Acqua stagnante, dappertutto.
Galleggiavamo quasi sopra l’acqua. Il treno sembrava avere
una chiglia e solcare l’acqua invece di correre sopra un
tratto di palude. Il fumo che usciva dalla locomotiva a tratti
si mischiava alla nebbia greve di esalazioni, odorante stantio,
trasudando abbandono.
Un sole pallidissimo non riusciva a penetrare col suo soffio vitale
i fluidi morti, impregnati di gas gorgogliante senza soste dalle
viscere della terra, fuochi fatui e borborigmi d’inferi.
Un velo di umidità si formava incessantemente sui vetri
del finestrino, colando in gocce sporche di fuliggine che sembravano
sporcare ancor di più il mefitico paesaggio che ci circondava.
L’ansare della locomotiva, il brontolio stanco del vapore
che si sprigionava dagli ugelli incrostati di ruggine, facevano
temere che alla prima difficoltà, un pendio, una salita
un po’ più ripida, i polmoni di metallo consunti
dal tempo, potessero cedere di schianto lasciandoci nudi, a galleggiare
in un limbo dove non si distingueva più il cielo dalla
terra, il sotto dal sopra, l’oggi dal domani.
Nonostante il boccheggiare rumoroso delle caldaie a pressione,
riuscivo a distinguere il richiamo stridente di qualche uccello
di palude, cosa che mi parve invero strana, perché non
conoscevo nessuna creatura delle paludi che avesse voci così
stridule e potenti. Forse un intero stormo si era appollaiato
sopra il tetto del nostro scompartimento e approfittava dell’occasione
per procurarsi un passaggio verso altre zone di pesca senza spendere
proprie energie.
Un sorrisetto mi venne alle labbra al pensiero di molti uccelli
disposti ordinatamente in fila sopra le nostre teste, intenti
a scrutare l’orizzonte alla ricerca della pozza adatta nel
quale affondare i lunghi becchi.
In quel momento l’uomo di fronte, fino ad allora teso come
me nell’inutile sforzo di penetrare con lo sguardo l’aria
spessa, fece un lento movimento con gli occhi , girandoli verso
di me.
Le sue sclere erano innaturalmente giallastre, come se soffrisse
di qualche malattia di fegato, e anche il suo colorito non era
dei più sani. Un grigiore diffuso sulle guance e sulla
fronte, del tutto simile alla nebbia che ci circondava, tanto
che pensai che fosse egli stesso parte di essa, testimoniava,
credevo, la precarietà della sua salute. Il resto del viso
era coperto da una lunga barba nera, qua e là spruzzata
di rame, che gli dava un aspetto ben più vecchio di quanto
il resto del corpo, lungo e magro, non tradisse.
Nel suo sguardo lessi un barlume di interesse, subito però
fugato da chissà quale contrasto interno che pareva mortificargli
ogni accesso di vitalità. Ebbi l’impressione che
avesse paura, o timore di manifestare qualche interesse per alcunché,
come se la sua mente si fosse inaridita e il cuore fosse incapace
di battere per qualsiasi cosa che non fosse il semplice battere.
La lunga palandrana nera, il cilindro anch’esso nero e i
guanti di capretto che indossava anche mentre scriveva su un quaderno,
facevano di lui una macchia d’inchiostro a volte intonata
col colore plumbeo circostante, altre volte violentemente in contrasto
con i toni suffusi di luce proiettati dallo sfondo del vetro.
Ben presto l’uomo ritornò ai suoi appunti, senza
dire una parola.
Non aveva aperto bocca da quando era entrato nello scompartimento,
parecchie miglia prima, e credo non lo avrebbe fatto se il treno,
a un certo punto, non avesse avuto un brusco arresto.
Le valvole di sfiato degli stantuffi gemettero di un lamentoso
e prolungato sospiro e le ganasce afferrarono le ruote in un inesorabile
ed efficace abbraccio di metallo.
Il treno sobbalzò due o tre volte e poi si arrestò.
L’uomo sospirò. Depose il quaderno sulle ginocchia,
si tolse il cilindro e appoggiò la nuca alla consunta imbottitura
di velluto rosso del sedile.
Sospirò:- E’ lui.
Lo scrutai da sopra gli occhiali rotondi. – Mi scusi se
mi permetto – dissi. – Lui chi?
Stranamente mi parve che l’uomo non si aspettasse quella
domanda, eppure era naturale che mi avrebbe incuriosito un’affermazione
del genere. Forse non si era reso conto di aver parlato ad alta
voce, di aver espresso qualcosa che credeva di tenere per sé
e si era stupito che qualcuno potesse essere penetrato così,
da un momento all’altro, nel suo intimo.
In ogni caso, qualunque fosse il motivo della sua sorpresa, ormai
il dado era tratto ed egli dovette giudicare estremamente scortese
ignorare la domanda e risolvere tutto con una scrollata di spalle.
Perciò stavolta si voltò decisamente verso di me,
dandomi modo di osservare anche lo sguardo profondo e malinconico
delle iridi marroni. In quel corpo sembravano l’unica cosa
veramente viva .
- Permettete allora che mi presenti – disse. – Mi
chiamo Rodenbach.
Si sfilò il guanto destro e si protese in avanti, tendendomi
la mano. La strinsi. Era asciutta e fredda, e non presentava la
minima callosità. Era una di quelle mani da artista, pittore
forse, che non avevano mai sopportato altro che pesi molto leggeri.
La stretta era comunque cordiale, un po’ di più da
quanto ci si potesse attendere da una conoscenza casuale.
- Graf - dissi a mia volta. – Deduco che non sia la prima
volta che viaggiate su questo treno.
- No, in realtà è la seconda; e per la seconda volta
la locomotiva si arresta su questo tratto di palude.
Si lasciò ricadere sullo schienale, mormorando:- Temo che
dovrò rivederlo ancora. Ma già, voi vi starete chiedendo
chi…
- Non vorrei sembrarvi invadente o troppo curioso, signore. Se
credete che io sia stato indiscreto o se temete che la mia domanda
possa essere causa di affanni, allora vi prego di dimenticare
l’incidente. Io tornerò senz’altro al giornale
che stavo leggendo fino a poco fa, e non vi chiederò più
nulla.
- Le parole a volte escono di bocca fuori dalla nostra volontà
– replicò, - ma di questo non bisogna certo farne
colpa agli altri. La verità è che, nel mio intimo,
forse cercavo una persona alla quale rivelare una storia che ha
dell’incredibile.
Fuori si era fatto silenzio. Gli uccelli palustri, che fino a
poco prima si erano scambiati segnali e richiami, d’improvviso
tacevano, come se si fosse avvicinato uno spietato predatore ed
essi avessero cercato scampo sugli alberi più alti e lontani.
Perfino i sibili di vapore che avrebbero dovuto soffiare dai pistoni
in attesa di rimettersi in moto rimanevano inerti, in attesa di
chissà quale nuovo impulso vitale.
La nebbia era una coltre continua di spesso cotone.
L’uomo si torse nervosamente le mani e poi le affondò
fra le cosce, come per nasconderle.
- Sono passati più di cinque anni. All’epoca parte
di questa che ora è palude sorgeva dall’acquitrino,
lasciando scoperte ampie zone d’asciutto. E’ stata
colpa di alcuni lavori del Genio Militare sull’argine del
fiume ad avere innalzato il livello dell’acqua e causato
l’affondamento di esse. In quel tempo io e il mio amico
Wolfgang Moer abitavamo in una città a poche miglia da
qui. Lui faceva il pittore…
- Ah! – Esclamai. – Pittore?
- Sì, dipingeva. Io mi reputo invece un poeta, e tutti
e due venivamo da queste parti in cerca di ispirazione, lui per
le sue tele, io per i miei versi.
“L’acqua degli antichi canali è debole
e di mente così tetra, tra le città morte…
Acqua così dolente, al punto da sembrare mortale.
Perché così nuda e già così nulla?
E cos’ha,
preda della sua sonnolenza, dei suoi sogni inaciditi,
per ridursi così a uno specchio di brina traditore
dove la stessa luna fatica a vivere?”
Venivamo in questa palude preferibilmente nelle ore del pomeriggio,
in vicinanza del tramonto, e trascorrevamo qui anche una parte
della notte, a volte fino al mattino, a osservare i fuochi fatui
e a sentire i rumori del buio.
L’uomo sembrava ormai parlare
a se stesso.
- Un giorno, salendo su un piccolo colle, trovammo i ruderi di
un palazzo costruito là chissà da chi. Non vi era
nulla intorno che potesse giustificare una tale costruzione: non
un paesaggio allettante, non una fonte d’acqua salubre,
non una cava di materiale vicino che potesse far pensare a un
basso costo delle pietre e della manodopera. Rovesciate per terra
vi erano due alte colonne di marmo bianco, scanalate e montate
con perizia antica, mentre qui e là si intravedevano vecchi
pezzi di muro grondanti edera, mattoni, spezzoni di travi consunte.
Wolfgang fu certo di aver trovato il posto adatto per dipingere
ciò che aveva in mente, ossia la degradazione di tutte
le umane faccende, l’imputridirsi di ogni attività,
l’eterno incancrenirsi dell’opera dell’uomo.
Tutto diventava acqua morta.
Rodenbach si interruppe e scrutò fuori, protetto dal vetro,
nell’impossibile impresa di perforare la bruma.
- Il mio amico, come scoprii successivamente, aveva preso l’abitudine
di recarsi laggiù anche da solo, non attendendomi quando
ero occupato in altre faccende, e a poco a poco la sua sembrò
diventare una vera e propria ossessione. Trascorreva più
tempo in quelle rovine di quanto non ne trascorresse in città
con me o altri amici. A volte scompariva per giorni interi, altre
volte dava appuntamenti ai quali non si presentava e per i quali
non dava alcuna giustificazione. Ma il suo quadro non giungeva
mai a termine. A me sembrava che il paesaggio fosse completo e
che non vi fosse più nulla da aggiungere, ma lui asseriva
sempre che mancava un’ultima pennellata, un estremo sbuffo
di colore, una piccola sfumatura che ponesse il suggello all’opera.
Un giorno venne da me, in preda a una strana agitazione. Tirava
profonde boccate di fumo dalla pipa e sbuffava quasi come questa
locomotiva. Parlando si bilanciava su un piede e poi sull’altro,
mentre tutto il suo corpo fremeva di apprensione mal repressa.
Si tormentava coi denti il labbro inferiore e poi vi passava continuamente
la lingua sopra, in un gesto che non gli avevo mai visto fare
prima. Pensai anche che avesse cominciato a fare uso di laudano
o altre sostanze chimiche che gli avessero eccitato il cervello,
ma mi sbagliavo.
Una folata di vento improvviso investì il treno, facendo
ondeggiare lievemente i vagoni. Rodenbach ruotò la testa
verso l’alto, chiudendo gli occhi, come per annusare meglio,
senza l’impaccio della vista, l’aria stagnante ora
mossa dal vento.
- Lo sento – mormorò. Poi, aprendo di scatto gli
occhi:-Vi sto annoiando?
- Tutt’altro – risposi. – Continuate, vi prego.
- Wolfgang mi disse che finalmente aveva scoperto che cosa mancava
al suo quadro: mancavano le voci. Sì, è così,
mancavano le voci della palude, quelle di coloro che erano diventati
fango nel fango, liquidi che soltanto in apparenza non avevano
vita, acque che custodivano segreti immensi ed antichi. Mancavano
i sospiri di mille e mille persone che avevano vissuto in quella
casa, le vibrazioni dei loro fluidi biologici, sangue, urine,
sperma, sudore che erano fluiti nella palude e che avevano fecondato
il fango, gli insetti, i topi, le nutrie, gli uccelli. Il suo
quadro non aveva questi suoni e fin quando non l’avesse
avuti non si poteva dire che fosse completo. Non sapevo se protestare
o assecondarlo, se tentare di dissuaderlo da quello che mi sembrava
un parto folle della sua mente o se lasciar correre e sperare
che rinsavisse dal suo proposito bislacco. Mentre ancora ero indeciso
sul da farsi, lui strizzò un occhio e mi disse: <<
Vieni a sentire>>.
Mi accorsi che era molto tempo che non andavo con lui nella palude,
anzi si può dire che avevo come la sensazione di un qualcosa
che, a un certo punto, avesse stabilito di tenermi lontano da
lì, non sapevo per quale ragione. Una sensazione di pericolo,
forse, e certamente di disagio, silente, non udibile dalla volontà,
ma certamente presente nelle sua impalpabile ma massiccia leggerezza.
Volevo quindi protestare, ma a Wolfgang era impossibile negarsi
quando aveva preso una decisione. Mi prese sottobraccio e quasi
mi condusse di peso per strada, fino alla stalla dove tenevamo
i cavalli. Partimmo di gran carriera. Non lo avevo mai visto prima
di allora frustare in quel modo la sua bestia. Non era cattivo
nei colpi, ma frenetico, come se ogni istante e ogni miglio che
lo separasse dalla meta fosse per lui un insopportabile intermezzo
di inutilità in una missione peraltro imprescindibile e
urgentissima. Più cercavo di parlargli e consigliargli
di andare a passo lento invece che al galoppo e più lui
accelerava l’andatura. Non mi restò che corrergli
dietro e stargli vicino, perché un senso di paura aveva
cominciato a opprimermi il petto. Avevo il timore che anche la
sua personalità, intossicata dai miasmi mefitici dell’acqua
immota, avesse iniziato a sgretolarsi e marcire come un’esile
pianta strappata dalle radici e abbandonata al ribollire dei gas
e all’aggressione della muffa.
Una nebbia fitta era intanto scesa nella palude e io desideravo
che finalmente si arrestasse la nostra corsa, perché temevo
di precipitare dentro un fosso o una scolina; ma lui accelerava
ancora, non curandosi di nulla. Sembrava che in tutto quel periodo
di frequentazione avesse acquistato la facoltà di una vista
supplementare, che gli consentiva di giungere dove occhi comuni
non giungevano, e un nuovo e più potente senso di orientamento,
simile a quello degli uccelli migratori che vedevamo passare a
frotte da quelle parti.
Non so come riuscii a stargli dietro e a giungere al piccolo rialzo
di terreno, dove ci fermammo in prossimità delle colonne
cadute.
Wolfgang legò il suo cavallo a un arbusto. Io lo imitai.
Ormai si era fatto buio fitto e la nebbia, che sentivamo sulla
nostra pelle invece che vederla, era una cappa più spessa
del solito. Ovattava i rumori e i suoni, gli sciabordii giungevano
sommessi e i richiami degli animali notturni lontani, estranei,
lunari. Sì, da qualche parte era d’improvviso sorta
la luna, ma non riuscivo a vederla. La immaginavo piuttosto, e
in qualche modo quel pensiero mi rassicurava un po’.
<< Ascolta>>, disse Wolfgang. Tesi le orecchie; anzi,
si può dire tesi tutto il mio essere affinché non
perdesse un frammento di realtà, un brandello di suono,
un alito di vento umido e rarefatto. Nulla, non udivo nulla oltre
i soliti rumori.
Il mio amico, invece, sembrava stesse ascoltando il più
bel concerto mai scritto nell’universo. Immaginavo, più
che vedere, che avesse gli occhi chiusi, il busto eretto e il
capo lievemente gettato all’indietro, e che stesse dondolando,
seguendo note a lui soltanto note e armonie mute ad orecchie non
esercitate. Forse è proprio questo ciò che fanno
i musicisti quando immaginano un pezzo d’opera, una suonata
d’archi, un pizzicare di corde. Rimasi in attesa non so
per quanto tempo, immobile, temendo in qualche modo di disturbare
la melodia che assaporava e non pensando ad altro che a ripararmi
dall’umidità, infagottandomi ancor di più
nel cappotto. Non so quanto tempo trascorse prima che lui si riscuotesse
e mi toccasse un braccio.
<< Ci sei?>>, mi domandò.
Io c’ero, ma avevo il bruciante presentimento che fosse
toccato a lui perdersi.
Rodenbach si arrestò,
inseguendo pensieri remoti ma non fiaccati dal tempo. Percepivo
un’intensa malinconia trasparire dalle sue parole e intuivo
che il dramma del suo amico non si fosse esaurito nel rincorrere
le impossibili sonorità di una tela.
Un nuovo rumore si era aggiunto ai sibili che il vento evocava
scivolando sui vagoni, sulle ruote, sui respingenti e i cavi del
treno. Un tonfo sordo e cadenzato, come una serie di passi sul
tetto del nostro scompartimento. I rumori di sopra, lenti e attutiti
dal metallo, andavano e venivano, con estrema lentezza, come se
chi o cosa li provocasse non fosse del tutto sicuro del proprio
equilibrio. Forse si trattava di gru che erano ritornate a occupare
quella posizione privilegiata, oppure di altri animali palustri
che, spinti dalla curiosità o dalla fame, si aggiravano
dove sentivano calore o annusavano il cibo.
Rodenbach continuava a tenere gli occhi chiusi, come se fosse
in ansiosa attesa di qualcosa che non poteva essere percepito
con la vista ma che non era muto agli altri sensi, così
massimamente all’erta. Caracollava la testa da un lato all’altro,
seguendo quei rumori misteriosi e di tanto in tanto annuiva, seguendo
chissà quale remoto filo di pensieri.
Io rimasi immobile al mio posto, respirando piano, avendo timore
che perfino il rumore del mio fiato potesse essere di disturbo.
Rodenbach forse stava componendo, in quel preciso momento, qualche
altra sua poesia e non volevo essere io a spezzare quel magico
incanto che a volte prende l’artista e che si tramuta, ipso
facto, in opera d’arte se lasciato esprimersi pienamente.
Il mio compagno di viaggio parve riscuotersi. Abbozzò un
sorriso di scusa e riprese:
- Wolfgang era sempre più lontano, più estraneo.
Se prima di quella sera qualche volta mi cercava, da allora non
lo fece più. Ogni tanto lo vedevo passare sotto casa mia,
smagrito, sciatto nel vestire e coi capelli in disordine, lui
che era stato sempre molto attento alla sua persona e che non
sarebbe mai uscito per strada se non accuratamente sbarbato. A
volte aveva il suo quadro sotto braccio, altre volte no: una tela
che non aveva mai la dignità della firma finale. Quelle
volte che mi risolvevo ad andare a fargli visita, o non lo trovavo
a casa oppure faceva finta di non esserci e non apriva l’uscio.
Finché un giorno non conclusi che dovevo farlo vedere da
un medico. Convinsi il dottor Heinrich a seguirmi a casa di lui
ed ero fermamente intenzionato a non andare via e rinunciare anche
se Wolfgang avesse protestato e dato di testa. Ma non ce ne fu
bisogno perché lui a casa non c’era, come potei vedere
una volta forzata la serratura della porta. Dentro regnava un
disordine inverosimile e un odore di chiuso e di stantio, che
mi ricordò quello della palude. I miei occhi corsero immediatamente
al cavalletto che teneva vicino alla finestra. Il quadro era stato
ridotto quasi a brandelli. Lunghe fenditure impresse da un coltello
tagliente avevano ridotto la tela a una serie di strisce colorate
che pendevano inerti dalla cornice. Ero certo che si trattasse
del quadro oggetto della sua ossessione ma, avvicinandomi meglio,
potei vedere che non si trattava di quello, bensì di un
autoritratto dipinto con colori tetri e per nulla naturali. Allora
la mia preoccupazione aumentò fortemente, perché
percepii in quell’atto un messaggio di annichilamento, di
auto-distruzione, e dentro di me cominciai a sentire un impulso
a correre, fare presto, perché sentivo il terreno franarmi
sotto i piedi e il tempo scorrere via portando con sé ciò
che rimaneva del mio povero amico. Passai di corsa davanti a un
inebetito dottor Heinrich e inforcai la mia cavalcatura, non ponendo
esitazioni in mezzo e non risparmiando colpi di frustino. Era
l’imbrunire quando raggiunsi le rovine. Il suo cavallo era
lì, libero da pastoie, che pascolava tranquillo. Mi aggirai
tra le rovine in preda a un’agitazione crescente, frugando
ogni anfratto con gli occhi, chiamandolo a gran voce. Inutilmente.
Infine mi accasciai, la schiena a una colonna, mentre fiotti di
sudore gelato mi scendevano dal collo dentro la camicia, inzuppando
perfino i pantaloni e le scarpe. Cercavo di riprendere fiato…
quando lo udii. Dapprima lontano, remoto, una voce portata dalle
ali del vento; poi un po’ più forte. Saltai di nuovo
in piedi e mi inoltrai in una macchia di canne che delimitavano
un angolo di acquitrino. La scostai con una furia tale da scorticarmi
le mani. Lui era dentro l’acqua, fino alla gola, lontanissimo
da me. Teneva il quadro con le due mani sopra la testa, e cantava.
Cantava a voce alta una nenia che non conoscevo, o che forse non
riuscivo a riconoscere a causa della distanza e del vento che
spingeva verso di me soltanto spezzoni di strofe. Urlai con quanto
fiato avevo in corpo, scongiurandolo di fermarsi, di attendermi
ché presto sarei andato a prenderlo e lo avrei riportato
a riva. Gli dissi che avevo scoperto una locanda dove avevano
del meraviglioso vino cotto, che avevo composto un’ode in
suo onore, che una signora bellissima mi aveva insistentemente
chiesto di lui. Fu inutile. Non mi udiva. E dopo poco non lo udii
più neppure io. Vidi scomparire sott’acqua prima
la sua testa, poi le sue mani, infine il quadro.
Rodenbach tacque e rimase immobile, come se ascoltasse l’eco
delle sue stesse parole che vibravano ancora nello scompartimento.
Il mio compagno di viaggio si era definito un aspirante poeta
e tale lo era veramente, almeno per quel che riguardava l’abilità
nel maneggiare le parole, le pause, l’inflessione della
voce. Forse il suo era nient’altro che un esercizio di stile,
scaturitogli dentro dalla situazione contingente che l’aveva
ispirato. Chi può sapere che cosa passa nella mente di
un poeta?
Forte dello scetticismo che non mi aveva mai abbandonato in ogni
occasione della vita, e intimamente convinto della superiorità
psicologica del dubitare, mi limitai a commentare con un laconico:-
Una storia interessante di follia.
Ma Rodenbach fece un gesto nervoso con la mano, dicendo:- Tacete…
ascoltate.
Tesi l’orecchio sul nulla. Oltre al sibilo del vento non
sentivo più niente. I tonfi sul tetto erano scomparsi,
nessun rumore vivo disturbava la quiete del treno che sembrava
sospeso sul vuoto.
Stavo per scuotere la testa e ritornare al mio giornale, quando
sentii un gorgoglio lontano, sulle prime appena percettibile.
Era come se innumerevoli bollicine di gas avessero deciso di librarsi
in aria tutte nello stesso momento, e subito altre e altre ancora
ne avessero preso il posto per perpetuare il ciclo. Le sentivo
crepitare come foglie secche sotto uno stivale, ma il loro non
era un rumore fastidioso, bensì una successione di suoni
ordinati in frequenze di alti e bassi, come se una mano sapiente
dalle dita infinite le spingesse delicatamente ad una ad una e
le facesse esplodere a pelo d’acqua in minuscole note musicali.
Non sapevo cosa stesse ascoltando Rodenbach in quell’istante,
ma indubbiamente qualcosa di inconsueto giungeva anche alle sue
orecchie. Ondeggiava con tutto il corpo avanti e indietro, inseguendo
chissà quali misteriosi percorsi acustici.
Avevo bisogno della mia pipa, in quel momento, e del mio buon
tabacco Minerville, ma l’avevo dimenticati a casa e non
mi restò che immaginarne l’aroma.
L’odore della palude, che fino a poco tempo prima aveva
oppresso lo scompartimento, non era più lo stesso. L’aria
sembrava più leggera e fragrante, satura di odori che ricordavano
le pagode della Birmania, i fumi dei bracieri d’incenso
o i grani di mirra. Era come se ogni effluvio avesse una propria
scia particolare, caratteristica e distinguibile dalle altre,
ma facente parte di un tutto armonico. Sembravano… pennellate
di odori.
Intanto altri suoni si erano aggiunti al concerto dell’acqua.
Non sapevo che le paludi da quelle parti ospitassero grilli, eppure
dovevano esservene a migliaia, se tutti insieme avevano deciso
di sfregare le loro zampette all’unisono, con un pizzicare
leggero di piccole corde d’arpa.
E gli uccelli, gli insetti, le carpe del fondo melmoso; e gli
uomini e le donne persi dentro sabbie mobili o risucchiati da
infidi flutti, tutti univano le voci al coro sommesso degli acquitrini.
Ebbi la sensazione che il treno si stesse staccando dai binari
e veleggiasse in un plumbeo limbo, come il veliero fantasma di
un corsaro schiantatosi a Capo di Buona Speranza. Mi sentivo leggero
anch’io. I movimenti delle braccia e delle gambe erano rallentati,
impacciati, come se fossi stato immerso nell’acqua fino
al collo. Ma gli occhi sembravano aver acquistato facoltà
fino ad allora negate. La nebbia scomparve e potei vedere finalmente
il paesaggio di fuori.
Il pianoro più volte nominato da Rodenbach era a pochi
passi da noi. Vedevo molto bene i muri soffocati dall’edera
e da ciuffi di erba che vi avevano posto radici ed erano cresciuti
rigogliosi; vedevo le colonne di marmo bianco, spezzate e abbandonate;
le cime confuse del canneto. Un cavallo brucava tranquillo l’erba
fresca e umida, dondolando pigramente la coda.
Poi vidi due mani tenere i bordi della scena, e piano piano allontanarsi
da noi, mentre attorno alla cornice si addensava di nuovo la nebbia.
E oltre le mani, le braccia; e oltre le braccia un uomo che teneva
alto il quadro sopra la sua testa grondante piccoli rivoli d’acqua
dai lunghi capelli.
Le canne si agitavano al vento. Il cavallo aveva di colpo rialzato
la testa, come se un rumore lo avesse incuriosito e allarmato,
ma poi, rassicurato, era tornato a pasteggiare tranquillo.
E più il quadro si allontanava più diventava un
punto di luce e colore, stagliandosi netto contro lo sfondo opaco
dell’aria umida e densa, mentre l’uomo diventava nebbia
nella nebbia.
Distante udivo una voce cantare in una lingua che non capivo,
trasportata a sprazzi dal vento.
Poi anche la voce divenne un gorgoglio nel ribollire dei suoni,
nota di un concerto accorato, vibrazione unisona alle altre.
Il cavallo, laggiù, alzò la testa al cielo e lanciò
un ultimo, sommesso nitrito, prima di essere accolto nel grembo
dell’acqua stagnante.
Mi addossai al sedile, aspirando a pieni polmoni boccate di aria
pesante che non si decideva a scendere in gola.
Davanti a noi un fischio poderoso risuonò, lacerando le
coltre fittissima.
Sbuffi di vapore, sospinti con forza nei pistoni, urlarono la
loro potenza.
E il treno tornò a muoversi ancora.