggiare(beata lei). "Se il
posto più bello del mondo fosse quello definitivo sarebbe
per me l’inferno" diceva e così vagò
un po’ dappertutto lasciando marito e figli. Carrozze e
treni e anche yacht lussuosi. Poi un giorno un anarchico per errore
le diede la morte.
Ritorniamo nella Graben. Marco Aurelio, l’ho visto tra i
busti al museo di Efeso. Domani magari facciamo una sosta a Petronell-
Carnuntum, ok?
Ci fermiamo a Petronell- Carnuntum, avamposto romano contro la
barbarie. Le parole di Marco Aurelio mi seguono. La consapevolezza
di vivere ai confini di un tempo.
"Neue Europe" sta scritto su una porta, e via verso
la dogana veloce della Slovacchia.
Bratislava. Piccola la sua parte antica, Un mucchietto di case
rosse perse in una marea di casermoni e grattacieli orrendi al
di là del Danubio, cresciuti come un cancro.
L’Europa si allarga. Entrano le capitali dell’Est.
Entrano col loro retaggio di delinquenza minuta, di bellezza antica,
di sogni infranti.
Praga dieci anni fa. Praga di inerzia e di malaffare. Praga piena
di orologi. Praga di ponti e di monumenti scuri. Praga di tram
e di pomodori marci. Praga magica, ma attenti ai ladruncoli. Praga
kafkiana. Anche nei ristoranti.
Slovacchia. Solo una timida occhiata all’altro da noi. Un
affacciarci su uno stato per noi misterioso. Bratislava è
l’unica città parzialmente occidentalizzata. Al di
là, un mondo di gitani e di ruteni. Mondo arcaico e inquietante.
Frontiera. Un’altra volta. Forse.
Viaggio di ritorno. Traversiamo la bassa Austria, il Burgland,
terra di viti e di cantine. Paesaggi insoliti e poco austriaci.
Ma, si sa, il Tocai ungherese non è lontano. Il sole non
vuole accendere i pampini rossi. Corriamo nella nebbia sotto un
cielo perlato. Io leggo Freya Stark e sogno viaggi che non farò
mai.
L'Olanda
non è nelle mie corde
di Marina Tevini
A
dire il vero l’Olanda non è stata fin dall’inizio
nelle mie corde. Ci siamo stati già altre volte e sebbene
sia un paese interessante, non lo è più di altri.
Ma il mio consorte è irremovibile E Olanda sia.
Germania del nord, tralicci, nuvole in cielo, e siamo in Olanda.
Il consorte respira guardando i cieli e le pianure disseminate
di case e di canali. “Fa sempre piacere tornare in Olanda”,
dice. I cieli del nord in effetti sono diversi, c’è
una luce radente da mattino a sera e tutto è sempre nitido.
Non sono in cieli inquieti della Turingia, ma cieli leggeri e
vaporosi. Gli olandesi corrono in bicicletta in un grande parco,
siamo nella zona di Groningen e a quattro passi dalle industrie
hanno creato un vero paradiso dove si può fare sport in
una natura ricreata.
Gli olandesi amano la natura, ma ho la sensazione che quella che
vediamo attorno sia una pseudonatura. Intendiamoci, niente di
artificioso e che disturbi, anzi tutto è perfetto. È
questo il punto: un po’ troppo perfetto. Leprotti corrono
qua e là nel campeggio e mangiano velocissimi. Noi percorriamo
lunghi viali e arriviamo a una piccola darsena dove ci sono due
ristorantini raggiungibili con una barca che si aziona con una
carrucola. Camminando sull’argine illuminato dal sole vediamo
qualcuno pescare per diletto e poi ributtare i pesci in acqua.(“Che
fortuna!” dirà il pesce “Ma chi mi ripaga della
fifa e di questo buco sulla lingua?”) “Gli italiani
sono matti,” ci dice la signorina della reception in un
ottimo italiano. “Sono vissuta per 11 anni in Italia e ho
nostalgia. Qui tutto funziona, mi manca un po’ di pazzia”.
Poi ci racconta un’histoire d’amour con un italiano
in Toscana e il suo mesto ritorno ai patri lidi. “Che bella
la Toscana, - dice.- Avrei tanta voglia di tornarci”.
Dunque siamo in Olanda. Ci sono le casette belline, tutte simili,
con i mattoni rossi circondate da un breve tratto di vegetazione
curatissima: alberi nani e sempreverdi delimitano lo spazio, non
ci sono cancelli, e le finestre, grandi finestroni aperti esibiscono
la living-room con poltrone tavoli e suppellettili varie.
I canali sono numerosissimi, affiancano la strada e dentro, in
una fanghiglia verde, vivono paperotti e ninfee. Siamo in Olanda.
Nel campeggio situato su un lago tutto ha il sapore del mare.
Gli olandesi in costume da bagno tirano fuori materassini e aquiloni,
vanno sulla spiaggia sabbiosa e ventossima, corrono e passeggiano
nell’acqua.
In Olanda tutto sembra. Gli uccelli che impazzivano di canti e
il disordine di una bastarda Turingia mi sembravano più
veri di questa realtà perfettina dove le zanzare non pungono,
l’erba è sempre ben rasata e gli alberi sembrano
anche loro recitare una parte.
Siamo
in Olanda: la natura ha un volto amico, l’allevamento del
bestiame arriva fino alle porte delle cittadine, davanti alle
case pascolano caprette, vicino al nostro campeggio si vende latte
appena munto che noi ci guardiamo bene dall’acquistare perché
un volta l’abbiamo assaggiato e abbiamo detto “Evviva
la pastorizzazione”.
Siamo in Olanda: tutto funziona ed è funzionale. A Groningen,
annesso a una chiesa e parte integrante della medesima, c’è
un ristorante. Qui la laicizzazione sembra essere davvero massiccia.
Quali aspirazioni quali valori quali riferimenti? La vita terrena
occupa in toto la mente: gli olandesi lavorano alacremente fino
alle sei, e poi ritornano nelle loro belle casette. Esibire una
famiglia di marmocchietti biondi e lo status rivelato dall’esibizione
della propria living-room è la nuova religione.
Siamo in Olanda e piove. Il pane è buono. I supermercati
dimostrano di venire incontro alle esigenze delle donne che lavorano.
Nelle botteghe dei paesi sul mare si comperano ottimi gamberetti
e aringhe crude che si mangiano con la cipolla e sono deliziose.
Siamo in Olanda e piove. “Dove andiamo?” Io andrei
a vedere le località più interessanti vicino ad
Amsterdam o Amsterdam stessa, visto che finora ho visto solo paperi,
anonime case e ho urgente bisogno di infilarmi in qualche delirio
di Van Gogh. Ma il consorte vuole rimandare a quando non pioverà
la nostra visita di Amsterdam. Quando non pioverà? Secondo
me pioverà sempre. E pace. La cortese commessa di una pescheria
che ci vede delle ottime aringhe ci racconta che a Verona ha conosciuto
un italiano(e con la mano accenna a un bacio). I maschiotti italiani,
devo constatarlo, godono ottima fama all’estero. (Come saranno
gli olandesi?)
L’Isselmer è ora un mare interno, anzi una specie
di lago, da quando hanno costruito la diga che lo isola dal mare.
Prima però era sede di importanti porti dal passato illustre
come Enzquizen e Horn. A Enquizen prendiamo un battello per andare
a visitare un museo all’aria aperta. Il museo ricostruisce
le case dei villaggi sull’Isselmer da Volendam a Marken
alla stessa Enquizen con le attività che si svolgevano
come l’essicazione del pesce o l’allevamento del bestiame.
Per rendere più coinvolgente il tutto c’è
anche qualche olandesina in costume che lava piatti o stende il
bucato o artigiani intenti a costruire zoccoli. La gente, numerosa,
guarda con interesse. Mi chiedo cosa ci sia di interessante(dato
che non provo interesse neppure per l’attuale lavaggio dei
piatti nè per la risuolatura delle scarpe non so perché
dovrei emozionarmi per queste attività svolte nel passato)
Amsterdam Amsterdam, dico, e Van gogh. Datemi Van Gogh.
E Van Gogh è.
Facciamo un giretto per il centro di Amsterdam, poi subito ci
spostiamo nella zona musei dove mi posso godere il bel museo di
Van Gogh che ospita anche una mostra di Manet. Posso ammirare
le scarpe (nelle varie versioni parigine), i girasoli, la sedia
e la stanza, il mietitore e il seminatore. Affondo tra gialli
e blu. Trovo anche l’epistolario con Gauguin e col fratello
Teo e me ne vado felicemente via dal museo con due libri sottobraccio.
Volendam e Marken ci accolgono in una sera bellissima. Finalmente
il tempo ha avuto pietà di noi. Le casette di legno variopinte,
i colori esaltati dai riflessi del sole al tramonto…
A Volendam avevamo cenato una ventina d’anni fa durante
il nostro primo viaggio in Olanda. Passeggiamo e ci abbandoniamo
ai ricordi di quell’infinità di piatti che ci era
arrivata davanti dopo aver indicato con il dito qualcosa sul menù
che non sapevamo bene a cosa corrispondesse.
Lamentiamo l’involgarimento operato dal tempo sul luogo,
le orde di turisti, i ristoranti che espongono orrendi panini
modello Mc Donald’s con i piatti disegnati oppure i cartocci
di patatine di plastica. Ci lamentiamo del dominio del fast food,
ma non demordiamo e proseguiamo nella nostra ricerca. Entriamo
nel ristorante che ci sembra più immune dal turismo di
massa anche se non siamo sicuri che fosse quello di vent’anni
fa. Ordiniamo una sogliola e dei gamberi(la lista stavolta è
scritta in diverse lingue) e (miracolo!) ci arrivano come i re
magi tre graziose cameriere con ben 15 portate (i piatti di pesce,
i contorni, vari tipi di patate e una quantità di salse).Volendam
è salva. Bene.
A Volendam sabato sera arrivano i pescatori che sono andati per
tutta la settimana a pescare nel mare aperto e la baldoria che
esce dai bar è grande. Si vedono anche delle ragazze in
gonna, cosa eccezionale perché fino a quel momento avevamo
visto solo calzoni informi, orrendi infradito e scarpe da ginnastica.
Le olandesi hanno le gambe. Bene. Anche se non sempre sono bellissime.
(È un popolo forte e grande, ma non bellissimo. Anche se
non sono brutti come i mangiatori di patate di Van Gogh, un po’
bruttini lo sono).
Diamo
il nostro tributo a paesi marini vicini al campeggio andando un
po’ a passeggiare per dune. Anche gli olandesi hanno il
loro mare e le loro località balneari abbastanza simili
alle nostre per certi aspetti: la strada centrale piena di negozi
e cartoline, i tanti caffè e ristoranti. La differenza
comincia a farsi sentire verso la spiaggia. C’è una
duna poi un’alta. Sulla prima di solito ci sono gli ultimi
insediamenti: caffè e ristoranti dove la gente riparata
da grandi vetrate prende un magro sole, poi si scende in spiaggia.
Una spiaggia battuta dal vento, dove il sole lo si può
prendere solo nei capanni. Chi opta per camminare nel bagnasciuga
può tentare, e qualche ragazzino lo fa, qualche brevissima
incursione nel mare, ma è il Mare del Nord, inospitale
e freddo (non sono mai riuscita a farci il bagno). Mi consolo
comperando pesci affumicati gamberetti e aringhe crude. Il pesce
è sempre buono e fresco e noi ritornati in roulotte ci
dedichiamo ai confronti e i paragoni. È meglio l’affumicato
o il mezzo affumicato? È meglio la Amstel o la birra Grolsch?(la
Amstel, la Amstel!, per me non ha rivali).
Ritorniamo ad Amsterdam in una giornata di sole a tratti. Questa
volta ci andiamo con il treno perché vogliamo passarci
la giornata. Per prima cosa facciamo un giro per il centro. La
vasta piazza Dam, la Nieuwe Kerk e l’Oude Kerk. Cos’è
quella chiesa laggiù chiedo? E invece è il Magna
Plaza, un grande store costruito all’interno di un edificio
storico. Magazzini con orribili indumenti o chincaglieria varia
in mezzo a colonne antiche ( però risulta provvidenziale
e ci salva da uno scroscio di pioggia).
Prendiamo
un battello che ci fa fare il giro dei canali e vedere il porto.
Sfilano a lato gli edifici della vecchia Amsterdam con le loro
facciate strettissime e i tetti a cui era appeso un gancio con
cui tiravano su i mobili. Poi andiamo a fare un giro nel quartiere
delle ragazze in vetrina. “Non ci sarà nessuna”,
ipotizza mio marito, visto che è l’ora di pranzo.
Invece è pieno di umanità varia, per lo più
donne di colore e altre che se ne stanno nelle loro vetrinette
e contrattano con i clienti. Sono abbastanza bruttine, tranne
poche. Alcune vecchiotte e altre con cosce ipercellulitiche. “Non
pensavo di trovare tanto traffico a quest’ora” dice
il consorte. “Eh eh- dico io, - è affollato dai bravi
padri di famiglia che magari si fanno una sosta nella pausa lavoro
e poi tornano la sera per la scopata casalinga senza profilattico
dalle legittime. Sono arrabbiata con te,” aggiungo. Il consorte
si stupisce. “Cosa ho fatto?” “A nome del genere
umano che rappresenti!” Ridiamo e continuiamo i nostri giretti.
Vediamo la casa di Anna Frank, la Rembrandthuis, le rive del fiume
Amstel pieno di chiatte, poi stanchi riprendiamo il treno per
la nostra tranquilla campagna piena di mucche.
Parlando
di Dante
di Marcello Vicchio
Scrivere
qualsiasi cosa su Dante senza rischiare di incappare nella noia
del "già letto" è impresa assai difficile.
Nel corso dei secoli moltissimi eruditi hanno approfondito, sviscerato,
indagato le sue opere fin nei minimi dettagli, accumulando pagine
e pagine di commenti ( molte più di quante un uomo possa
leggere in una vita intera) e, dunque, il rischio di ripetersi
è enorme. D'altra parte più ci si allontana dal
tempo in cui Dante è vissuto e meno si riesce a penetrare
nello spirito intimo delle sue opere: troppo distanti le epoche,
troppo dissimili le esperienze culturali. Dante aveva una cultura
sterminata, essenzialmente figlia di quella Scolastica dalla quale
noi uomini moderni siamo lontani, e intendeva l'esistenza umana
come preparazione per accedere nell' al di là, fine ultimo
in cui ogni destino si compie. La natura era solo lo specchio
dove si rifletteva Dio, verità rivelata, e la Chiesa, depositaria
di essa, l'indispensabile intermediaria tra cielo e terra.
Oggi
possiamo comprendere questi concetti, ma il livello di coinvolgimento
non può che essere superficiale. Non possiamo immergerci
in un fiume le cui acque non sono mai le stesse ed esserne profondamente
permeati. Possiamo sentirci vicini a Dante, emozionarci per le
straordinarie e umanissime storie che ci narra, ma nei suoi versi
rimarranno sempre degli angoli bui e delle porte chiuse delle
quali abbiamo smarrito le chiavi. La polvere dei secoli tutto
copre e appiana.
Come
giustamente affermava Federico Zeri a proposito dell'arte ( Dietro
l'immagine, Ediz. Neri Pozza, pag. 33), ".Ogni giorno noi
cresciamo, maturiamo, mutiamo, non siamo mai gli stessi. Ci sono
epoche artistiche che possono essere intuite, comprese soltanto
al momento opportuno:ma il passato è morto per sempre.
Quello che è ieri, rimane ieri , non è possibile
farlo risorgere. Non ci sarà mai nessuna forza, nessuna
credenza, capace di farci comprendere il passato in tutte le sue
implicazioni.".
Bisogna
allora far buon viso a cattivo gioco e accontentarci, in molti
frangenti, di sfiorare la superficie di quel mare profondo che
sono le sue opere, tuffandoci profondamente negli abissi soltanto
quando la nostra sensibilità e conoscenza ci permettano
di farlo. Il che, in realtà, non succede molto spesso.
Pensiamo,
dunque, a quanto dovesse pesargli la cruda constatazione che la
Chiesa avesse del tutto smarrito il ruolo di intermediaria tra
cielo e terra, di depositaria della Verità rivelata. Tutta
la Divina Commedia è un atto di accusa verso questo atroce
tradimento. La stessa appartenenza del Poeta alla setta dei Fedeli
d'Amore affonda molte radici in questa amarissima constatazione.
Oggi
si sa con certezza che la cosiddetta "Donazione di Costantino"
è un falso, ma ai tempi di Dante la si riteneva autentica
e da più parti si contestava lo stravolgimento del disegno
divino operato da alcuni papi interessati più che altro
al potere temporale. Sarebbe davvero curioso immaginare quale
piega avrebbe preso la Divina Commedia se Dante fosse stato al
corrente dell'imbroglio.
E'
risaputo come il Poeta nel suo viaggio nei mondi ultraterreni
simboleggi l'umanità intera, non è necessario dilungarci
su questo, come non è necessario andare per le lunghe sul
concetto che ogni "viaggio" presupponga una meta ben
precisa. Se il viaggio è iniziatico, il fine non può
essere che la Verità, raggiungibile soltanto dopo le varie
purificazioni simboliche denominate di Terra, Aria, Acqua, Fuoco.
Dante
definì l'Inferno " cieco carcere" (Inf.X) e il
Paradiso "miro tempio" (Par.XXVIII), facendoci tornare
in mente quel passo del Rituale in cui si recita che il massone
deve ".edificare templi alla virtù e scavare profonde
e oscure prigioni al vizio". Lo scopo morale del viatico
indicato nell'Opera è tutto qui.
La
via che dalla disperazione della bieca materialità conduce
alla virtù dello spirito è costellata di prove,
di passaggi difficili, di dolore; e se tutto l'Inferno è
assimilabile a un terribile Gabinetto di Riflessione, è
nel Purgatorio e poi nel Paradiso che dobbiamo scoprire "sotto
il velame delli versi strani" le tracce e gli indizi degli
altri Viaggi. Nel fare questo non dobbiamo dimenticare che Dante
non può essere vivisezionato come è stato fatto
per la sua opera e che, dunque, non è possibile disgiungere
il Dante politico dall'adepto, il cripto-ghibellino dal filosofo,
immaginando che l'uno possa avere vita autonoma rispetto all'altro.
Tutti questi aspetti della personalità del Poeta si riverberano
e convivono nella poesia, e or l'uno or l'altro moto d'animo prende
il sopravvento, permeando le rime più oscure di due o anche
tre significati oltre quello letterale ( Dante poetava come i
cosiddetti dottori trilingue). E il doppio e triplo senso ci si
para innanzi fin dalla prima terzina!
"Nel
mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la dritta via era smarrita...",
sono
i versi forse più famosi del mondo: poche persone non li
conoscono. Essi hanno la potenza di un ciclone e costringono il
lettore a calarsi subito in media res, ossia nel pieno del dramma.
Certo, il fuggiasco fiorentino rappresenta se stesso ma anche
l'umanità che è travolta dal peccato; certo, si
tratta di un viaggio dell'anima che ritrova faticosamente la sua
strada verso Dio. ma qui siamo nell'Inferno, e l'Inferno è
dolore e sofferenza umana oltre che agone, terreno di scontro
e di lotta. Il budello luciferino è la metafora penosa
dell'esilio di Dante da Firenze e l'origine delle sue tribolazioni,
l'Ade personalissimo di una vita tutta in salita.
L'Inferno
è politica.
Politica
e credo filosofico sono passioni strettamente intrecciate nella
setta dei Fedeli d'Amore, tanto che l'una sfuma e si rafforza
nell'altra, radicalizzandosi nel tempo. In Dante questi tormenti
assumeranno modi e caratteri particolari, tanto da costringerlo,
a un certo momento, a entrare in collisione coi suoi stessi fratelli
e far gridare quest'ultimi al tradimento:
"In
fra gli altri difetti del libello
che mostra Dante, Signor d'ogni rima,
son duoi sì grandi, che a dritto si estima.
L'altr'è , secondo che il suo canto dice,
che passò poi nel bel coro divino
là dove vide la sua Beatrice.
E quando ad Abraam guardò nel sino
Non riconobbe l'unica fenice
Che con Sion congiunse l'Appennino".
A
scrivere questi versi è Cino da Pistoia ( Rime), il quale
rimprovera a Dante di avere esaltato nella Divina Commedia la
sua particolare idea di Sapienza e non quella Vera, la sola che
unisce tutti i settari e che rinasce sempre uguale a se stessa,
da tempo immemorabile, come la fenice dalle ceneri. Più
avanti, trattando del Paradiso, cercheremo di scoprire in che
cosa consistesse la duplice eresia di Dante, personificata dalla
figura di Beatrice, nei confronti della Chiesa e dei Fedeli d'Amore.
Politica,
dicevo, già nella prima terzina.
Che
cosa sono, allora, la selva e le bestie che impediscono il cammino
di Dante oltre che un'allegoria della vita nel peccato?
Prendiamola
larga.
Che
valle e selva possano significare qualche cosa di preciso, il
Poeta lo fa intuire in vari passi della Commedia. Ad esempio nel
Purgatorio (XIV canto), egli definisce il Casentino misera valle
e vi pone porci, volpi, lupi e botoli; nel XVII del Paradiso Cacciaguida
gli dirà che egli sarebbe "caduto in questa valle
in compagnia malvagia ed empia"; nel De Vulgari Eloquentia
chiama l'Italia "Italica selva"e ancora nel Purgatorio
(XIV) attribuisce a Firenze l'appellativo di "maledetta e
sventurata fossa di lupi".
Poco
tenero con i suoi concittadini, non esita a definirli lazzi sorbi
e bestie fiesolane:
"
Faccian le bestie fiesolane strame,
di lor medesime, e non tocchin la pianta,
se alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di quei Roman che vi rimaser, quando
fu fatto il nidio di malizia tanta",
mentre
chiama se stesso dolce fico che tra que' lazzi sorbi non dee fruttificare.
La similitudine tra uomini e piante è più volte
ripresa, per esempio nel IV canto dell'Inferno, dove il Poeta
dice:
" ma passavam la selva tuttavia,
la selva,dico, di spiriti spessi" ,
o
nel XIII, nel quale una classe di peccatori è trasformata
in una boscaglia di alberi dai rami nodosi e involti e in sterpi
aspri e selvaggi.
E' dunque verosimile l'ipotesi ( cfr Gabriele Rossetti, Commento
all'Inferno) che vuole che per selva selvaggia si debbano leggere
il secolo e i luoghi in cui Dante viveva (e soprattutto Firenze),
mentre per alberi di cattiva natura i frequentissimi viziosi e
per piante benefiche i pochi virtuosi.
E
le belve che gli impediscono il passo?
Ricordiamo
brevemente gli eventi che portarono all'esilio dell'illustre fiorentino.
Dante è inviato come ambasciatore a Roma, presso Bonifacio
VIII, per chiedergli di allentare la morsa nella quale stringeva
sempre di più Firenze. Il papa ha preso accordi con Filippo
il Bello di Francia per allungare le mani sulla città.
Carlo di Valois, fratello di Filippo, è stato inviato con
un esercito in Toscana, apparentemente per fare da paciere tra
Bianchi e Neri ma, in realtà, il suo intento segreto è
di favorire i Neri, fedelissimi del papa. Conferendogli l'incarico,
Bonifacio VIII ha pronunciato una frase significativa : <<
Vi mando alla fonte dell'oro!>>
Il piano riesce: i Neri scacciano i Bianchi e molti di quest'ultimi
sono uccisi o esiliati. Dante non farà mai più ritorno
a Firenze.
Nella selva selvaggia tre animali feroci gli si parano innanzi:
una Lupa, simbolo di Roma;
un Leone, simbolo della casa reale di Francia;
una Lonza.
Lonza sta per pantera, e la pantera, secondo Brunetto Latini,
maestro di Dante, è quella bestia che ha " la pelle
taccata di macchie bianche e nere". Quale migliore rappresentazione
di Firenze? Il pelo della lonza in Dante diventa "gaietta
pelle", probabilmente col segreto intento di indicare nella
fazione dei Bianchi quella dei giusti, essendo gaio sinonimo di
chiaro e di felice.
Politica
e Filosofia, dunque, furono le passioni che infiammarono il Poeta
perché incarnavano in pieno quell'ideale di vita attiva
e vita contemplativa, bagaglio irrinunciabile per l'uomo padrone
della propria esistenza e dei propri mezzi. Del resto, se ci pensiamo,
anche questa è un'eredità che è stata trasmessa
alla Massoneria e che risalta netta nel momento in cui ci viene
chiesto di " lavorare al bene e al progresso della Patria
e dell'Umanità" e non soltanto al nostro Tempio interiore.
A
quell'ideale Dante non rinunciò mai in vent'anni di esilio,
anche quando il mondo che aveva immaginato gli si dissolveva malinconicamente
intorno.
Da
vent'anni il suo amico Cavalcanti, antico capo dei Fedeli d'Amore,
non c'era più. Non c'erano tanti altri adepti che l'Inquisizione
aveva ghermito, che erano caduti vittima della proscrizione o
che semplicemente si erano dileguati, insieme al tramonto del
progetto politico di un'impossibile restaurazione del Sacro Romano
Impero.
Lui
continuò la sua lotta solitaria fino alla morte, che lo
colse di ritorno da un'ambasceria a Venezia.
Poiché
si trattava di un Giusto, ci piace immaginarlo salire di cielo
in cielo, con-templare la candida Rosa dai petali immensi nel
Paradiso e ritrovare quella memoria che aveva perso dopo aver
già guadagnato in vita, per un attimo, la fugace visione
di Dio.
A
noi basti la sua Arte.
Marcello Vicchio
Uso e Grignano
di Marina Tevini
Mattino.
Le ore migliori per scrivere. Meglio non aprire la posta, altrimenti
mi distraggo… Dov’ero rimasta? Quando si scrive un
romanzo bisogna viverci dentro, bisogna lasciarsi prendere dai
personaggi e dall’atmosfera…Sono passate due ore.
Guardo dalla finestra e mi sembra una gran bella giornata. Di
quelle che invitano a uscire. Andrò al mare. Venti minuti
d’automobile anche se c’è traffico. Vado per
lo più a Grignano, una baietta sulla costiera triestina.
Vegetazione di pini mediterranei e svariati sempreverdi. Li guardo
soprattutto dal mare, un manto verde che svaria tra tonalità
diverse e ricopre fittamente la zona. Mi metto su un pontile.
Oggi non era previsto bel tempo ed è poco affollato. La
gente ha una certa inerzia. Poche persone. Alcune le conosco.
Quattro chiacchiere, poi in acqua. Il bello di questo posto è
che c’è un fondale di sabbia. La sensazione che mi
dà la sabbia che cede sotto la pressione del piede mi è
sempre piaciuta. Passerei la vita a camminare sulla sabbia. Mentre
cammino penso. Ieri sera mangiavamo cevapcici sul Carso sloveno.
C’era con noi mio cognato. (Il cugino di mio marito no,
perché, preso dai suoi periodici sconforti, ha preferito
guardare la parete bianca anziché le facce degli umani).
Mio cognato si lamenta del fatto che da dieci anni non va in vacanza.
"Potresti benissimo,- gli dico io- adesso che c’è
la Muta". La Muta è una delle badanti della madre
novantenne. " Si, ma…- obietta lui.- Chi bada alle
badanti?" "D’accordo, ma ognuno ha diritto di
vivere". Mio cognato scuote la testa. Ormai da tanti anni
si è ingabbiato nella sua gabbia e non ha nessuna voglia
di uscirne. Probabilmente nelle sue coordinate mentali gli ingabbiati
sono quelli di fuori. Basta rovesciare la prospettiva. Ho sempre
osservato con meraviglia quanto tempo gli umani dedichino a giustificare
a se stessi le costruzioni e i vincoli della loro vita. Sarebbe
più produttivo dire "Porca miseria, mi son ben incasinato"
e cercare qualche rimedio, o perlomeno prenderne atto. Invece
gli uomini spesso non vogliono vedere. In compenso le gabbie desiderano
metterle agli altri. Tentano sempre di applicare un’etichetta,
un nome, insomma chiudere gli altri in qualche gabbia mentale.
Presuntuosamente credono di aver capito i loro pensieri e di poter
concludere.
Qualche giorno fa, chiacchierando con un mio amico, ridevo proprio
di questo "Ci conosciamo da una quindicina di anni, - mi
diceva lui,- ma ancora non ti capisco" "E meno male-
gli ho risposto, - sennò mi sistemeresti in una delle tue
caselline, come fai con gli altri".
"Che caselline?" chiede lui.
Eh sì, la pigrizia umana vorrebbe semplificare tutto e
trarre facili conclusioni. E invece tutto è molto più
complicato. E i rapporti umani in definitiva, laddove si vogliano
vivere davvero, sono più sfumati (e anche più divertenti).
Grignano. Grignano è il luogo d’elezione della mia
anima. E’una baia che confina da una parte con il parco
di Miramare e dall’altra si protende lungo la Costiera.
In giugno c’è un’esplosione di rose rosse che
tappezza le sue aiuole. È questa la stagione del rosso.
Lo trovo nei petali delle rose, nella polpa delle ciliegie e delle
fragole che porto con me al mare (e in eventuali scottature di
persone poco prudenti).È il periodo in cui prendo sole
sulla riva con il riflesso del mare. Il sole non è troppo
caldo e non è ancora necessario ripararsi sotto gli alberi.
Se dovessi scegliere un posto d’elezione per tutte le stagioni
sarebbe questa baia. Anche d’inverno in qualche giornata
tiepida vado a fare una minipasseggiata e mi sento già
quasi in estate.
Credo che ritornerò in acqua. Stamattina sembrava gelida
ma è migliorata. Nuoto un po’, poi raccolgo armi
e bagagli e me ne vado. Passo vicino a ville splendide e godo
della bellezza del paesaggio. Mentre annuso le rose e mi perdo
nel rosso, penso che in fondo della bellezza siamo tutti partecipi.
È una ricchezza di tutti. Tutti possiamo passeggiare nei
bei viali del parco di Miramare anche se non siamo Massimiliano
e Carlotta. È una ricchezza di cui non abbiamo il possesso
ma l’uso. È tanto importante il possesso delle cose?
L’uso è già una gran gioia. Mentre cammino
mi domando se anche delle persone ci dovremmo forse accontentare
dell’uso e non pretenderne il possesso. In fondo che cosa
vogliamo possedere? Delle anime? Non si può possedere nulla
in fondo (e soprattutto nessuno). Quando lo facciamo, come mia
suocera con mio cognato, causiamo solo infelicità. Mentre
mi infilo in machina con questa idea nella testa, mi viene in
mente lo sguardo di mio cognato che ieri, nel parlare della vecchia
madre, aveva gli occhi di una persona che ama. E allora un’altra
idea inquietante mi attraversa la mente: la libertà, il
bene, l’amore di solito non ci ritorna. Gli umani ahimé
amano solo i loro carcerieri.
Neve
a maggio
di
Marina Torossi Tevini
Nevica.
Larghi fiocchi scendono accanto alla nostra roulotte e si posano
sull’erba del campeggio. Li guardo e penso che sono più
di otto mesi che vedo la neve. Ha cominciato a nevicare prestissimo
quest’anno, a ottobre. Ricordo il lago di Fusine con i colori
dell’autunno e la neve. Poi un inverno lungo e innevato.
Neve sciabilissima fino a marzo. In aprile una breve parentesi
di quasi estate, poi una primavera inzaccherata di pioggia e mixata
di profumi e ora, a maggio, quando gli umani desiderano il caldo
e il sole, il mio consorte, non ancora appagato, propone di portare
la roulotte al passo Monte Croce sopra la Val Pusteria, a quota
1600, e di lasciarla lì per i week end di maggio. La partenza
è movimentata, direi da brivido. Le previsioni danno neve
a quota 1300. Cerchiamo qualche meteorologo clemente, ma sono
quasi tutti sullo sconfortato. Alla ricerca di dati incoraggianti
guardiamo le webcamere, telefoniamo al campeggio, infine incrociamo
i dati, incrociamo le dita e partiamo. Per fortuna incontriamo
la neve solo nell’ultimo tratto, la salita al passo, ed
è neve molle che non crea problemi. Arriviamo sani e salvi.
Per prima cosa la roulotte va trasformata da guscio vuoto a luogo
di civile abitazione e io sono addetta a questo. Al consorte invece
spettano gli esterni: l’approvvigionamento dell’acqua
e la sistemazione del tendalino. Nel pomeriggio la neve cade fitta
e io me ne sto sdraiata a leggere "I miei giorni a Bagdad"
della Gruber. Leggo stupita che la Gruber faceva sessanta vasche
al mattino nella piscina dell’albergo prima di lavorare…(ma
a Bagdad non scarseggiava l’acqua?) Oopperbacco. Presa da
un’incontenibile desiderio, propongo di andare nella piscina
di San Candido. Giochi d’acqua idromassaggio cascate grotte
illuminate: una specie di acquatico paradiso dove mi diletto per
un’oretta mentre il consorte (che aborre piscine mare e
tutto ciò che concerne l’acqua) va ad approvvigionarsi
di salsicce e speck tirolese.
Il giorno successivo un sole splendido nel giro di mezz’ora
dissolve le nubi e la neve comincia a sciogliersi, almeno nei
tratti erbosi e vicino alla roulotte. Noi andiamo a fare una passeggiata
in Val Fiscalina e a Sesto, dove abbiamo trascorso molte vacanze
estive e invernali.
I "ti ricordi?" e i "Guarda guarda" si sprecano.
Alla sera iniziano i festeggiamenti del campeggio. Un’abbuffata
che dura per quattro ore (che sciagura orrenda!) La taverna è
piena zeppa, in prevalenza di tedeschi. Il proprietario del campeggio
racconta i suoi progetti: una piscina coperta da aggiungere a
quella esterna che, per ovvi motivi, non è usabile per
gran parte dell’anno.
Questo campeggio l’abbiamo visto per così dire nascere.
Una quindicina di anni fa c’era solo un grande bosco e dei
dozzinali servizi (ma di notte c’era uno dei cieli stellati
più belli che io abbia visto!) Adesso è diventato
un megacampeggio con annesso Beauty-farm, ristorante fichissimo
e servizi con gigantesche pietre di quarzo ametista all’ingresso.
Al mattino l’alimentazione forzata continua con una supercolazione
che per fortuna, essendo a buffet, si svolge in tempi normali.
Quando, chiusa la roulotte, ci accingiamo a partire si avvicina
uno degli addetti al campeggio. "Già di partenza?"
ci chiede. "Sì, ma ritorniamo il prossimo venerdì.
Siamo di Trieste". "Ah Trieste!- fa lui - Lì
sarà quasi estate". E mentre ci guarda vedo rimbalzare
nei suoi occhi la domanda: "Cosa ci venite a fare qui a maggio?
Al mare è molto meglio…" Gli sorrido. È
una vecchia storia questa. Si sa, al mondo nessuno è contento.
La
passione di un povero Cristo
di
Paolo Paganetto
Innumerevoli
talk-show. Articoli a non finire. Fiumi di parole nei bar e nei
salotti più o meno liberi. Registi, attori, giornalisti,
sociologi, filosofi, teologi, psicologi, e naturalmente politici.
Non so se anche calciatori e veline. Non si parla d’altro,
ma d’altronde siamo in periodo pasquale e tutto l’occidente
cristiano è coinvolto. Ed è giusto cosÏ, visto
il presunto scontro di civiltà (sorrisetto ironico) in
atto... o di religioni? o di cos’altro? Buona parte degli
ebrei si sentono colpevolizzati, altri tendono - politicamente
- alla riconciliazione con i fratelli minori. Alcuni cristiani
sono offesi dalla brutalità delle immagini – senza
disdegnare però di guardare avidamente il video dei tre
giapponesi con il coltello alla gola che passa decine di volte
al giorno in televisione. Altri cristiani minimizzano ricorrendo
alla fedeltà storica e alla prova non provata delle centoventi
tracce di fustigazione riscontrate sulla Sindone - questa l’ho
proprio sentita io. Alcuni si appropriano anche dell’invenzione
dell’amore incondizionato, inteso come offerta anche della
vita stessa per l’altro - È bene precisare visto
che parliamo di passione. Affermazione, questa, suffragata dal
fatto che nella letteratura precedente all’epoca di Cristo
è totalmente assente questo concetto, facendo quindi propria,
poiché la letteratura era per quei tempi ciò che
la televisione è oggi per i nostri, la massima di Orson
Welles: se una notizia non passa in radio o in televisione (non
ricordo bene), allora non è accaduto nulla. Un po’
deboluccio, mi pare. Ma su un fatto sono tutti d’accordo:
si tratta di un film profondamente “cristiano”, e
a suffragio di questa incrollabile convinzione si porta l’indiscussa
fede di Mel Gibson, appartenente alla Chiesa metodista. Ma ne
siamo proprio certi?... che si tratti di un film profondamente
cristiano, voglio dire. Se escludiamo le battute che fanno riferimento
ai Vangeli, presenti in qualsiasi film sull’argomento e
che quindi non costituiscono prova, l’unico messaggio veramente
“cristiano” che ne vien fuori è solo quello
relativo al concetto di “amore incondizionato”, concetto
che, mi spiace per i fans di Orson Welles, non credo sia di proprietà
esclusiva del cristianesimo. Per il resto è semplicemente
la storia del martirio di un uomo, molto ben realizzata artisticamente,
con spargimento di sangue e attese di scene raccapriccianti -
come l’inchiodatura delle mani - portate al giusto (filmicamente)
punto di tensione, adeguati alle libidini umane. Resta la storia
di un uomo profondamente umano, con tutte le sue debolezze e la
sua visionarietà, come profondamente umana risulta la figura
di Maria: una pietà, la sua, che vediamo tutti i giorni
in TV ricoprire col suo velo la figurina di un bimbo morto, palestinese,
irakeno o africano che sia; anch’egli un bimbo banalmente,
irrimediabilmente umano. Ho il sospetto - o forse la certezza
- che Mel Gibson sia uno dei pochi cristiani “veri”
esistenti al mondo e che, con questo film, abbia voluto ricondurre
la Chiesa a riposare i piedi per terra, a discendere dalla sfera
celeste in cui per secoli si è confinata, a tornare ad
essere una religione per gli uomini e non solo per santi, asceti
e i teologi. E’ forse un ammonimento il suo? un rimprovero?
un’esortazione? o un messaggio ecumenico, rivolto a tutti,
cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e chi più ne ha più
ne metta? Forse, ha semplicemente voluto dire che, in fondo, chiunque
muoia di morte violenta è un “povero cristo”
nella stessa misura in cui lo sono la Madre e Magdala e Giacomo
e i discepoli e i sadici fustigatori e i soldatacci romani - di
cui siamo lontani nipoti, non dimentichiamolo - e gli Haipha e
i Bar Abbas e i Pilato; tutti disperati ugualmente al compimento
del supplizio. Nella giusta misura e al momento giusto. Un capolavoro.
(Da Thesis - Attualità, cultura e arte)
Le
invasioni Barbariche: un film generazionale?
di
Elisa Pannini, Luca Gandolfi e Giorgio Maimone
Da: Luca.Gandolfi - Inviato: martedì 23
marzo 2004 12.37
Domenica Grazia ed io abbiamo preso la videocassetta del film
"Le
invasioni barbariche", propagandatomi da amici, parenti
e recensori di varie testate come "la più graffiante
satira anti-americana dell'anno". Non mi aspettavo illuminazioni
progressiste degne di Rousseau e Marx e nemmeno la satira di Sterne,
ma un certo umorismo intelligente come ne ho trovato in alcune
recenti produzioni francofone sì. Ora... qualcuno mi deve
spiegare queste tre cose:
1) Cosa c'è di satirico in un uomo che a cinquant'anni
ne dimostra settanta e sta morendo di cancro? Grazia ha passato
tutto il film piangendo, ricordandosi del suo povero padre, ed
io ho passato tutto il film con le mani sui coglioni, ricordandomi
della mia tosse che dura da un po’ di giorni.
2) Che cos'ha questo film di antiamericano?
3) Ma il titolo non c'entra niente con il film anche nell'originale,
oppure in Quebec ha un'altro titolo?
Un abbraccio,
Luca
Giorgio
Probabilmente
Luca, l'hai preso dal lato sbagliato. Io sono uno di quelli comunque
convinti che i film vadano visti al cinema e non a casa, perché
comunque sia, l'effetto è diverso e non collettivo, ma
singolo. "Le invasioni barbariche" (il titolo ha senso
perché si ricollega all'attentato dell'11 dicembre, paragonato
al sacco di Roma. I "barbari", gli invasori che vengono
dall'esterno, per la pri
ma volta sono entrati sul territorio dell'impero. E il precedente
film di Denys Arcand si intitolava "Il declino dell'impero
americano", altro collegamento col titolo attuale).
Io l'ho trovato non solo un bellissimo film, ma un film di grande
impatto civile .E ho invitato i miei figli ad andarlo a vedere.
Perché la morte non è un tema a cui bisogna sfuggire
o nei confronti del quale l'arte debba chiudere gli occhi . Non
lo ha mai fatto e ne ha tratto opere di assoluta pregnanza. In
fin dei con ti cos'è questo nostro dibattersi disperato
nelle gabbie della vita se non il tentativo di fare i conti con
l'assoluto? Per valutare appieno il film non si può tra
l'altro dimenticare che il cast è lo stesso del film precedente
e anche le storie che si riannodano sono le stesse. Sul cinquantenne
hai ragione: non ha 50 anni il protagonista (te lo dice un 50enne!
:-)) ma in quanto a intelligenza, a
ironia, a sarcasmo, a spingerti a riflettere su quello che è
e su quello che è stato, secondo me, quest'anno c'è
stato poco altro allo stesso livello. Non solo, ma ti dirò
che ci metterei la firma perché le chiacchiere tra me e
i miei amici riuscissero spesso a essere così gradevolmente
colte e pensosamente ironiche (ho invertito volutamente i due
aggettivi consueti). Si soffre a vedere questo film, come si soffriva
per la Stanza del figlio. Si sta male anche. Ma si assapora la
possibilità che l'amicizia e l'amore, variamente distribuito
tra famiglia e fuori, possano costituire un antidoto prezioso
all'annullamento. O comunque un viatico migliore. So che non sarà
servito a farti cambiare idea. Le reazioni sono individuali di
fronte a qualsiasi forma d'arte. E a volte, quelle che irritano
d
i più sono quelle che toccano di più. Volevo solo
farti conoscere il mio "diverso" parere.
Giorgio
Luca
Sì,
l'ho preso dal lato sbagliato, ma è il lato da cui me l'hanno
porto. "La stanza del figlio" sapevo che non era il
Nanni Moretti di "Aprile"... sapevo che l'argomento
era dolorosissimo e sono andato a vederlo sapendo che avrei sofferto.
Ma se uno mi dice "È un film divertentissimo e fortemente
antiamericano" io immagino una cosa sul genere "La seconda
guerra civile americana".
Anche i miei genitori hanno amato questo film più o meno
nei tuoi stessi termini (sono stati loro a consigliarmelo) e a
questo punto mi sorge una domanda, se vuoi un po’ provocatoria...
non è che "Le invasioni barbariche" è
un film un po’ "troppo" generazionale?
Un
abbraccio,
Luca
Giorgio
Assolutamente
sì, Luca. È un film generazionale. E tra la mia
e la tua generazione passano probabilmente più primavere
che tra la mia e quella dei tuoi genitori :-))
Grosso modo, mutatis mutandis, il gruppo che si ritrova nel finale
di questo film, in Italia sarebbe un gruppo di ex sessantottini.
È chiaro che se il dolore prevale o diventa insopportabile,
il sottile umorismo di fondo può dare addirittura fastidio.
Non è un film facile, né per tutti. Quasi come il
disco nuovo di Guccini: ci vuole la scritta "Guccini inside".
Elisa
Non
credo, Luca. A me è piaciuto moltissimo: ho avuto la fortuna
di vederlo (al cinema, particolare molto importante) senza aver
visto o sentito nient'altro che lo scarno trailer che passava
in tv. Posso dirti che mi è sembrato un film piacevole
e doloroso al tempo stesso: non mi aspettavo niente e invece ho
avuto moltissimo. Mi è sembrato ironico e pungente, ma
allo stesso tempo dolce e malinconico... Non saprei comunque spiegarmi
meglio di quanto già non sia stato fatto.
Aggiungo
solo che la settimana scorsa, in un delizioso cinema di Pisa,
che si chiama Arsenale (www.arsenalecinema.it), ho avuto l'occasione
di vedere "Il declino dell'impero americano".Certo,
mi ha fatto una ben strana impressione rivedere gli stessi personaggi,
ringiovaniti di 20 anni: ho avuto modo di capire molte cose che
vengono dette nel nuovo film, e di apprezzare la "crescita"
del
regista. Considera, Luca, che in un film che si intitola "il
declino dell'impero americano" si parla per due ore, i n
i n t e r r o t t a m e n t e, di sesso. Viene ancora più
spontaneo chiedersi "ma che c'entra il film con il titolo???".
Fatto sta che sono uscita di lì con la voglia di rivedere
tutti e due, il declino e le invasioni. Forse avevi aspettative
troppo diverse e alte per poterle appagare: il giudizio più
equo e il godimento maggiore si ha proprio da quei film (o libri)
da cui non ci si aspetta niente, secondo me.
Vini
del Collio
di
Marina Tevini
TRIESTE
- Abbiamo deciso di non andare in montagna questo week end, nonostante
si possa ancora sciare. Pazienza. Ci consoliamo puntando sul Collio
goriziano che non frequentiamo da parecchio tempo. Quanto? Ce
lo domandiamo e, con meraviglia, appuriamo che sono passati più
di vent’anni. Ammapete come passa il tempo! A San Floriamo
venivamo prima di sposarci. Andavamo a mangiare un piatto di salsicce
e a scolarci una bottiglia del Collio e parlavamo di come arredare
la casa (e soprattutto con quali soldi, visto che il nostro budget
era nullo).
Mi piacerebbe rivedere il castello, dico. Il castello è
stato trasformato in Golf club Hotel (a dimostrazione che nulla
rimane uguale nella vita). Vaghiamo un po’ per le colline
coltivate a viti e affollate da giocatori di golf. ( Che idea!
Per il golf non sarebbe meglio evitare il terreno in pendenza?
I golfisti sudati rincorrono disperatamente le palline …)
Arriviamo in una trattoria con molte c e molte pipette (siamo
vicinissimi al confine) e scopriamo che è inserita negli
itinerari gastronomici (e a buon diritto). Dal primo piatto, anzi
già dal vino, capiamo di essere capitati proprio bene.
Ottimi i primi, che svariano dai ghocchetti alle crespelle, i
secondi: dall’agnello ai medaglioni di cervo con porcini,
i contorni (tipici del nord-est : patate in tecia, spinaci e carciofi)
e infine lo strudel con panna. All’uscita incontriamo un
tale che si avvicina a mio marito dicendogli TEVINI con grande
sorriso sulle labbra. Veniamo a sapere che erano compagni di università.
Com’è mal ridotto! commenta mio marito e poi aggiunge:
Non capita che vada mai da qualche parte senza incontrare qualcuno
che conosco, Il consorte in effetti aveva trovato persone che
lo conoscevano anche in Danimarca in Grecia in Olanda, E, dando
prova di notevole socievolezza, conclude: Non si può mai
stare in pace.
I
prati sono tappezzati di primule gialle e il panorama sarebbe
bellissimo se non fosse ovattato da una nebbia che smorza la realtà.
Ci torneremo quando ripristineranno il colore, dico io. Ci dedichiamo
alla ricerca di un’azienda agricola che venda vino sfuso,
ma ormai tutti si sono fatti furbi e, come ci è già
successo nelle zone di Dolegna Ramandolo e Cividale che frequentiamo
spesso, vaghiamo e vaghiamo a damigiana asciutta. Sarebbe una
vera sciagura andarsene da questi colli tappezzati di viti senza
vino …Mi ricordo che mio padre andava sul Collio a comperare
vino. Damigiane e damigiane. Anche una cinquantina di litri. Noi
invece abbiamo solo una damigianetta di 5 litri. Ah figlia degenere,
mi diceva sempre!
"Fioi ve lasserò tutto ma no vin!" diceva quando
aveva più di ottant’anni. Invece non mi ha lasciato
niente. Cose dell’altro mondo. Se morire è sempre
chiudere una porta in faccia a chi resta, posso dire che mio padre
me l’ha sbattuta sul naso. Gran figlio di puttana mio padre!
Ci ho messo circa sette anni a metabolizzare l’affronto.
Poi ho concluso che la vita è così: quelli che amiamo
sono quelli che ci amano meno, quelli da cui vorremmo farci capire
non capiscono. In compenso ci sono mille altre persone che, visto
che non ci importa granché di loro, sono disposti ad amarci
pazzamente e a seguirci pazienti. La vita è così.
Bisogna tirare diritto.
Zigzagando per i colli arriviamo finalmente a una azienda che-
bontà sua - ci riempie la damigianetta.
I
giorni della merla a Treviso
di Marina Tevini
TREVISO
- I giorni della merla. Freddissimi. Attraversando una stretta
via, fiancheggiata da carpini, arriviamo a un’antica villa:
Villa Carpenada appunto, nelle vicinanze di Belluno. In lontananza
i monti ampiamente innevati. Di neve a dire il vero ce n'è
parecchia anche nel parcheggio e sulla stradina in cui, dopo aver
depositato armi e bagagli nella stanza, ci avventuriamo. Camminiamo
nell’odore secco e allettante di legna bruciata, fiancheggiando
dei casolari e guardando le montagne. In lontananza si vedono
persino le Pale di San Martino.
Gli incontri culturali iniziano nel primo pomeriggio. Io presento
il libro di un mio amico e lui presenta il mio (a che serve sennò
l’amicizia?) :)) Poi si va tutti assieme a vedere una mostra
che Belluno ha allestito, forse sognando (senza riuscirci) di
rivaleggiare con Treviso. Richiamano nomi come Van Gogh, di cui
peraltro compaiano solo tre quadri, e Monet, ma nell’insieme
è un’esperienza altamente deludente. Manca un percorso,
una qualche lettura e interpretazione, e manca anche un numero
ragionevole di quadri significativi. Si salvano alcuni quadri
di Signac e Bonnard che mi sorprendono piacevolmente.
Belluno però è una cittadina deliziosa e ha ben
risolto il problema del traffico. Un megaparcheggio alla base
della collina, e da lì tre tratte di scale mobili coperte
che ci portano in un lampo alla base del campanile.
Il
centro ha tantissimi portici e in una piazzetta è stato
allestito un campo di pattinaggio. Quasi quasi…
Ritorniamo alla villa per cenare. Nella luce della sera - tra
qualche fanale rosa- attraversiamo una fatiscente scaletta che
conduce alla villa. Tutto ha il sapore del passato. Dai gradini
in pietra, alle statue un po’ malconce del giardino, agli
affreschi lungo le scale. È una villa del seicento sede
vescovile. Le stanze ampie e comode hanno il solo, ma non irrilevante,
difetto di essere molto fredde. Tirare fuori il mignolo la notte
e riscomparire è tutt’uno. Sgradevolissimo per me
che amo girare nuda per la stanza.
Al mattino passeggiamo lungo la strada che dalla villa sale, tra
animali da cortile vari e casali. Si sente attorno un odore di
legna bruciata e di camini: l’odore dell’inverno,
diverso in montagna dall’odore che la settimana scorsa avevo
sentito in un paesino vicino a Salvore, in Istria. Sarà
un problema di tipo di legna o della presenza del mare. L’odore
dei luoghi mi intriga sempre moltissimo. Ricordo di aver desiderato
ritornare sull’altopiano di Asiago per risentire l’odore
di inverno come l’avevo sentito in una domenica di tanti
anni fa. Ma, si sa, niente rimane mai uguale, e io ho l’ho
inseguito per paesi e paesi, senza riuscire a ritrovarlo.
Le conferenze, presentazioni di autori e di libri, e le mostre
si succedono e noi traviamo il modo di sgattaiolarcene via. Una
puntatina ad Asolo si impone. Ci godiamo un po’ di solitudine
in mezzo ai colli asolani, necessaria dopo tante chiacchiere "Ma
non ti sembra che siamo un po’ selvadighi?"osserva
ridendo mio marito "Si sì selvadighi proprio!"
E ridiamo. In effetti, sebbene io abbia bisogno di contatti umani
e mi piaccia stare in mezzo alla gente, ho bisogno poi anche di
rimuginare gli eventi standomene da sola o in compagnia di mio
marito, il che è equivalente (non è una critica,
anzi un apprezzamento nei suoi confronti)
Da Asolo portiamo con noi dei fagottini di funghi porcini (da
fare al forno, ci dicono) che uniti alla torta di noci presa a
Belluno si riconfermano due chicche gastronomiche di non poco
valore.
Non
riusciamo a resistere all’attrazione di Treviso e facciamo
una piccola deviazione per vedere la mostra "L’oro
e l’azzurro" la terza che vediamo nella Casa dei carraresi
in tre anni.
Mostra bellissima che ci guida attraverso un percorso tematico(i
paesaggi della Provenza e della costa azzurra) e presenta molte
opere di altissimo livello. Ci sono interessanti divagazioni nel
colore di Munch (quadri quasi incredibili che distano solo qualche
anno dall’Urlo) ci sono paesaggi di Monet e poi colori e
colori, alcuni autori che mi intrigano abbastanza (Rijsselberghe
ad es). Ma soprattutto c’è Van Gogh...Van Gogh non
è solo una moda. Se adesso siamo tutti lì a guardarlo
incollati ai quadri e io continuo a leggere affascinata le lettere
al fratello Theo, e talvolta davanti ai suoi quadri sono stata
sul punto di piangere(non è un cattivo segno, io di solito
piango davanti alla bellezza che mi affascina, e non so perché
lo faccio) una ragione ci sarà.
I
suoi limiti e i suoi entusiasmi. La sua anima ingenua e dura.
Capace degli slanci più nobili e anche delle più
autolesioniste assurdità. Il suo entusiasmo nel costruire
un nido di artisti in Provenza, la sua gioia nell’aspettare
Gauguin(gioia che si riflette anche nel quadro della stanza -esposto
alla mostra-) il contrasto tra la sua natura di non colore (c’è
sempre da stupirsi osservando il percorso pittorico dai primi
agli ultimi quadri), il suo lavorare con accanimento sul colore,
il suo dire "il fiacre che si trascina deve essere utile
a persone che non conosce ..sentiamo la realtà del fatto
che noi siamo poca cosa e che per essere un anello nella catena
degli artisti paghiamo un prezzo duro di salute, di giovinezza
,di libertà, di cui non gioiamo non più del cavallo
di fiacre che traina una carrozza di persone che vanno a gioire,
loro, nella primavera"…
E ora tutti noi con il naso in su a guardare e riguardare questo
arista meraviglioso che in solo 37 anni di passaggio in questo
mondo (di cui solo sette dedicati interamente alla pittura) segnò
delle vette insuperate. Uomo percorso - suo malgrado -dall’arte
che, nel suo passaggio, con i soliti effetti devastanti, si servì
di lui per scrivere un pezzo in più della storia del mondo
Marcello
Dudovich: oltre il manifesto
di Marina Tevini
TRIESTE
-- "Sono nato il primo giorno di primavera e c'era il sole
sul letto",così scrive di sé Marcello Dudovich
ricordando la sua nascita nel 1878 a Trieste. E in effetti il
sole che inchioda al loro essere le figure è l'elemento
dominante della sua opera : solari donne sempre eleganti e raffinate
che dai loro abiti svolazzanti, dalle loro labbra sempre rosse,
spesso arcuate attorno a una sigaretta, prorompono nella loro
femminilità da cartelloni, bozzetti o dipinti.
Trieste
nella cornice del Museo Revoltella offre in questo periodo ai
visitatori la mostra Marcello Dudovich- Oltre il manifesto ( dal
18 dicembre al 30 aprile ore 10-19 chiuso il martedì) organizzata
dalla Direttrice del Museo Maria Masau Dan e curata da Robero
Curci.
Attraverso
più di un centinaio di manifesti, innumerevoli bozzetti
e quadri possiamo conoscere l'opera di un grande artista. Dudovich
era un artista nato e dipingeva dappertutto ( racconta di aver
persino utilizzato un lenzuolo): un atteggiamento che lo attraeva,
una figura che passava, tutto diventava occasione per fissare
l'attimo.
Dudovich
fu innamorato per tutta la vita della figura umana, in particolare
di quella femminile. In un secolo che rifiuterà platealmente
il figurato Dudovich si impone in questo dichiarato omaggio amoroso
alla figura della donna.
Respiriamo
attraverso i tantissimi cartelloni commissionatigli dalla Rinascente(
con cui ebbe un rapporto di collaborazione per più di quarant'anni
) oppure dai Grandi Magazzini di Napoli Mele oppure da Bugatti
o dalle varie distillerie ( Strega, Stoch, Distillerie Pedroni
) un'aria di elegante raffinatezza e di seducente sensualità.
Le
donne sdraiate su morbidi divani o in alcove, le donne che corrono
nelle Bugatti (eco del mito dell'automobile di marca futurista)
sono un sogno dipinto ( forte dietro questi cartelloni c'è
la suggestione delle opere di Toulouse Lautrec).
Il
successo di Dudovich iniziò a Bologna agli inizi del secolo.
I bei cartelloni per
la festa di primavera promossi dal comune
ne sono un suggello. Da allora l'inquieto triestino poco più
di ventenne colleziona successi e ottiene commissioni da diverse
industrie, oltre a collaborare con il giornale
satirico di Monaco Simplicissimus.
Dudovich
ha immortalato l'atmosfera della belle epoche nei suoi miti e
nelle sue fantasie.
Alla
fine della prima guerra mondiale in un'atmosfera diversa e meno
gioiosa la sua produzione non tradisce però la sua ispirazione
più intima. Anche se lavora per la pubblicità produce
dei veri e propri capolavori come La donna nella gomma Pirelli
del 19 o il cartellone Il latte di magnesia che ci rappresenta
una dolcissima scena familiare o le ballerine che si specchiano
nelle ceramiche Smat (del 23). Ma anche la scimmietta, la mitica
Pierette, della pubblicità dei cappelli Borsalino è
un piccolo gioiello.
Il
colore rosso spesso si impone nei cartelloni di Dudovich come
nella bellissima donna con l'ombrello riprodotta sul biglietto
d'ingresso.
Un'opera,
la sua, inesauribile che si snoda lungo gran parte del secolo
fino alla sua morte nel 1962. Nell'ultimo periodo della sua esistenza
si dedica soprattutto alla pittura ma ci sono ancora dei veri
e propri cartelloni- capolavoro come I due pigiami appesi a una
falce di luna per la fiera del bianco della Rinascente o il fazzoletto
lavato con Persil (dolcissimo nel suo biancore disarmante e annodato).
Ci
rimane negli occhi l'immagine delle sue donne della bella epoque
con i loro grandi cappelli, la loro figura quasi aggettante dai
cartelloni, la loro femminile rassicurante presenza che ci fa
sembrare banali certe ragazzine di oggi nel loro look aggressivo.