Archivio Le stelle

Vienna 2: Halloween
di Marina Tevini

E allora ebbi la sensazione che tutto fosse perduto... Sferragliava un tram rosso sulle rotaie di Vienna. Tram liso, con un pavimento imbevuto di pioggia e di rifiuti umani. Finestrini appannati e opachi, chiazzati di pioggia.
Sera di Halloween. Cinque ragazze vestite da streghe con calze a rete strappate e ragnatele sui capelli si passano birre e risate. Davanti a me un’anziana viennese porta le sue rughe con la bellezza di una statua di legno. Noi veniamo dall’Albertina, dalla mostra di Rubens, dove ci siamo persi per qualche ora in chiaroscuri profondi. E allora ebbi la sensazione che tutto…Le idee ti vengono perché vogliono venire. Non sei tu a cercarle. Fortunate mia madre e mia nonna che hanno passato un’infanzia traversata da guerre. Per la vecchiaia solo medicine, benessere e, per quel che si può da umani, serenità. Noi abbiamo ancora un tributo da pagare alla crudeltà della vita. Forse sarà peggiore. Chiudo gli occhi mentre le ragazze streghe intonano un canto.

Vienna due anni fa. Un tram rosso nuovo ci portava tra ring e carrozze alla ricerca del bacio di Klimt. Dalla Stephansplatz al Belvedere tra parchi gialli di foglie. L’itinerario oggi mi sembra logoro, usato. Dai manifesti mi inseguono gli occhi dolcissimi e azzurri del bambino di Rubens: occhi magnetici, dalle lunghe ciglia che vorrei accarezzare.

 

Torniamo in albergo con comodo di tv. Ci togliamo le scarpe. Halloween americana. Maschere. Maschere di Bush e Kerry. Festa di carnevale. Famiglie maschere sfilano. Madri e figlie. Tutto fa simpatia. Tutto può portare voti. Sorrisi e rassicurazioni. Gli elettori vogliono essere rassicurati. Vincerà chi ispirerà più sicurezza. L’America ha paura. L’Occidente ha paura.

E allora capii che tutto… Noi, gli uomini grigi, di eliotiana memoria, noi che abbiamo sprecato, che abbiamo distrutto in un secolo… Noi, l’Occidente a cui Baricco ha tolto gli dei, come se gli eroi dell’Iliade potessero combattere senza gli dei, noi che abbiamo dismesso i nostri dei per sostituirli con altri più cogenti e banali.

E allora ebbi la sensazione…No no
A Grinzing il mosto è buono.

Giù, nelle viscere della terra, freudianamente giù. U4. Direzione Schönbrunn. Poi di nuovo in centro. Cupoloni rotondi e statue gigantesche. Pollici di qualche chilo. Vienna metropoli. Luna park della mente. La città è storia, è civiltà. Se storia è civiltà. Il che è tutto da dimostrare.
Museo delle armature. Passiamo oltre.
Museo di Efeso. Pezzi di Turchia per completare un puzzle che due mesi fa avevo lasciato in sospeso.

I cavalli lipizzani non corrono per me nella notte. Klimt si è contaminato nella nudità di Schiele. L’oro è caduto. Resta un vuoto sconcio e depravato. Museo Leopold. Mostra di Schiele. Schiele ha colto nelle lunghe dita, nelle ginocchia ossute, nei nudi deformi, persino nelle case che ondeggiano(la mostra recupera molti paesaggi urbani che non conoscevo)la tragedia di un secolo buio.
Fa buio. Vienna musica. Forse. A animo sgombro.
Andiamo vagando in una nebbia carica di pioggia che non viene giù. L’aria è sporca. I monumenti li stanno pulendo. Emergono zone bianchissime dal nero che l’ultimo secolo ha regalato.
Noi, Terzani e globalizzazione. Noi, sprechi e Buttiglione. Scimmie e idiozie.

Mi sveglio al mattino con gli occhi arrossati. Allergia come la sorellina Enrica? Ma a che cosa? Al caldo secco degli ambienti? Alla moquette? Alle stanze d’albergo? Io passerei la vita nelle stanze d’albergo. Questa vita in uso mi piace. Adoro questi oggetti non miei proprio perché domani non li rivedrò più.

Oggi voglio la Vienna più banale, quella della Hofburg e della Herrengasse, della Graben e delle pasticcerie.
Appartamenti imperiali e appartamento di Sisi, la principessa triste. Stanze e ancora stanze, ritratti e gioielli. Mobili antichi. La camera dove le spazzolavano i capelli per tre ore mentre il maestro di greco leggeva l’Iliade, attrezzi per fare ginnastica e un lettino dove si faceva massaggiare(beata lei). "Se il posto più bello del mondo fosse quello definitivo sarebbe per me l’inferno" diceva e così vagò un po’ dappertutto lasciando marito e figli. Carrozze e treni e anche yacht lussuosi. Poi un giorno un anarchico per errore le diede la morte.
Ritorniamo nella Graben. Marco Aurelio, l’ho visto tra i busti al museo di Efeso. Domani magari facciamo una sosta a Petronell- Carnuntum, ok?

Ci fermiamo a Petronell- Carnuntum, avamposto romano contro la barbarie. Le parole di Marco Aurelio mi seguono. La consapevolezza di vivere ai confini di un tempo.

"Neue Europe" sta scritto su una porta, e via verso la dogana veloce della Slovacchia.
Bratislava. Piccola la sua parte antica, Un mucchietto di case rosse perse in una marea di casermoni e grattacieli orrendi al di là del Danubio, cresciuti come un cancro.
L’Europa si allarga. Entrano le capitali dell’Est. Entrano col loro retaggio di delinquenza minuta, di bellezza antica, di sogni infranti.
Praga dieci anni fa. Praga di inerzia e di malaffare. Praga piena di orologi. Praga di ponti e di monumenti scuri. Praga di tram e di pomodori marci. Praga magica, ma attenti ai ladruncoli. Praga kafkiana. Anche nei ristoranti.
Slovacchia. Solo una timida occhiata all’altro da noi. Un affacciarci su uno stato per noi misterioso. Bratislava è l’unica città parzialmente occidentalizzata. Al di là, un mondo di gitani e di ruteni. Mondo arcaico e inquietante. Frontiera. Un’altra volta. Forse.

Viaggio di ritorno. Traversiamo la bassa Austria, il Burgland, terra di viti e di cantine. Paesaggi insoliti e poco austriaci. Ma, si sa, il Tocai ungherese non è lontano. Il sole non vuole accendere i pampini rossi. Corriamo nella nebbia sotto un cielo perlato. Io leggo Freya Stark e sogno viaggi che non farò mai.

 

L'Olanda non è nelle mie corde
di Marina Tevini


A dire il vero l’Olanda non è stata fin dall’inizio nelle mie corde. Ci siamo stati già altre volte e sebbene sia un paese interessante, non lo è più di altri. Ma il mio consorte è irremovibile E Olanda sia.
Germania del nord, tralicci, nuvole in cielo, e siamo in Olanda. Il consorte respira guardando i cieli e le pianure disseminate di case e di canali. “Fa sempre piacere tornare in Olanda”, dice. I cieli del nord in effetti sono diversi, c’è una luce radente da mattino a sera e tutto è sempre nitido. Non sono in cieli inquieti della Turingia, ma cieli leggeri e vaporosi. Gli olandesi corrono in bicicletta in un grande parco, siamo nella zona di Groningen e a quattro passi dalle industrie hanno creato un vero paradiso dove si può fare sport in una natura ricreata.
Gli olandesi amano la natura, ma ho la sensazione che quella che vediamo attorno sia una pseudonatura. Intendiamoci, niente di artificioso e che disturbi, anzi tutto è perfetto. È questo il punto: un po’ troppo perfetto. Leprotti corrono qua e là nel campeggio e mangiano velocissimi. Noi percorriamo lunghi viali e arriviamo a una piccola darsena dove ci sono due ristorantini raggiungibili con una barca che si aziona con una carrucola. Camminando sull’argine illuminato dal sole vediamo qualcuno pescare per diletto e poi ributtare i pesci in acqua.(“Che fortuna!” dirà il pesce “Ma chi mi ripaga della fifa e di questo buco sulla lingua?”) “Gli italiani sono matti,” ci dice la signorina della reception in un ottimo italiano. “Sono vissuta per 11 anni in Italia e ho nostalgia. Qui tutto funziona, mi manca un po’ di pazzia”. Poi ci racconta un’histoire d’amour con un italiano in Toscana e il suo mesto ritorno ai patri lidi. “Che bella la Toscana, - dice.- Avrei tanta voglia di tornarci”.
Dunque siamo in Olanda. Ci sono le casette belline, tutte simili, con i mattoni rossi circondate da un breve tratto di vegetazione curatissima: alberi nani e sempreverdi delimitano lo spazio, non ci sono cancelli, e le finestre, grandi finestroni aperti esibiscono la living-room con poltrone tavoli e suppellettili varie.
I canali sono numerosissimi, affiancano la strada e dentro, in una fanghiglia verde, vivono paperotti e ninfee. Siamo in Olanda. Nel campeggio situato su un lago tutto ha il sapore del mare. Gli olandesi in costume da bagno tirano fuori materassini e aquiloni, vanno sulla spiaggia sabbiosa e ventossima, corrono e passeggiano nell’acqua.
In Olanda tutto sembra. Gli uccelli che impazzivano di canti e il disordine di una bastarda Turingia mi sembravano più veri di questa realtà perfettina dove le zanzare non pungono, l’erba è sempre ben rasata e gli alberi sembrano anche loro recitare una parte.
Siamo in Olanda: la natura ha un volto amico, l’allevamento del bestiame arriva fino alle porte delle cittadine, davanti alle case pascolano caprette, vicino al nostro campeggio si vende latte appena munto che noi ci guardiamo bene dall’acquistare perché un volta l’abbiamo assaggiato e abbiamo detto “Evviva la pastorizzazione”.
Siamo in Olanda: tutto funziona ed è funzionale. A Groningen, annesso a una chiesa e parte integrante della medesima, c’è un ristorante. Qui la laicizzazione sembra essere davvero massiccia. Quali aspirazioni quali valori quali riferimenti? La vita terrena occupa in toto la mente: gli olandesi lavorano alacremente fino alle sei, e poi ritornano nelle loro belle casette. Esibire una famiglia di marmocchietti biondi e lo status rivelato dall’esibizione della propria living-room è la nuova religione.
Siamo in Olanda e piove. Il pane è buono. I supermercati dimostrano di venire incontro alle esigenze delle donne che lavorano. Nelle botteghe dei paesi sul mare si comperano ottimi gamberetti e aringhe crude che si mangiano con la cipolla e sono deliziose.
Siamo in Olanda e piove. “Dove andiamo?” Io andrei a vedere le località più interessanti vicino ad Amsterdam o Amsterdam stessa, visto che finora ho visto solo paperi, anonime case e ho urgente bisogno di infilarmi in qualche delirio di Van Gogh. Ma il consorte vuole rimandare a quando non pioverà la nostra visita di Amsterdam. Quando non pioverà? Secondo me pioverà sempre. E pace. La cortese commessa di una pescheria che ci vede delle ottime aringhe ci racconta che a Verona ha conosciuto un italiano(e con la mano accenna a un bacio). I maschiotti italiani, devo constatarlo, godono ottima fama all’estero. (Come saranno gli olandesi?)
L’Isselmer è ora un mare interno, anzi una specie di lago, da quando hanno costruito la diga che lo isola dal mare. Prima però era sede di importanti porti dal passato illustre come Enzquizen e Horn. A Enquizen prendiamo un battello per andare a visitare un museo all’aria aperta. Il museo ricostruisce le case dei villaggi sull’Isselmer da Volendam a Marken alla stessa Enquizen con le attività che si svolgevano come l’essicazione del pesce o l’allevamento del bestiame. Per rendere più coinvolgente il tutto c’è anche qualche olandesina in costume che lava piatti o stende il bucato o artigiani intenti a costruire zoccoli. La gente, numerosa, guarda con interesse. Mi chiedo cosa ci sia di interessante(dato che non provo interesse neppure per l’attuale lavaggio dei piatti nè per la risuolatura delle scarpe non so perché dovrei emozionarmi per queste attività svolte nel passato) Amsterdam Amsterdam, dico, e Van gogh. Datemi Van Gogh.
E Van Gogh è.
Facciamo un giretto per il centro di Amsterdam, poi subito ci spostiamo nella zona musei dove mi posso godere il bel museo di Van Gogh che ospita anche una mostra di Manet. Posso ammirare le scarpe (nelle varie versioni parigine), i girasoli, la sedia e la stanza, il mietitore e il seminatore. Affondo tra gialli e blu. Trovo anche l’epistolario con Gauguin e col fratello Teo e me ne vado felicemente via dal museo con due libri sottobraccio.
Volendam e Marken ci accolgono in una sera bellissima. Finalmente il tempo ha avuto pietà di noi. Le casette di legno variopinte, i colori esaltati dai riflessi del sole al tramonto…
A Volendam avevamo cenato una ventina d’anni fa durante il nostro primo viaggio in Olanda. Passeggiamo e ci abbandoniamo ai ricordi di quell’infinità di piatti che ci era arrivata davanti dopo aver indicato con il dito qualcosa sul menù che non sapevamo bene a cosa corrispondesse.
Lamentiamo l’involgarimento operato dal tempo sul luogo, le orde di turisti, i ristoranti che espongono orrendi panini modello Mc Donald’s con i piatti disegnati oppure i cartocci di patatine di plastica. Ci lamentiamo del dominio del fast food, ma non demordiamo e proseguiamo nella nostra ricerca. Entriamo nel ristorante che ci sembra più immune dal turismo di massa anche se non siamo sicuri che fosse quello di vent’anni fa. Ordiniamo una sogliola e dei gamberi(la lista stavolta è scritta in diverse lingue) e (miracolo!) ci arrivano come i re magi tre graziose cameriere con ben 15 portate (i piatti di pesce, i contorni, vari tipi di patate e una quantità di salse).Volendam è salva. Bene.
A Volendam sabato sera arrivano i pescatori che sono andati per tutta la settimana a pescare nel mare aperto e la baldoria che esce dai bar è grande. Si vedono anche delle ragazze in gonna, cosa eccezionale perché fino a quel momento avevamo visto solo calzoni informi, orrendi infradito e scarpe da ginnastica. Le olandesi hanno le gambe. Bene. Anche se non sempre sono bellissime. (È un popolo forte e grande, ma non bellissimo. Anche se non sono brutti come i mangiatori di patate di Van Gogh, un po’ bruttini lo sono).

Diamo il nostro tributo a paesi marini vicini al campeggio andando un po’ a passeggiare per dune. Anche gli olandesi hanno il loro mare e le loro località balneari abbastanza simili alle nostre per certi aspetti: la strada centrale piena di negozi e cartoline, i tanti caffè e ristoranti. La differenza comincia a farsi sentire verso la spiaggia. C’è una duna poi un’alta. Sulla prima di solito ci sono gli ultimi insediamenti: caffè e ristoranti dove la gente riparata da grandi vetrate prende un magro sole, poi si scende in spiaggia. Una spiaggia battuta dal vento, dove il sole lo si può prendere solo nei capanni. Chi opta per camminare nel bagnasciuga può tentare, e qualche ragazzino lo fa, qualche brevissima incursione nel mare, ma è il Mare del Nord, inospitale e freddo (non sono mai riuscita a farci il bagno). Mi consolo comperando pesci affumicati gamberetti e aringhe crude. Il pesce è sempre buono e fresco e noi ritornati in roulotte ci dedichiamo ai confronti e i paragoni. È meglio l’affumicato o il mezzo affumicato? È meglio la Amstel o la birra Grolsch?(la Amstel, la Amstel!, per me non ha rivali).
Ritorniamo ad Amsterdam in una giornata di sole a tratti. Questa volta ci andiamo con il treno perché vogliamo passarci la giornata. Per prima cosa facciamo un giro per il centro. La vasta piazza Dam, la Nieuwe Kerk e l’Oude Kerk. Cos’è quella chiesa laggiù chiedo? E invece è il Magna Plaza, un grande store costruito all’interno di un edificio storico. Magazzini con orribili indumenti o chincaglieria varia in mezzo a colonne antiche ( però risulta provvidenziale e ci salva da uno scroscio di pioggia).
Prendiamo un battello che ci fa fare il giro dei canali e vedere il porto. Sfilano a lato gli edifici della vecchia Amsterdam con le loro facciate strettissime e i tetti a cui era appeso un gancio con cui tiravano su i mobili. Poi andiamo a fare un giro nel quartiere delle ragazze in vetrina. “Non ci sarà nessuna”, ipotizza mio marito, visto che è l’ora di pranzo. Invece è pieno di umanità varia, per lo più donne di colore e altre che se ne stanno nelle loro vetrinette e contrattano con i clienti. Sono abbastanza bruttine, tranne poche. Alcune vecchiotte e altre con cosce ipercellulitiche. “Non pensavo di trovare tanto traffico a quest’ora” dice il consorte. “Eh eh- dico io, - è affollato dai bravi padri di famiglia che magari si fanno una sosta nella pausa lavoro e poi tornano la sera per la scopata casalinga senza profilattico dalle legittime. Sono arrabbiata con te,” aggiungo. Il consorte si stupisce. “Cosa ho fatto?” “A nome del genere umano che rappresenti!” Ridiamo e continuiamo i nostri giretti. Vediamo la casa di Anna Frank, la Rembrandthuis, le rive del fiume Amstel pieno di chiatte, poi stanchi riprendiamo il treno per la nostra tranquilla campagna piena di mucche.


Parlando di Dante
di Marcello Vicchio


Scrivere qualsiasi cosa su Dante senza rischiare di incappare nella noia del "già letto" è impresa assai difficile. Nel corso dei secoli moltissimi eruditi hanno approfondito, sviscerato, indagato le sue opere fin nei minimi dettagli, accumulando pagine e pagine di commenti ( molte più di quante un uomo possa leggere in una vita intera) e, dunque, il rischio di ripetersi è enorme. D'altra parte più ci si allontana dal tempo in cui Dante è vissuto e meno si riesce a penetrare nello spirito intimo delle sue opere: troppo distanti le epoche, troppo dissimili le esperienze culturali. Dante aveva una cultura sterminata, essenzialmente figlia di quella Scolastica dalla quale noi uomini moderni siamo lontani, e intendeva l'esistenza umana come preparazione per accedere nell' al di là, fine ultimo in cui ogni destino si compie. La natura era solo lo specchio dove si rifletteva Dio, verità rivelata, e la Chiesa, depositaria di essa, l'indispensabile intermediaria tra cielo e terra.

Oggi possiamo comprendere questi concetti, ma il livello di coinvolgimento non può che essere superficiale. Non possiamo immergerci in un fiume le cui acque non sono mai le stesse ed esserne profondamente permeati. Possiamo sentirci vicini a Dante, emozionarci per le straordinarie e umanissime storie che ci narra, ma nei suoi versi rimarranno sempre degli angoli bui e delle porte chiuse delle quali abbiamo smarrito le chiavi. La polvere dei secoli tutto copre e appiana.

Come giustamente affermava Federico Zeri a proposito dell'arte ( Dietro l'immagine, Ediz. Neri Pozza, pag. 33), ".Ogni giorno noi cresciamo, maturiamo, mutiamo, non siamo mai gli stessi. Ci sono epoche artistiche che possono essere intuite, comprese soltanto al momento opportuno:ma il passato è morto per sempre. Quello che è ieri, rimane ieri , non è possibile farlo risorgere. Non ci sarà mai nessuna forza, nessuna credenza, capace di farci comprendere il passato in tutte le sue implicazioni.".

Bisogna allora far buon viso a cattivo gioco e accontentarci, in molti frangenti, di sfiorare la superficie di quel mare profondo che sono le sue opere, tuffandoci profondamente negli abissi soltanto quando la nostra sensibilità e conoscenza ci permettano di farlo. Il che, in realtà, non succede molto spesso.

Pensiamo, dunque, a quanto dovesse pesargli la cruda constatazione che la Chiesa avesse del tutto smarrito il ruolo di intermediaria tra cielo e terra, di depositaria della Verità rivelata. Tutta la Divina Commedia è un atto di accusa verso questo atroce tradimento. La stessa appartenenza del Poeta alla setta dei Fedeli d'Amore affonda molte radici in questa amarissima constatazione.

Oggi si sa con certezza che la cosiddetta "Donazione di Costantino" è un falso, ma ai tempi di Dante la si riteneva autentica e da più parti si contestava lo stravolgimento del disegno divino operato da alcuni papi interessati più che altro al potere temporale. Sarebbe davvero curioso immaginare quale piega avrebbe preso la Divina Commedia se Dante fosse stato al corrente dell'imbroglio.

E' risaputo come il Poeta nel suo viaggio nei mondi ultraterreni simboleggi l'umanità intera, non è necessario dilungarci su questo, come non è necessario andare per le lunghe sul concetto che ogni "viaggio" presupponga una meta ben precisa. Se il viaggio è iniziatico, il fine non può essere che la Verità, raggiungibile soltanto dopo le varie purificazioni simboliche denominate di Terra, Aria, Acqua, Fuoco.

Dante definì l'Inferno " cieco carcere" (Inf.X) e il Paradiso "miro tempio" (Par.XXVIII), facendoci tornare in mente quel passo del Rituale in cui si recita che il massone deve ".edificare templi alla virtù e scavare profonde e oscure prigioni al vizio". Lo scopo morale del viatico indicato nell'Opera è tutto qui.

La via che dalla disperazione della bieca materialità conduce alla virtù dello spirito è costellata di prove, di passaggi difficili, di dolore; e se tutto l'Inferno è assimilabile a un terribile Gabinetto di Riflessione, è nel Purgatorio e poi nel Paradiso che dobbiamo scoprire "sotto il velame delli versi strani" le tracce e gli indizi degli altri Viaggi. Nel fare questo non dobbiamo dimenticare che Dante non può essere vivisezionato come è stato fatto per la sua opera e che, dunque, non è possibile disgiungere il Dante politico dall'adepto, il cripto-ghibellino dal filosofo, immaginando che l'uno possa avere vita autonoma rispetto all'altro. Tutti questi aspetti della personalità del Poeta si riverberano e convivono nella poesia, e or l'uno or l'altro moto d'animo prende il sopravvento, permeando le rime più oscure di due o anche tre significati oltre quello letterale ( Dante poetava come i cosiddetti dottori trilingue). E il doppio e triplo senso ci si para innanzi fin dalla prima terzina!

"Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la dritta via era smarrita...",

sono i versi forse più famosi del mondo: poche persone non li conoscono. Essi hanno la potenza di un ciclone e costringono il lettore a calarsi subito in media res, ossia nel pieno del dramma. Certo, il fuggiasco fiorentino rappresenta se stesso ma anche l'umanità che è travolta dal peccato; certo, si tratta di un viaggio dell'anima che ritrova faticosamente la sua strada verso Dio. ma qui siamo nell'Inferno, e l'Inferno è dolore e sofferenza umana oltre che agone, terreno di scontro e di lotta. Il budello luciferino è la metafora penosa dell'esilio di Dante da Firenze e l'origine delle sue tribolazioni, l'Ade personalissimo di una vita tutta in salita.

L'Inferno è politica.

Politica e credo filosofico sono passioni strettamente intrecciate nella setta dei Fedeli d'Amore, tanto che l'una sfuma e si rafforza nell'altra, radicalizzandosi nel tempo. In Dante questi tormenti assumeranno modi e caratteri particolari, tanto da costringerlo, a un certo momento, a entrare in collisione coi suoi stessi fratelli e far gridare quest'ultimi al tradimento:

"In fra gli altri difetti del libello
che mostra Dante, Signor d'ogni rima,
son duoi sì grandi, che a dritto si estima.
L'altr'è , secondo che il suo canto dice,
che passò poi nel bel coro divino
là dove vide la sua Beatrice.
E quando ad Abraam guardò nel sino
Non riconobbe l'unica fenice
Che con Sion congiunse l'Appennino".

A scrivere questi versi è Cino da Pistoia ( Rime), il quale rimprovera a Dante di avere esaltato nella Divina Commedia la sua particolare idea di Sapienza e non quella Vera, la sola che unisce tutti i settari e che rinasce sempre uguale a se stessa, da tempo immemorabile, come la fenice dalle ceneri. Più avanti, trattando del Paradiso, cercheremo di scoprire in che cosa consistesse la duplice eresia di Dante, personificata dalla figura di Beatrice, nei confronti della Chiesa e dei Fedeli d'Amore.

Politica, dicevo, già nella prima terzina.

Che cosa sono, allora, la selva e le bestie che impediscono il cammino di Dante oltre che un'allegoria della vita nel peccato?

Prendiamola larga.

Che valle e selva possano significare qualche cosa di preciso, il Poeta lo fa intuire in vari passi della Commedia. Ad esempio nel Purgatorio (XIV canto), egli definisce il Casentino misera valle e vi pone porci, volpi, lupi e botoli; nel XVII del Paradiso Cacciaguida gli dirà che egli sarebbe "caduto in questa valle in compagnia malvagia ed empia"; nel De Vulgari Eloquentia chiama l'Italia "Italica selva"e ancora nel Purgatorio (XIV) attribuisce a Firenze l'appellativo di "maledetta e sventurata fossa di lupi".

Poco tenero con i suoi concittadini, non esita a definirli lazzi sorbi e bestie fiesolane:

" Faccian le bestie fiesolane strame,
di lor medesime, e non tocchin la pianta,
se alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di quei Roman che vi rimaser, quando
fu fatto il nidio di malizia tanta",

mentre chiama se stesso dolce fico che tra que' lazzi sorbi non dee fruttificare.
La similitudine tra uomini e piante è più volte ripresa, per esempio nel IV canto dell'Inferno, dove il Poeta dice:
" ma passavam la selva tuttavia,
la selva,dico, di spiriti spessi" ,

o nel XIII, nel quale una classe di peccatori è trasformata in una boscaglia di alberi dai rami nodosi e involti e in sterpi aspri e selvaggi.
E' dunque verosimile l'ipotesi ( cfr Gabriele Rossetti, Commento all'Inferno) che vuole che per selva selvaggia si debbano leggere il secolo e i luoghi in cui Dante viveva (e soprattutto Firenze), mentre per alberi di cattiva natura i frequentissimi viziosi e per piante benefiche i pochi virtuosi.

E le belve che gli impediscono il passo?

Ricordiamo brevemente gli eventi che portarono all'esilio dell'illustre fiorentino.
Dante è inviato come ambasciatore a Roma, presso Bonifacio VIII, per chiedergli di allentare la morsa nella quale stringeva sempre di più Firenze. Il papa ha preso accordi con Filippo il Bello di Francia per allungare le mani sulla città. Carlo di Valois, fratello di Filippo, è stato inviato con un esercito in Toscana, apparentemente per fare da paciere tra Bianchi e Neri ma, in realtà, il suo intento segreto è di favorire i Neri, fedelissimi del papa. Conferendogli l'incarico, Bonifacio VIII ha pronunciato una frase significativa : << Vi mando alla fonte dell'oro!>>
Il piano riesce: i Neri scacciano i Bianchi e molti di quest'ultimi sono uccisi o esiliati. Dante non farà mai più ritorno a Firenze.
Nella selva selvaggia tre animali feroci gli si parano innanzi:
una Lupa, simbolo di Roma;
un Leone, simbolo della casa reale di Francia;
una Lonza.
Lonza sta per pantera, e la pantera, secondo Brunetto Latini, maestro di Dante, è quella bestia che ha " la pelle taccata di macchie bianche e nere". Quale migliore rappresentazione di Firenze? Il pelo della lonza in Dante diventa "gaietta pelle", probabilmente col segreto intento di indicare nella fazione dei Bianchi quella dei giusti, essendo gaio sinonimo di chiaro e di felice.

Politica e Filosofia, dunque, furono le passioni che infiammarono il Poeta perché incarnavano in pieno quell'ideale di vita attiva e vita contemplativa, bagaglio irrinunciabile per l'uomo padrone della propria esistenza e dei propri mezzi. Del resto, se ci pensiamo, anche questa è un'eredità che è stata trasmessa alla Massoneria e che risalta netta nel momento in cui ci viene chiesto di " lavorare al bene e al progresso della Patria e dell'Umanità" e non soltanto al nostro Tempio interiore.

A quell'ideale Dante non rinunciò mai in vent'anni di esilio, anche quando il mondo che aveva immaginato gli si dissolveva malinconicamente intorno.

Da vent'anni il suo amico Cavalcanti, antico capo dei Fedeli d'Amore, non c'era più. Non c'erano tanti altri adepti che l'Inquisizione aveva ghermito, che erano caduti vittima della proscrizione o che semplicemente si erano dileguati, insieme al tramonto del progetto politico di un'impossibile restaurazione del Sacro Romano Impero.

Lui continuò la sua lotta solitaria fino alla morte, che lo colse di ritorno da un'ambasceria a Venezia.

Poiché si trattava di un Giusto, ci piace immaginarlo salire di cielo in cielo, con-templare la candida Rosa dai petali immensi nel Paradiso e ritrovare quella memoria che aveva perso dopo aver già guadagnato in vita, per un attimo, la fugace visione di Dio.

A noi basti la sua Arte.

Marcello Vicchio


Uso e Grignano
di Marina Tevini


Mattino. Le ore migliori per scrivere. Meglio non aprire la posta, altrimenti mi distraggo… Dov’ero rimasta? Quando si scrive un romanzo bisogna viverci dentro, bisogna lasciarsi prendere dai personaggi e dall’atmosfera…Sono passate due ore. Guardo dalla finestra e mi sembra una gran bella giornata. Di quelle che invitano a uscire. Andrò al mare. Venti minuti d’automobile anche se c’è traffico. Vado per lo più a Grignano, una baietta sulla costiera triestina. Vegetazione di pini mediterranei e svariati sempreverdi. Li guardo soprattutto dal mare, un manto verde che svaria tra tonalità diverse e ricopre fittamente la zona. Mi metto su un pontile. Oggi non era previsto bel tempo ed è poco affollato. La gente ha una certa inerzia. Poche persone. Alcune le conosco. Quattro chiacchiere, poi in acqua. Il bello di questo posto è che c’è un fondale di sabbia. La sensazione che mi dà la sabbia che cede sotto la pressione del piede mi è sempre piaciuta. Passerei la vita a camminare sulla sabbia. Mentre cammino penso. Ieri sera mangiavamo cevapcici sul Carso sloveno. C’era con noi mio cognato. (Il cugino di mio marito no, perché, preso dai suoi periodici sconforti, ha preferito guardare la parete bianca anziché le facce degli umani). Mio cognato si lamenta del fatto che da dieci anni non va in vacanza. "Potresti benissimo,- gli dico io- adesso che c’è la Muta". La Muta è una delle badanti della madre novantenne. " Si, ma…- obietta lui.- Chi bada alle badanti?" "D’accordo, ma ognuno ha diritto di vivere". Mio cognato scuote la testa. Ormai da tanti anni si è ingabbiato nella sua gabbia e non ha nessuna voglia di uscirne. Probabilmente nelle sue coordinate mentali gli ingabbiati sono quelli di fuori. Basta rovesciare la prospettiva. Ho sempre osservato con meraviglia quanto tempo gli umani dedichino a giustificare a se stessi le costruzioni e i vincoli della loro vita. Sarebbe più produttivo dire "Porca miseria, mi son ben incasinato" e cercare qualche rimedio, o perlomeno prenderne atto. Invece gli uomini spesso non vogliono vedere. In compenso le gabbie desiderano metterle agli altri. Tentano sempre di applicare un’etichetta, un nome, insomma chiudere gli altri in qualche gabbia mentale. Presuntuosamente credono di aver capito i loro pensieri e di poter concludere.
Qualche giorno fa, chiacchierando con un mio amico, ridevo proprio di questo "Ci conosciamo da una quindicina di anni, - mi diceva lui,- ma ancora non ti capisco" "E meno male- gli ho risposto, - sennò mi sistemeresti in una delle tue caselline, come fai con gli altri".
"Che caselline?" chiede lui.
Eh sì, la pigrizia umana vorrebbe semplificare tutto e trarre facili conclusioni. E invece tutto è molto più complicato. E i rapporti umani in definitiva, laddove si vogliano vivere davvero, sono più sfumati (e anche più divertenti).
Grignano. Grignano è il luogo d’elezione della mia anima. E’una baia che confina da una parte con il parco di Miramare e dall’altra si protende lungo la Costiera. In giugno c’è un’esplosione di rose rosse che tappezza le sue aiuole. È questa la stagione del rosso. Lo trovo nei petali delle rose, nella polpa delle ciliegie e delle fragole che porto con me al mare (e in eventuali scottature di persone poco prudenti).È il periodo in cui prendo sole sulla riva con il riflesso del mare. Il sole non è troppo caldo e non è ancora necessario ripararsi sotto gli alberi. Se dovessi scegliere un posto d’elezione per tutte le stagioni sarebbe questa baia. Anche d’inverno in qualche giornata tiepida vado a fare una minipasseggiata e mi sento già quasi in estate.
Credo che ritornerò in acqua. Stamattina sembrava gelida ma è migliorata. Nuoto un po’, poi raccolgo armi e bagagli e me ne vado. Passo vicino a ville splendide e godo della bellezza del paesaggio. Mentre annuso le rose e mi perdo nel rosso, penso che in fondo della bellezza siamo tutti partecipi. È una ricchezza di tutti. Tutti possiamo passeggiare nei bei viali del parco di Miramare anche se non siamo Massimiliano e Carlotta. È una ricchezza di cui non abbiamo il possesso ma l’uso. È tanto importante il possesso delle cose? L’uso è già una gran gioia. Mentre cammino mi domando se anche delle persone ci dovremmo forse accontentare dell’uso e non pretenderne il possesso. In fondo che cosa vogliamo possedere? Delle anime? Non si può possedere nulla in fondo (e soprattutto nessuno). Quando lo facciamo, come mia suocera con mio cognato, causiamo solo infelicità. Mentre mi infilo in machina con questa idea nella testa, mi viene in mente lo sguardo di mio cognato che ieri, nel parlare della vecchia madre, aveva gli occhi di una persona che ama. E allora un’altra idea inquietante mi attraversa la mente: la libertà, il bene, l’amore di solito non ci ritorna. Gli umani ahimé amano solo i loro carcerieri.


Neve a maggio

di Marina Torossi Tevini

Nevica. Larghi fiocchi scendono accanto alla nostra roulotte e si posano sull’erba del campeggio. Li guardo e penso che sono più di otto mesi che vedo la neve. Ha cominciato a nevicare prestissimo quest’anno, a ottobre. Ricordo il lago di Fusine con i colori dell’autunno e la neve. Poi un inverno lungo e innevato. Neve sciabilissima fino a marzo. In aprile una breve parentesi di quasi estate, poi una primavera inzaccherata di pioggia e mixata di profumi e ora, a maggio, quando gli umani desiderano il caldo e il sole, il mio consorte, non ancora appagato, propone di portare la roulotte al passo Monte Croce sopra la Val Pusteria, a quota 1600, e di lasciarla lì per i week end di maggio. La partenza è movimentata, direi da brivido. Le previsioni danno neve a quota 1300. Cerchiamo qualche meteorologo clemente, ma sono quasi tutti sullo sconfortato. Alla ricerca di dati incoraggianti guardiamo le webcamere, telefoniamo al campeggio, infine incrociamo i dati, incrociamo le dita e partiamo. Per fortuna incontriamo la neve solo nell’ultimo tratto, la salita al passo, ed è neve molle che non crea problemi. Arriviamo sani e salvi.
Per prima cosa la roulotte va trasformata da guscio vuoto a luogo di civile abitazione e io sono addetta a questo. Al consorte invece spettano gli esterni: l’approvvigionamento dell’acqua e la sistemazione del tendalino. Nel pomeriggio la neve cade fitta e io me ne sto sdraiata a leggere "I miei giorni a Bagdad" della Gruber. Leggo stupita che la Gruber faceva sessanta vasche al mattino nella piscina dell’albergo prima di lavorare…(ma a Bagdad non scarseggiava l’acqua?) Oopperbacco. Presa da un’incontenibile desiderio, propongo di andare nella piscina di San Candido. Giochi d’acqua idromassaggio cascate grotte illuminate: una specie di acquatico paradiso dove mi diletto per un’oretta mentre il consorte (che aborre piscine mare e tutto ciò che concerne l’acqua) va ad approvvigionarsi di salsicce e speck tirolese.
Il giorno successivo un sole splendido nel giro di mezz’ora dissolve le nubi e la neve comincia a sciogliersi, almeno nei tratti erbosi e vicino alla roulotte. Noi andiamo a fare una passeggiata in Val Fiscalina e a Sesto, dove abbiamo trascorso molte vacanze estive e invernali.
I "ti ricordi?" e i "Guarda guarda" si sprecano.
Alla sera iniziano i festeggiamenti del campeggio. Un’abbuffata che dura per quattro ore (che sciagura orrenda!) La taverna è piena zeppa, in prevalenza di tedeschi. Il proprietario del campeggio racconta i suoi progetti: una piscina coperta da aggiungere a quella esterna che, per ovvi motivi, non è usabile per gran parte dell’anno.
Questo campeggio l’abbiamo visto per così dire nascere. Una quindicina di anni fa c’era solo un grande bosco e dei dozzinali servizi (ma di notte c’era uno dei cieli stellati più belli che io abbia visto!) Adesso è diventato un megacampeggio con annesso Beauty-farm, ristorante fichissimo e servizi con gigantesche pietre di quarzo ametista all’ingresso.
Al mattino l’alimentazione forzata continua con una supercolazione che per fortuna, essendo a buffet, si svolge in tempi normali. Quando, chiusa la roulotte, ci accingiamo a partire si avvicina uno degli addetti al campeggio. "Già di partenza?" ci chiede. "Sì, ma ritorniamo il prossimo venerdì. Siamo di Trieste". "Ah Trieste!- fa lui - Lì sarà quasi estate". E mentre ci guarda vedo rimbalzare nei suoi occhi la domanda: "Cosa ci venite a fare qui a maggio? Al mare è molto meglio…" Gli sorrido. È una vecchia storia questa. Si sa, al mondo nessuno è contento.


La passione di un povero Cristo

di Paolo Paganetto

Innumerevoli talk-show. Articoli a non finire. Fiumi di parole nei bar e nei salotti più o meno liberi. Registi, attori, giornalisti, sociologi, filosofi, teologi, psicologi, e naturalmente politici. Non so se anche calciatori e veline. Non si parla d’altro, ma d’altronde siamo in periodo pasquale e tutto l’occidente cristiano è coinvolto. Ed è giusto cosÏ, visto il presunto scontro di civiltà (sorrisetto ironico) in atto... o di religioni? o di cos’altro? Buona parte degli ebrei si sentono colpevolizzati, altri tendono - politicamente - alla riconciliazione con i fratelli minori. Alcuni cristiani sono offesi dalla brutalità delle immagini – senza disdegnare però di guardare avidamente il video dei tre giapponesi con il coltello alla gola che passa decine di volte al giorno in televisione. Altri cristiani minimizzano ricorrendo alla fedeltà storica e alla prova non provata delle centoventi tracce di fustigazione riscontrate sulla Sindone - questa l’ho proprio sentita io. Alcuni si appropriano anche dell’invenzione dell’amore incondizionato, inteso come offerta anche della vita stessa per l’altro - È bene precisare visto che parliamo di passione. Affermazione, questa, suffragata dal fatto che nella letteratura precedente all’epoca di Cristo è totalmente assente questo concetto, facendo quindi propria, poiché la letteratura era per quei tempi ciò che la televisione è oggi per i nostri, la massima di Orson Welles: se una notizia non passa in radio o in televisione (non ricordo bene), allora non è accaduto nulla. Un po’ deboluccio, mi pare. Ma su un fatto sono tutti d’accordo: si tratta di un film profondamente “cristiano”, e a suffragio di questa incrollabile convinzione si porta l’indiscussa fede di Mel Gibson, appartenente alla Chiesa metodista. Ma ne siamo proprio certi?... che si tratti di un film profondamente cristiano, voglio dire. Se escludiamo le battute che fanno riferimento ai Vangeli, presenti in qualsiasi film sull’argomento e che quindi non costituiscono prova, l’unico messaggio veramente “cristiano” che ne vien fuori è solo quello relativo al concetto di “amore incondizionato”, concetto che, mi spiace per i fans di Orson Welles, non credo sia di proprietà esclusiva del cristianesimo. Per il resto è semplicemente la storia del martirio di un uomo, molto ben realizzata artisticamente, con spargimento di sangue e attese di scene raccapriccianti - come l’inchiodatura delle mani - portate al giusto (filmicamente) punto di tensione, adeguati alle libidini umane. Resta la storia di un uomo profondamente umano, con tutte le sue debolezze e la sua visionarietà, come profondamente umana risulta la figura di Maria: una pietà, la sua, che vediamo tutti i giorni in TV ricoprire col suo velo la figurina di un bimbo morto, palestinese, irakeno o africano che sia; anch’egli un bimbo banalmente, irrimediabilmente umano. Ho il sospetto - o forse la certezza - che Mel Gibson sia uno dei pochi cristiani “veri” esistenti al mondo e che, con questo film, abbia voluto ricondurre la Chiesa a riposare i piedi per terra, a discendere dalla sfera celeste in cui per secoli si è confinata, a tornare ad essere una religione per gli uomini e non solo per santi, asceti e i teologi. E’ forse un ammonimento il suo? un rimprovero? un’esortazione? o un messaggio ecumenico, rivolto a tutti, cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e chi più ne ha più ne metta? Forse, ha semplicemente voluto dire che, in fondo, chiunque muoia di morte violenta è un “povero cristo” nella stessa misura in cui lo sono la Madre e Magdala e Giacomo e i discepoli e i sadici fustigatori e i soldatacci romani - di cui siamo lontani nipoti, non dimentichiamolo - e gli Haipha e i Bar Abbas e i Pilato; tutti disperati ugualmente al compimento del supplizio. Nella giusta misura e al momento giusto. Un capolavoro. (Da Thesis - Attualità, cultura e arte)


Le invasioni Barbariche: un film generazionale?

di Elisa Pannini, Luca Gandolfi e Giorgio Maimone

Da: Luca.Gandolfi - Inviato: martedì 23 marzo 2004 12.37
Domenica Grazia ed io abbiamo preso la videocassetta del film "Le invasioni barbariche", propagandatomi da amici, parenti e recensori di varie testate come "la più graffiante satira anti-americana dell'anno". Non mi aspettavo illuminazioni progressiste degne di Rousseau e Marx e nemmeno la satira di Sterne, ma un certo umorismo intelligente come ne ho trovato in alcune recenti produzioni francofone sì. Ora... qualcuno mi deve spiegare queste tre cose:
1) Cosa c'è di satirico in un uomo che a cinquant'anni ne dimostra settanta e sta morendo di cancro? Grazia ha passato tutto il film piangendo, ricordandosi del suo povero padre, ed io ho passato tutto il film con le mani sui coglioni, ricordandomi della mia tosse che dura da un po’ di giorni.
2) Che cos'ha questo film di antiamericano?
3) Ma il titolo non c'entra niente con il film anche nell'originale, oppure in Quebec ha un'altro titolo?
Un abbraccio,
Luca


Giorgio

Probabilmente Luca, l'hai preso dal lato sbagliato. Io sono uno di quelli comunque convinti che i film vadano visti al cinema e non a casa, perché comunque sia, l'effetto è diverso e non collettivo, ma singolo. "Le invasioni barbariche" (il titolo ha senso perché si ricollega all'attentato dell'11 dicembre, paragonato al sacco di Roma. I "barbari", gli invasori che vengono dall'esterno, per la pri
ma volta sono entrati sul territorio dell'impero. E il precedente film di Denys Arcand si intitolava "Il declino dell'impero americano", altro collegamento col titolo attuale).
Io l'ho trovato non solo un bellissimo film, ma un film di grande impatto civile .E ho invitato i miei figli ad andarlo a vedere. Perché la morte non è un tema a cui bisogna sfuggire o nei confronti del quale l'arte debba chiudere gli occhi . Non lo ha mai fatto e ne ha tratto opere di assoluta pregnanza. In fin dei con ti cos'è questo nostro dibattersi disperato nelle gabbie della vita se non il tentativo di fare i conti con l'assoluto? Per valutare appieno il film non si può tra l'altro dimenticare che il cast è lo stesso del film precedente e anche le storie che si riannodano sono le stesse. Sul cinquantenne hai ragione: non ha 50 anni il protagonista (te lo dice un 50enne! :-)) ma in quanto a intelligenza, a
ironia, a sarcasmo, a spingerti a riflettere su quello che è e su quello che è stato, secondo me, quest'anno c'è stato poco altro allo stesso livello. Non solo, ma ti dirò che ci metterei la firma perché le chiacchiere tra me e i miei amici riuscissero spesso a essere così gradevolmente colte e pensosamente ironiche (ho invertito volutamente i due aggettivi consueti). Si soffre a vedere questo film, come si soffriva per la Stanza del figlio. Si sta male anche. Ma si assapora la possibilità che l'amicizia e l'amore, variamente distribuito tra famiglia e fuori, possano costituire un antidoto prezioso all'annullamento. O comunque un viatico migliore. So che non sarà servito a farti cambiare idea. Le reazioni sono individuali di fronte a qualsiasi forma d'arte. E a volte, quelle che irritano d
i più sono quelle che toccano di più. Volevo solo farti conoscere il mio "diverso" parere.
Giorgio

Luca

Sì, l'ho preso dal lato sbagliato, ma è il lato da cui me l'hanno porto. "La stanza del figlio" sapevo che non era il Nanni Moretti di "Aprile"... sapevo che l'argomento era dolorosissimo e sono andato a vederlo sapendo che avrei sofferto. Ma se uno mi dice "È un film divertentissimo e fortemente
antiamericano" io immagino una cosa sul genere "La seconda guerra civile americana".
Anche i miei genitori hanno amato questo film più o meno nei tuoi stessi termini (sono stati loro a consigliarmelo) e a questo punto mi sorge una domanda, se vuoi un po’ provocatoria... non è che "Le invasioni barbariche" è un film un po’ "troppo" generazionale?

Un abbraccio,
Luca

Giorgio

Assolutamente sì, Luca. È un film generazionale. E tra la mia e la tua generazione passano probabilmente più primavere che tra la mia e quella dei tuoi genitori :-))
Grosso modo, mutatis mutandis, il gruppo che si ritrova nel finale di questo film, in Italia sarebbe un gruppo di ex sessantottini. È chiaro che se il dolore prevale o diventa insopportabile, il sottile umorismo di fondo può dare addirittura fastidio. Non è un film facile, né per tutti. Quasi come il disco nuovo di Guccini: ci vuole la scritta "Guccini inside".

Elisa

Non credo, Luca. A me è piaciuto moltissimo: ho avuto la fortuna di vederlo (al cinema, particolare molto importante) senza aver visto o sentito nient'altro che lo scarno trailer che passava in tv. Posso dirti che mi è sembrato un film piacevole e doloroso al tempo stesso: non mi aspettavo niente e invece ho avuto moltissimo. Mi è sembrato ironico e pungente, ma allo stesso tempo dolce e malinconico... Non saprei comunque spiegarmi meglio di quanto già non sia stato fatto.

Aggiungo solo che la settimana scorsa, in un delizioso cinema di Pisa, che si chiama Arsenale (www.arsenalecinema.it), ho avuto l'occasione di vedere "Il declino dell'impero americano".Certo, mi ha fatto una ben strana impressione rivedere gli stessi personaggi, ringiovaniti di 20 anni: ho avuto modo di capire molte cose che vengono dette nel nuovo film, e di apprezzare la "crescita" del
regista. Considera, Luca, che in un film che si intitola "il declino dell'impero americano" si parla per due ore, i n i n t e r r o t t a m e n t e, di sesso. Viene ancora più spontaneo chiedersi "ma che c'entra il film con il titolo???". Fatto sta che sono uscita di lì con la voglia di rivedere tutti e due, il declino e le invasioni. Forse avevi aspettative troppo diverse e alte per poterle appagare: il giudizio più equo e il godimento maggiore si ha proprio da quei film (o libri) da cui non ci si aspetta niente, secondo me.


Vini del Collio

di Marina Tevini

TRIESTE - Abbiamo deciso di non andare in montagna questo week end, nonostante si possa ancora sciare. Pazienza. Ci consoliamo puntando sul Collio goriziano che non frequentiamo da parecchio tempo. Quanto? Ce lo domandiamo e, con meraviglia, appuriamo che sono passati più di vent’anni. Ammapete come passa il tempo! A San Floriamo venivamo prima di sposarci. Andavamo a mangiare un piatto di salsicce e a scolarci una bottiglia del Collio e parlavamo di come arredare la casa (e soprattutto con quali soldi, visto che il nostro budget era nullo).
Mi piacerebbe rivedere il castello, dico. Il castello è stato trasformato in Golf club Hotel (a dimostrazione che nulla rimane uguale nella vita). Vaghiamo un po’ per le colline coltivate a viti e affollate da giocatori di golf. ( Che idea! Per il golf non sarebbe meglio evitare il terreno in pendenza? I golfisti sudati rincorrono disperatamente le palline …) Arriviamo in una trattoria con molte c e molte pipette (siamo vicinissimi al confine) e scopriamo che è inserita negli itinerari gastronomici (e a buon diritto). Dal primo piatto, anzi già dal vino, capiamo di essere capitati proprio bene. Ottimi i primi, che svariano dai ghocchetti alle crespelle, i secondi: dall’agnello ai medaglioni di cervo con porcini, i contorni (tipici del nord-est : patate in tecia, spinaci e carciofi) e infine lo strudel con panna. All’uscita incontriamo un tale che si avvicina a mio marito dicendogli TEVINI con grande sorriso sulle labbra. Veniamo a sapere che erano compagni di università. Com’è mal ridotto! commenta mio marito e poi aggiunge: Non capita che vada mai da qualche parte senza incontrare qualcuno che conosco, Il consorte in effetti aveva trovato persone che lo conoscevano anche in Danimarca in Grecia in Olanda, E, dando prova di notevole socievolezza, conclude: Non si può mai stare in pace.
I prati sono tappezzati di primule gialle e il panorama sarebbe bellissimo se non fosse ovattato da una nebbia che smorza la realtà. Ci torneremo quando ripristineranno il colore, dico io. Ci dedichiamo alla ricerca di un’azienda agricola che venda vino sfuso, ma ormai tutti si sono fatti furbi e, come ci è già successo nelle zone di Dolegna Ramandolo e Cividale che frequentiamo spesso, vaghiamo e vaghiamo a damigiana asciutta. Sarebbe una vera sciagura andarsene da questi colli tappezzati di viti senza vino …Mi ricordo che mio padre andava sul Collio a comperare vino. Damigiane e damigiane. Anche una cinquantina di litri. Noi invece abbiamo solo una damigianetta di 5 litri. Ah figlia degenere, mi diceva sempre!
"Fioi ve lasserò tutto ma no vin!" diceva quando aveva più di ottant’anni. Invece non mi ha lasciato niente. Cose dell’altro mondo. Se morire è sempre chiudere una porta in faccia a chi resta, posso dire che mio padre me l’ha sbattuta sul naso. Gran figlio di puttana mio padre! Ci ho messo circa sette anni a metabolizzare l’affronto. Poi ho concluso che la vita è così: quelli che amiamo sono quelli che ci amano meno, quelli da cui vorremmo farci capire non capiscono. In compenso ci sono mille altre persone che, visto che non ci importa granché di loro, sono disposti ad amarci pazzamente e a seguirci pazienti. La vita è così. Bisogna tirare diritto.
Zigzagando per i colli arriviamo finalmente a una azienda che- bontà sua - ci riempie la damigianetta.

I giorni della merla a Treviso

di Marina Tevini

TREVISO - I giorni della merla. Freddissimi. Attraversando una stretta via, fiancheggiata da carpini, arriviamo a un’antica villa: Villa Carpenada appunto, nelle vicinanze di Belluno. In lontananza i monti ampiamente innevati. Di neve a dire il vero ce n'è parecchia anche nel parcheggio e sulla stradina in cui, dopo aver depositato armi e bagagli nella stanza, ci avventuriamo. Camminiamo nell’odore secco e allettante di legna bruciata, fiancheggiando dei casolari e guardando le montagne. In lontananza si vedono persino le Pale di San Martino.
Gli incontri culturali iniziano nel primo pomeriggio. Io presento il libro di un mio amico e lui presenta il mio (a che serve sennò l’amicizia?) :)) Poi si va tutti assieme a vedere una mostra che Belluno ha allestito, forse sognando (senza riuscirci) di rivaleggiare con Treviso. Richiamano nomi come Van Gogh, di cui peraltro compaiano solo tre quadri, e Monet, ma nell’insieme è un’esperienza altamente deludente. Manca un percorso, una qualche lettura e interpretazione, e manca anche un numero ragionevole di quadri significativi. Si salvano alcuni quadri di Signac e Bonnard che mi sorprendono piacevolmente.
Belluno però è una cittadina deliziosa e ha ben risolto il problema del traffico. Un megaparcheggio alla base della collina, e da lì tre tratte di scale mobili coperte che ci portano in un lampo alla base del campanile.

Il centro ha tantissimi portici e in una piazzetta è stato allestito un campo di pattinaggio. Quasi quasi…
Ritorniamo alla villa per cenare. Nella luce della sera - tra qualche fanale rosa- attraversiamo una fatiscente scaletta che conduce alla villa. Tutto ha il sapore del passato. Dai gradini in pietra, alle statue un po’ malconce del giardino, agli affreschi lungo le scale. È una villa del seicento sede vescovile. Le stanze ampie e comode hanno il solo, ma non irrilevante, difetto di essere molto fredde. Tirare fuori il mignolo la notte e riscomparire è tutt’uno. Sgradevolissimo per me che amo girare nuda per la stanza.
Al mattino passeggiamo lungo la strada che dalla villa sale, tra animali da cortile vari e casali. Si sente attorno un odore di legna bruciata e di camini: l’odore dell’inverno, diverso in montagna dall’odore che la settimana scorsa avevo sentito in un paesino vicino a Salvore, in Istria. Sarà un problema di tipo di legna o della presenza del mare. L’odore dei luoghi mi intriga sempre moltissimo. Ricordo di aver desiderato ritornare sull’altopiano di Asiago per risentire l’odore di inverno come l’avevo sentito in una domenica di tanti anni fa. Ma, si sa, niente rimane mai uguale, e io ho l’ho inseguito per paesi e paesi, senza riuscire a ritrovarlo.
Le conferenze, presentazioni di autori e di libri, e le mostre si succedono e noi traviamo il modo di sgattaiolarcene via. Una puntatina ad Asolo si impone. Ci godiamo un po’ di solitudine in mezzo ai colli asolani, necessaria dopo tante chiacchiere "Ma non ti sembra che siamo un po’ selvadighi?"osserva ridendo mio marito "Si sì selvadighi proprio!" E ridiamo. In effetti, sebbene io abbia bisogno di contatti umani e mi piaccia stare in mezzo alla gente, ho bisogno poi anche di rimuginare gli eventi standomene da sola o in compagnia di mio marito, il che è equivalente (non è una critica, anzi un apprezzamento nei suoi confronti)
Da Asolo portiamo con noi dei fagottini di funghi porcini (da fare al forno, ci dicono) che uniti alla torta di noci presa a Belluno si riconfermano due chicche gastronomiche di non poco valore.

Non riusciamo a resistere all’attrazione di Treviso e facciamo una piccola deviazione per vedere la mostra "L’oro e l’azzurro" la terza che vediamo nella Casa dei carraresi in tre anni.
Mostra bellissima che ci guida attraverso un percorso tematico(i paesaggi della Provenza e della costa azzurra) e presenta molte opere di altissimo livello. Ci sono interessanti divagazioni nel colore di Munch (quadri quasi incredibili che distano solo qualche anno dall’Urlo) ci sono paesaggi di Monet e poi colori e colori, alcuni autori che mi intrigano abbastanza (Rijsselberghe ad es). Ma soprattutto c’è Van Gogh...Van Gogh non è solo una moda. Se adesso siamo tutti lì a guardarlo incollati ai quadri e io continuo a leggere affascinata le lettere al fratello Theo, e talvolta davanti ai suoi quadri sono stata sul punto di piangere(non è un cattivo segno, io di solito piango davanti alla bellezza che mi affascina, e non so perché lo faccio) una ragione ci sarà.
I suoi limiti e i suoi entusiasmi. La sua anima ingenua e dura. Capace degli slanci più nobili e anche delle più autolesioniste assurdità. Il suo entusiasmo nel costruire un nido di artisti in Provenza, la sua gioia nell’aspettare Gauguin(gioia che si riflette anche nel quadro della stanza -esposto alla mostra-) il contrasto tra la sua natura di non colore (c’è sempre da stupirsi osservando il percorso pittorico dai primi agli ultimi quadri), il suo lavorare con accanimento sul colore, il suo dire "il fiacre che si trascina deve essere utile a persone che non conosce ..sentiamo la realtà del fatto che noi siamo poca cosa e che per essere un anello nella catena degli artisti paghiamo un prezzo duro di salute, di giovinezza ,di libertà, di cui non gioiamo non più del cavallo di fiacre che traina una carrozza di persone che vanno a gioire, loro, nella primavera"…
E ora tutti noi con il naso in su a guardare e riguardare questo arista meraviglioso che in solo 37 anni di passaggio in questo mondo (di cui solo sette dedicati interamente alla pittura) segnò delle vette insuperate. Uomo percorso - suo malgrado -dall’arte che, nel suo passaggio, con i soliti effetti devastanti, si servì di lui per scrivere un pezzo in più della storia del mondo


Marcello Dudovich: oltre il manifesto

di Marina Tevini

TRIESTE -- "Sono nato il primo giorno di primavera e c'era il sole sul letto",così scrive di sé Marcello Dudovich ricordando la sua nascita nel 1878 a Trieste. E in effetti il sole che inchioda al loro essere le figure è l'elemento dominante della sua opera : solari donne sempre eleganti e raffinate che dai loro abiti svolazzanti, dalle loro labbra sempre rosse, spesso arcuate attorno a una sigaretta, prorompono nella loro femminilità da cartelloni, bozzetti o dipinti.

Trieste nella cornice del Museo Revoltella offre in questo periodo ai visitatori la mostra Marcello Dudovich- Oltre il manifesto ( dal 18 dicembre al 30 aprile ore 10-19 chiuso il martedì) organizzata dalla Direttrice del Museo Maria Masau Dan e curata da Robero Curci.

Attraverso più di un centinaio di manifesti, innumerevoli bozzetti e quadri possiamo conoscere l'opera di un grande artista. Dudovich era un artista nato e dipingeva dappertutto ( racconta di aver persino utilizzato un lenzuolo): un atteggiamento che lo attraeva, una figura che passava, tutto diventava occasione per fissare l'attimo.

Dudovich fu innamorato per tutta la vita della figura umana, in particolare di quella femminile. In un secolo che rifiuterà platealmente il figurato Dudovich si impone in questo dichiarato omaggio amoroso alla figura della donna.

Respiriamo attraverso i tantissimi cartelloni commissionatigli dalla Rinascente( con cui ebbe un rapporto di collaborazione per più di quarant'anni ) oppure dai Grandi Magazzini di Napoli Mele oppure da Bugatti o dalle varie distillerie ( Strega, Stoch, Distillerie Pedroni ) un'aria di elegante raffinatezza e di seducente sensualità.

Le donne sdraiate su morbidi divani o in alcove, le donne che corrono nelle Bugatti (eco del mito dell'automobile di marca futurista) sono un sogno dipinto ( forte dietro questi cartelloni c'è la suggestione delle opere di Toulouse Lautrec).

Il successo di Dudovich iniziò a Bologna agli inizi del secolo. I bei cartelloni per la festa di primavera promossi dal comune ne sono un suggello. Da allora l'inquieto triestino poco più di ventenne colleziona successi e ottiene commissioni da diverse industrie, oltre a collaborare con il giornale satirico di Monaco Simplicissimus.

Dudovich ha immortalato l'atmosfera della belle epoche nei suoi miti e nelle sue fantasie.

Alla fine della prima guerra mondiale in un'atmosfera diversa e meno gioiosa la sua produzione non tradisce però la sua ispirazione più intima. Anche se lavora per la pubblicità produce dei veri e propri capolavori come La donna nella gomma Pirelli del 19 o il cartellone Il latte di magnesia che ci rappresenta una dolcissima scena familiare o le ballerine che si specchiano nelle ceramiche Smat (del 23). Ma anche la scimmietta, la mitica Pierette, della pubblicità dei cappelli Borsalino è un piccolo gioiello.

Il colore rosso spesso si impone nei cartelloni di Dudovich come nella bellissima donna con l'ombrello riprodotta sul biglietto d'ingresso.

Un'opera, la sua, inesauribile che si snoda lungo gran parte del secolo fino alla sua morte nel 1962. Nell'ultimo periodo della sua esistenza si dedica soprattutto alla pittura ma ci sono ancora dei veri e propri cartelloni- capolavoro come I due pigiami appesi a una falce di luna per la fiera del bianco della Rinascente o il fazzoletto lavato con Persil (dolcissimo nel suo biancore disarmante e annodato).

Ci rimane negli occhi l'immagine delle sue donne della bella epoque con i loro grandi cappelli, la loro figura quasi aggettante dai cartelloni, la loro femminile rassicurante presenza che ci fa sembrare banali certe ragazzine di oggi nel loro look aggressivo.