Il
Sole - Archivi
"L'originale
miscellanea di Schott"
di Matisse (e altri)
(Pssst)
(arancia) (te la do io l'indicazione per-fet-ta per il libro da
regalare a natale) ("l'originale miscellanea di schott) (ben
schott) (edizioni sonzogno) (shhhht)
matisse
Arancia,
non ascolterai Matisse, spero?
:-))) Devo confessare di non aver mai nemmeno sentito nominare
Ben Schott. Mi documenterò Matisse!
Giorgio
BEN
SCHOTT ventottenne londinese, è un fotografo, un designer
e un fanatico collezionista di notizie di varia umanità.
L'idea della Miscellanea è nata per caso: volendo mandare
dei biglietti d'auguri natalizi un po' più originali ha
cominciato a impaginare artigianalmente un piccolo libretto con
informazioni curiose. Inutile dire che si è fatto prendere
la mano, e - 160 pagine e 2.000.000 di copie dopo - oggi può
confessare a cuor leggero di aver definitivamente vinto la sua
ancestrale paura di morire in miseria.
http://miscellanea.rcslibri.corriere.it/autore.htm
"Leggerlo
tutto in una volta è impossibile, eppure non si riesce
a staccarsene. L'Originale Miscellanea di Schott è una
straordinaria raccolta di fantastici trivia. Quale altro libro
può vantare un indice che comprenda lunghezza delle stringhe
e linguaggio dei segni, i sette peccati capitali, regole dei duelli
e nani, dimensioni delle uova, risultati elettorali, le figure
della Smorfia napoletana e i film di Fantozzi? In quale altro
libro si possono trovare, racchiusi nella medesima pagina, la
nomenclatura golfistica, una storia della tassa sui cappelli,
i nomi collettivi, la linea di successione inglese e la bandiera
del Guadalupa? In quale altro libro se non ne L'Originale Miscellanea
di Schott, ci si può imbattere nel gatto di John Lennon,
nel fornitore di cornamuse della Regina, nelle dodici fatiche
di Ercole e nei brutali metodi di omicidio scoperti da Miss Marple?
Un
libro senza eguali. Attenzione: L'Originale Miscellanea di Schott
è divertente, imprevedibile, e può indurre dipendenza".
http://rcslibri.corriere.it/sonzogno/popup/novembre04/4541199.htm
Uhmph,
credo di aver capito il genere di Ben Schott. Paccottiglia intellettualoide
con giochi di parole? Grazie, preferisco le solide e belle trame
di una volta. Regala, Arancia, un bell'intramontabile come "L'uomo
senza qualità" di Musil. E' un libro obbligatorio.
E così legato all'oggi. O sei vuoi per forza correre sul
moderno "Una notte al Club" di Christian Gailly. Jazz,
ombre e amore.
Giorgio-che-non-segue-mai-i-consigli-di-Matisse
Paccottaglia
intellettualoide con giochi di parole? Una sorta di Perec contemporaneo?
Interessante :) Interessante vedere che i giudizi sui libri, come
la pioggia, cadano gratuitamente :) Non è nulla di tutto
questo, Arancia (non è nulla di tutto questo, e peccato,
Giorgio). Il libro di Schott racchiude innumerevoli raccolte di
notizie, compilazioni, infomazioni utili o non utili: come fare
un nodo a
farfalla, tutti i film di bond, tutti gli animali in adozione
allo zoo di Londra, il nome di tutte le sinfonie di Haydn, le
ultime parole di alcuni scrittori prima di morire, l'elenco degli
uomini di lettere mancini, gli stili nell'arte, la misura delle
uova ecc. ecc., il tutto riportato senza alcun gioco di parole,
semplicemente. Ci sono, in questo libro, una di seguito all'altra,
tante di quelle cose che son come ciliegie e non riesci a smettere
di cibartene, non riesci a chiudere il volume perché la
curiosità del sapere diventa più grande di quella
cosa curiosa che è il descrivere un libro senza averlo
prima letto :-P Però, la mammma... dicevi. Allora non so,
per la mamma, non so è curiosa,
intendo, se lo è, è perfetto. Se invece predilige
dei noirs/gialli intelligenti, accattivanti, istruttivi, allora
c'è Fred Vergas: Io sono il tenebroso, Chi è morto
alzi la mano, Parti in fretta e non tornare. Una trilogia che
non credo possa non amare.
Matisse
Appunto
:-))
E l'utilità? E cosa ti ha dato sapere fare un nodo a farfalla?
O gli animali in adozione? Per carità. Non è quello
che intendo con letteratura.
Giorgio
Per
lo stesso motivo per cui, incontrandoti per caso, ti chiederei:
ma tu,
lo sai fare un nodo a una farfalla? Ma tu, lo sai quanti criceti
vivono
nello zoo di Londra?
Se non hai interesse a queste piccole cose, quando mai potrai
ritrovarti
bambino? E quando mai potrei, incontrandoti, giocare con te?
Mat
Si
gioca e basta, per l'appunto. Ma il gioco può essere fine
a se stesso. Se non hai interesse alle grandi cose (vivere, ad
esempio) come fai ad avere voglia di parlare con qualcuno? A sceglierti
qualcuno con cui parlando potrebbero saltare fuori "anche"
le piccole cose? Solo di piccole cose non si vive.
Giorgio
Ti sembro agonizzante?
Mat
Claudio
Lolli: "Rumore rosa"
Poesia con intermittenze (del cuore)
di Giorgio
Maimone
Rumore
rosa – si chiama
E’ proprio come il sogno di una cosa
Che non hai.
“Rumore
rosa” si chiama anche questo libro di Claudio Lolli. Un
libro di poesie. Accompagnato da un disco, 18’ e 23 secondi
di poesie lette da Lolli e suonate da Paolo Capodacqua. E diciamo
subito, forse perché è Lolli, il disco convince
più del libro. Eppure le poesie sono le stesse. Ma la voce
di Claudio, le sue pause, le sue inflessioni danno loro uno spessore
tridimensionale che altrimenti, sulla pagina, a volte si smarrisce.
E allora, dopo una prima lettura piatta, da carta stampata, occorre
fare una seconda lettura, a voce alta. D’altra parte in
un libro intitolato al “rumore”, per quanto rosa,
pensare di escludere l’audio è un errore evidente.
Le
poesie di Claudio sono poliedri solidi. Non hanno quindi strettamente
bisogno della musica (sempre) anche se con la musica ci guadagnano
(spesso). Il pregio, in questo caso, è la sensibilità
con cui Paolo Capodacqua lo accompagna. Le poesie di Claudio,
quelle riuscite e quelle meno riuscite, hanno bisogno dello spessore
della voce che le accompagni, in un lento fluire sospeso in cui
incontrino la loro vera dimensione “Corpo e tempo, corpo
e tempo” come ripete in una di queste “figlie”
spurie. Sempre ammesso che le canzoni siano “figlie”
legittime e non un prodotto dello stesso corpo creativo, solo
sotto forma diversa.
D'altra
parte è da tempo che Claudio ha abbandonato, per alcune
canzoni, la forma cantata, scegliendo la versione "recital":
"Adriatico" e "Curva Sud" sono due degli esempi
più belli in questo senso. E il cd allegato al libro ripercorre
un po' climi e atmosfere già assaporate dal duo Paolo/Claudio.
Un percorso che si segue con grande piacere.
Così
come fa piacere frugare tra le poesie dedicate agli amici e trovare
versi come questi: "Mi spiace il tuo precoce incanutire /
e quel rigonfiamento a mezzo corpo / come se il mondo dovesse
già finire /... / cercando quella pace che non c'è
/ per uno che ha dita rotte come te" e pensare che possano
essere versi dedicati al sodale Paolo Capodacqua che si rompe
le dita a furia di perdersi tra "la seta delle tue chitarre".
Oppure altri vesi come questi: "Vecchia stella polare m'hai
guidato / con la locomotiva dell'ingegno / ... / e corre e corre
la malinconia / insieme all'orgoglio / d'aver riempito insieme
qualche foglio / che forse non sarà gettato via" e
pensare che l'amico numero 8 sia Francesco Guccini (questa sembra
facile). Altri amici sono più difficili e cifrati (a proposito,
complimenti per essere riuscito ad arrivare a 12 amici! Io non
ce la farei). Chi sarà il personaggio a cui scrive "e
poi ci assomigliamo / (lo dicono i giornali) / anche se, è
vero, ci separa il velo / della mia cialtronaggine puttana"?
Qualcuno
di famoso, se ne parlano i giornali. Qualcuno che pure un po'
gli rassomiglia, qualcuno che ha "un registro (di voce -
ndr) tra il bambino e il cielo". Erri De Luca? Gianni D'Elia?
Comunque sia un poeta a cui si può dire "Mi sembra
tutto vero quasi santo / in quel tuo canto che non rinuncia al
pensiero / nel tuo pensiero / che non rinuncia al canto".
E ci resta la curiosità di sapere chi è B. oppure
V. o ancora F. oppure Sasà e Vincent. Mentre Tas ("Stefano
se tu sapessi quanto / mi ha dato la tua vita e la disarmonia/
che, col gioco di prestigio del'incanto / e la magia delle parole
/ che ti ostini a pronunciare / in questo porto misero di mare
/ come se il mondo fosse nei tuoi libri, / cerchi di allontanare")
dovrebbe essere Stefano Tassinari, scrittore e figura centrale
della cultura bolognese.
Mancano
un po' le donne, intese come amiche, ma c'è un ritratto
dolcissimo della moglie ("Potessi custodire la tua vita /
(lo faccio da trent'anni) / ed evitarti questi spaesamenti / di
impegni, orari, di lavori / affanni/ ... / Siamo ingombranti al
mondo/ noi fragili carezze di cristallo / non c'è futuro
per nessuno quindi / vorrei invitarti ancora / a un altro ballo").
Così come impregnata di una tenerezza assoluta è
la poesia dedicata ai due figli: "Il bruno i biondo / l'Ettore
e l'Achille /... / E se avessero un senso le parole / quelle parole
ormai spezzate e rotte / Svegliatevi domani, e buonanotte".
Molti
sono i momenti intensi, gli squarci di cielo che Lolli riesce
ad aprirci ("L'esistenza di dio, o la sua assenza,/ non mi
è remota /abbiamo appuntamento tutti i giorni / ora di
pranzo, lui si materializza / si transustanzia in un / campari
soda"), anche se l'ansia del capolavoro sfugge tra queste
cento pagine scarse (ogni due pagine, una foto. Il curatore del
volume, Enzo Eric Toccaceli, è soprattutto fotografo) in
immagini strappate da fogli d'appunti improvvisati ("Sarebbe
così facile scambiarsi una carezza / quella promessa che
nessuno manterrà / Accendersi nel vuoto di un momento /
Con la ridicola certezza / Che l'amore è solo corpo / corpo
e tempo").
Dove
il discorso non mi quaglia è quando sembra che Lolli "voglia"
scrivere poesia. I momenti ossia in cui cede all'uso delle "parole
poetiche" come "frale", "atra" (e "atro",
triplo uso). Anche se su "frale" ironizza lui stesso
in una poesia di poche pagine dopo: "E mi colpiva l'aggettivo
"frale" / che non si trova nei versi di John Lennon".
Ancora qualche dubbio mi lasciano le frequenti inversioni ritmiche
("Gli occhi tuoi verso l'alto fissi a un cielo", "stanno
per fare del loro amore corona", "da te composti nelle
notti insonni", "man mano che la scienza in noi si allarga",
"verso quel chiosco verde di gelati / correre insieme").
Un po' troppo "poetese", insomma, come mostra anche
la ricerca sempre presente della rima, pur mascherata nei versi
sciolti. L'impressione è che il cantautore Lolli non li
avrebbe mai messi in una sua canzone o, almeno, ne avrebbe fatto
un uso un po' più accorto.
Affascinante
invece torna ad essere la persistenza del rumore rosa, che attraversa
trasversalmente tutte le poesie del libro, a partire dalla terza,
dove appare, fino alla penultima in cui, all'alba, "mi sembra
che ci sia silenzio / finalmente, alle pareti". Trentanove
poesie cosparse di rumore, per quanto rosa (il pink noise che
esce dalle casse acustiche). E una quarantesima, silenziosa, che
riepiloga e spiega le precedenti: "Dovevo licenziare trentanove/
lettere dedicate al fronte interno / Trentanove parole a visi
e affetti / perduti o permanenti / Vivi comunque nella fretta
amara / del dunque. / C'è una lettera in più / E
a chi mandarla? / Frose a chi mi ha costretto ed aiutato / a ricalcare
la mappa organizzata / del mio magico inferno".
Ma
le righe passano e si affastellanno le parole (più sue
che mie) e ancora non ho spiegato di questo libro cosa mi piace
e se mi piace. Mi piace. E mi piace particolarmente rileggerlo
e dal grande mare dell'affresco del "magico inferno lolliano"
mi garba stare a estirpare perle dal fondo o cogliere le more
nascoste che affiorano improvvise tra i cespugli delle frasi.
Frammenti di discorso: "è l'alba che mi stringe un
po' la gola / (lo sai piango per niente)", "elogio alla
mitezza, amore mio / che forse è insufficiente /a rintracciare
brave baby sitter", "Forse mi fa paura / il tuo sguardo
affettuoso che mi fruga", "un corpo che si annega nella
sua stessa voce", "Fare l'amore noi, da pari a pari
/ e questo è il mio bisogno orizzontale", "E
poi mi sfiora, come una carezza, / la tua bellezza che non trova
pace", "Lo sai o non lo sai, nè mai ci crederai
/ chi hai sputato alla vita dal profondo / Piccolo artista senza
documenti", "Lo spiedo capriccioso del dolore",
"E noi che amiamo tanto la ferita", "leccati questa
morte / che è compagna della mia solitudine / borghese",
"E' tutto chiaro, manca solo il mondo", "cucciolo
da battaglia senza fionda". "E' l'indotto che ci toglie
trasparenza / quella meravigliosa gioventù". "Poi
so che hai un figlio. E non è figlio mio". "Ed
ha incartato tutta la vergogna / del suo grigio non-essere incivile".
"C'è del cielo dovunque, e su Baghdad / sopra la Palestina
e i campi / dei Disuniti Stati a Sud del mondo, / ultima stella
a destra". "Io sarei qua, però se vi dispiace..."
"Rumore rosa, ancora, come il mare / un'arpa eolica / del
mio dimenticare". E tante tante altre.
Nostalgia,
malinconia leggera, pudore delle virgole, le virgole e le parentesi
di Lolli. Più significative di una frase, di uno slogan
o di un punto fermo. Forse non si legge così un libro di
poesie. Forse neanche un libro. E nemmeno un disco. Ma nelle frasi
vive e palpita e si sente e ti scalda la poesia.
In
cerca di Garcia Marquez sulla neve della Carnia
di Giorgio Maimone
"Le
lacrime scesero presto a raccontare alla neve quello che non avrebbe
potuto spiegare a parole. Raccontavano il suo dolore infinito,
lo smarrimento per essere rimasta sola. Raccontavano di loro due,
ormai tanto divisi; di un’emigrazione che aveva fatto a
brandelli il loro amore. La neve ascoltava e le suggeriva di dormire”.
Fosse tutto a questo livello dovremmo gridare al miracolo, alla
nascita del nuovo grande scrittore. Non è tutto così,
ma c’è ancora tanto da scoprire. “Non sapevo
spiegare perché soffrivo, ma spiegavo la sofferenza. Prima
di nascere un bambino percepisce traumi e carezze e la sua formazione
avanza in un misterioso equilibrio di amore e paura. Avevo una
miriade di tic nella giovinezza e facevo lunghe “discussioni”
con il mio carattere per farlo ragionare e desistere dal suo smisurato
bisogno di spazio, dalla sua incapacità a stare fermo.
Spiegavo un’anima strappata”.
Luigi
Maieron non è solo un poeta, non è solo “una
quercia che canta” come lo definì Gianni Mura ai
tempi di “Si Vif”, non è solo quella “forza
della natura - come l’ha definito Massimo Bubola - che canta
solo dei grandi temi della vita: vita, morte, il tempo che passa.
Le grandi questioni di cui nessuno più si occupa. Siamo
in un ‘epoca di minimalismo culturale, dove si parla solo
di “quella tequila”, la “lampada sul comodino”,
piccole e piccolissime cose. Maieron invece ha la forza di parlare
di quello che costituisce il nocciolo della nostra vita”.
Gigi Maieron ora è anche scrittore. Il suo primo libro
(non di poesie) si intitola “La neve di Anna” (vedi
inizio dell’articolo), edito dalla Biblioteca dell’Immagine
e uscito in primavera sul territorio nazionale.
In
precedenza Gigi aveva scritto “Ore prisint”, una deliziosa
raccolta di poesie in friulano e almeno due racconti: “La
vous” (la voce) e “Il sentiero”, oltre a uno
spettacolo "Il Troi e la ruvîs" (Il sentiero e
la frana) che è presentato come “un diario di parole
e canzoni che racconta il quotidiano, inarrestabile confabulare
di ciascuno con se stesso”. Ora arriva al balzo lungo, il
salto triplo del romanzo. Che è organizzato un po’
come una sommatoria di racconti, ma che, nell’insieme, narrano
la storia in musica della famiglia Boschetti, i nonni e la mamma
di Gigi.
Maieron
ha un’anima lirica (femina direbbe lui, ricordandosi del
suo primo disco) e spesso prende il volo e vola alta come un falco
che scruta dall’alto i boschi, per cercarvi sentieri e movimenti
di vita. Spesso li trova, sulla punta di una sensibilità
esulcerata, di una dolcezza e di un candore che fanno fede della
sua assoluta onestà. E leggere pensieri come: “La
nostra arma era ed è l’arco. Un’”arma
di minoranza” per piccole guerre, che si arrende alla forza
dei fucili, senza però smettere di gridare che non basta
avere potere o forza per essere giusti” a me allarga il
cuore. E che dire di una descrizione come questa? "Era una
sorta di Don Chisciotte che al posto della lancia aveva il violino
ed il suo cavallo era un motorino che spingeva a mano".
Così
come mi affascina leggere le ricette di erbe contro “le
presenze”: “La felce, appesa in solaio, ci proteggeva
dai fulmini, la spirea e l’iperico dagli spiriti, il comino
dalle streghe, la ruta dal malocchio”. Perché le
streghe esistono e “bastava uno sguardo perché un
raccolto marcisse, bastava toccassero una persona per farla ammalare”.
Il suo paese prende vita poco a poco col procedere del racconto,
i personaggi emergono sbozzati, prima a grana grossa e poi sempre
più fina. Una piccola Spoon River tra i monti della Carnia,
così lontana eppur così simile alla Spoon River
lariana raccontata da Davide Van De Sfroos nel suo "Il mondo
spiegato dai pesci".
Una
comunità dove man mano impariamo a conoscere il carattere
del nonno e della mamma-bambina, del bisnonno e della nonna; suocero
e nuora non si amavano (“fra loro c’era freddo e neve”)
perché lei addossava al suocero le responsabilità
per la morte di Anna (la bisnonna) nel bosco, in mezzo alla neve.
Anna
era andata a cercare il suo uomo, che lavorava da emigrante stagionale
in Austria, perché aveva saputo che stava con un’altra
donna. Ma l’uomo, vedendola arrivare, dopo una camminata
di 8 ore nei boschi, e sentendosi in colpa, l’apostrofò
duramente:”Ce fastu achi, file a cjase!” (che fai
qui? Fila a casa!). E Anna s’era girata ed era tornata indietro,
morendo di notte, sotto la neve, nel bosco.
Il
procedere della narrazione di Maieron ha qualcosa di marqueziano,
la stessa fantasia, gli stessi squarci attraverso i quali la poesia
si affaccia sulla vita, ma, essendo in fin dei conti un “giovane”
della scrittura (ha 50 anni, ma è al suo primo romanzo)
non riesce a padroneggiare la materia narrativa allo stesso modo
del premio Nobel colombiano. E il racconto, che avrebbe le carte
in regola per volare alto, si appesantisce o meglio, si disperde,
in filoni marginali, degradando da epico a semplice bozzetto di
carattere. Forse l’errore di Gigi è di restare troppo
legato alla verità vera. Di “sparagnare” sulla
fantasia (che pure non gli fa difetto), perché i carnici
hanno sempre risparmiato su tutto (“Era l’eredità
della miseria, della guerra, dell’emigrazione”, di
mani “allenate a stringere attrezzi e non a fare gesti d’affetto”)
e non permettere alla storia di prendere forma e levitare. La
verità storica ne guadagna, il ritmo romanzesco ne perde.
Ma
“La neve di Anna” resta comunque un libro prezioso,
un libro pieno di musica e di canzoni e di frasi che sarebbero,
ognuna, il bell’inizio di un‘altra canzone. Lo scopo
di Gigi era di raccontare una famiglia attraverso la musica e
questo obiettivo mi sembra del tutto raggiunto. Osando di più,
forse, si sarebbe ottenuto un grande romanzo. Osando di più,
di certo, si sarebbe smarrito qualche ricordo caro.
Un flauto (quasi)
magico
di
Enrica Paresce (e Walter Veltroni)
Lo
ammetto, sono stata seduta sui san pietrini di Piazza del Popolo
per un totale di 4 ore e mezza... insieme a circa … non
so... diciamo che sembrava di essere una fetta di spiaggia riminese
il 15 d'agosto.... solo che c'erano le stelle e l'obelisco. Scopo?
Il flauto magico di Mozart: direttore Gelmetti, voce narrante
Claudio Bisio. Allora... premettendo che due anni fa io ero seduta
lì sui san pietrini sempre per Mozart... Don Giovanni...
ho avuto subito delle critiche da fare...
Hanno
costruito un palco enorme, stile concerto di Renato Zero allo
Stadio Flaminio... tre teloni per trasmettere lo zoom dei cantanti
(perché a nessuno delle teste tonde passa in mente che
i cantanti all'opera devono apparire esseri dai volti indistinti,
che un Tamino chiaramente attempato e bruttino o una Pamina vestita
in peplo da Madame Talien e con i capelli ritti in testa di gel
stile “me stanno a ghigliottinà fra cinque minuti”,
creano problemi all'immaginazione del pubblico ben più
del serpente di mimi o alla Regina della notte con tanto di vertigini
avvinghiata ai tubi innocenti. d'altra parte immagino che l'avranno
fatto con la scusa dei sottotitoli in italiano visto che si canta
in tedesco...).
L'altra volta con ben maggiore sensibilità avevano reso
visibile la dorsale del Pincio rendendola fondale con poche attente
e intelligenti aggiunte e i teloni delle ripresi erano relegati
solo ai lati permettendo a chi poteva di godersi l'incanto senza
distrarsi per un ritratto ravvicinato delle tonsille di un soprano.
Insomma... neppure avevo messo i piedi in piazza e già
storcevo il naso... incontentabile? Forse... e quest'anno a tanti
tubi e a due enormi gru sorreggenti un paio di vermoni segmentati
per l'amplificazione sopra le nostre teste non facevano compagnia
neppure le sedie...
N e avevano messe solo una cinquantina strenuamente difese da
un gruppo di ragazzi incravattati e ufficialmente dedicate agli
anziani e ai disabili (a quale delle due categorie appartengono
il sindaco e gli altri tipi che si son fatti applaudire alla fine
delle spettacolo proprio da lì? mmmmmmm.....).
D'altra parte è vero che gli anziani che ho visto erano
arrivati tutti ben armati di sediole e sgabelli pieghevoli! Insomma
tutto il resto era per terra... (e non vi dico cosa c'è
rimasto per terra dopo)
una woodstok classica... Io accanto avevo un gruppetto di stranieri
assisi su una imponente coperta anglofoni e giapponesi tedeschi
ecc…dotati di ogni tipo di cellulare macchina digitale o
telecamera computerizzata esistente sulla terra che facevano ding
ding dong dong controtempo all'orchesta...
e vabbèèèè. Insomma dopo aver fatto
sedere a forza gli irriducibili che volevano stare in piedi alle
transenne impedendo la vista a tutti gli altri si inizia... almeno...
se le autobulanze non autombulanzassero in si bemolle (come dice
Bisio) e se finissero i ruggiti all'inizio di via del Corso (ma
che cavolo avevano da ruggì quelli poi?)
L'orchestra ci porta via...
Poi
entra Tamino inseguito dal serpente a salciccia dei mimi e alle
tre grazie in arme e rosso vestite si affrettano ad affettare
il mostro... e iniziano le prime risatine perché una delle
tre damigelle è di taglia XXXLLL però le voci sono
piacevoli soprattutto quelle delle damigelle, Tamino Jimenez che
ricordo anche nel Don Giovanni non è eccessivamente brillante,
o forse lo zoom della telecamera che ne evidenzia il volto sciupato
e la mancanza di un abito di scena rovina tutto... fra l'altro
tutti i cantanti hanno una sorta di doppio microfono che spunta
da sotto alle orecchie con un effetto alieno
Seconda scena illustrata da Bisio che riesce pure a parlare di
Vieri, o era del Piero? bohhhh. Insomma entra Papageno (non ho
il libretto appena recupero il nome ve lo dico. è italiano
comunque e piuttosto bravo soprattutto nella mimica). Poi dopo
che la macchina rinascimentale di una decina di energumeni in
maniche di camicia evocata da Bisio elimina il cadavere sezionato
del serpente (Proietti se l'era cavata molto meglio con il cadavere
del padre nel Don Giovanni).
Andiamo avanti, a pezzi e bocconi e con un Claudio Bisio che non
riesce molto a porgere la storia, continua a dire immaginatevi
questo, immaginatevi quest'altro, usate l'immaginazione...
beh noi lo facciamo... la regina della notte si aggrappa alle
tubature innocenti, e anche la sua bellissima voce (sarà
l'unica ad entusiasmare la piazza poco quando canterà ad
altezza terra) si indurisce un po' e taglia un acuto...mannaggiiiiiiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.....
Arriva il momento della consegna del flauto magico e dei campanelli
e la liberazione di Papageno e compaiono i tre genietti, tre bambini
cecoslovacchi dalle voci angeliche e anche molto in gamba sul
palcoscenico.
Papageno a quel punto ha una meravigliosa idea, liberato dal lucchetto
che gli era stato imposto per aver mentito (dicendo a Tamino che
era stato lui a far fuori il serpente) lo infila destramente in
bocca a Bisio... ma poi lo libera alla fine del pezzo in cambio
di una bella lucidata alla pelata.
Arriva Pamina inseguita dal Moro che è bravo e da proprio
l'idea di uno che le vuol saltare addosso... (in questo caso i
corti capelli dritti in testa non erano errati...) e poi il moro
e Papageno si spaventano a vicenda. Continua la storia con le
prove nei templi: la regina della notte viene per costringere
Pamina ad uccidere Sarastro e se ne va sulle ali di una piazza
impazzita che applaude fischia e urla di gioia. Persino i mocciosi
stranger smettono per cinque minuti di manipolare teconologia
hi tech e si spellano le mani.
Arriva Sarastro subito dopo e avendo gli stessi abiti bianchi
di Tamino e essendosi Bisio distratto a pensare alla partita non
tutti capiscono chi piffero o flauto sia... sino a che non apre
la bocca dimostrando di essere un basso molto basso e caldo e
chiaramente non il tenore. Saltelliamo ancora per l'opera perdendo
scene, colpi e filo della storia ma perlomeno il duetto Papageno
e Papagena in corner (accidenti al calcio ha inquinato anche me!!!)
arriva regalandoci un sorriso. Poi gran finale con il coro e tutti
i protagonisti..(e che non si poteva far cantare il coro e far
godere a quei poveri cantanti il loro giusto compenso di applausi?
no nooooo bisogna andare tutti a casa che è tardi. Mentre
iniziano gli slecchinamenti politici e altro tentiamo di recuperare
l'uso degli arti inferiori aggranchiti e lentamente guadagniamo
l'uscita...
O ltre gli archi di Piazzale Flaminio scopriamo che non ci sono
vigili ad evitare che la marea di gente venga fatta a polpetta
da chi transita a razzo provenendo dal muro torto e quindi osservati
i grappoli in attesa di un autobus ci facciamo a piedi tutta Villa
Borghese per tornare a casa. Un’ora di cammino e una vescica
da sotto il tallone sino al lato di dieci centimetri di lunghezza
per 6 di larghezza....
ueeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeHHHHHHHHHHHHHHHHHHH
Enrica distrutta
James
Joyce, Ulysses: 16/06/1904 - 16/06/2004
di
Arancia (Joyce)
Festeggeremo
il buon Joyce con le ultime pagine del monologo di Molly Bloom
... e così finisce l'Ulysses
[…] due e un quarto che ora bestiale mi dà l’idea
che in Cina si stanno alzando a quest’ora e si pettinano
i codini per la giornata tra poco le monache suoneranno l’angelus
non c’è nessuno che vada a disturbare i loro sonni
se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di
quelli accanto al primo chicchirichì si fa uscire il cervello
a forza di far fracasso guardiamo un po’ se riesco a addormentarmi
1 2 3 4 5 che razza di fiori sono quelli che hanno inventato come
le stelle la carta da parati di Lombard street era molto più
carina quel grembiale che mi hanno dato assomigliava un po’
solo che l’ho portato solo due volte meglio abbassare la
lampada e provare ancora in modo da alzarsi presto voglio andare
da Angel là vicino a Findlater e farmi mandare dei fiori
da mettere per casa nel caso lo portasse qui domani cioè
no oggi o il venerdì porta male prima voglio fare un po’
di pulizie la polvere sembra che si ammucchi mentre dormo poi
un po’ di musica e qualche sigaretta posso accompagnarlo
prima devo pulire i tasti del piano col latte cosa mi devo mettere
porterò una rosa bianca o quelle brioscine di Lipton mi
piace l’odore di un bel negozio di lusso a 7 penny e ½
la libbra o quelle altre con le ciliegine e lo zucchero rosa 11
pence un paio di libbre e poi una bella piantina in mezzo alla
tavola si trova a un minor prezzo da un momento dove le ho viste
non è mica molto i fiori mi piacciono vorrei che la casa
traboccasse di rose Dio del cielo non c’è niente
come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde galoppanti
poi la bella campagna con campi d’avena e di grano e ogni
specie di cose e tutti quei begli animali in giro ti farebbe bene
al cuore veder fiumi laghi e fiori ogni specie di forme e odori
e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette è
questa la natura e quelli che dicono che non c’è
un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza perché
non provano loro a creare qualcosa gliel’ho chiesto spesso
gli atei o come diavolo si chiamano vadano e si lavino un po’
prima e poi strillano per avere il prete quando stanno per morire
e perché perché perché han paura dell’inferno
per via della loro cattiva coscienza ah sì li conosco bene
chi è stato il primo nell’universo prima che ci fosse
qualcun altro che ha fatto tutto chi ah non lo sanno e nemmeno
io eccoci tanto vale che cerchino di impedire che domani sorga
il sole il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo
stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito
di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la
dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto
di biscotto all’anice e era un anno bisestile come ora sì
16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo
più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì
siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è
stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il
sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì
perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è
una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli
detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto
finché non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio
non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare
e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e Mr Stanthope
e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai
che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro
sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con
quella cosa attorno all’elmetto bianco povero diavolo mezzo
arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli
e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e
gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa
e Duke street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti
a Larby Sharon e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati
e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra
sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio
castello e vecchio di mill’anni sì e quei bei Mori
tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di metterti
a sedere in quei loro buchi di botteghe e Ronda con le vecchie
finestre delle posadas fulgidi occhi celava l’inferriata
perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo
aperte la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello
ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada
e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare
il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti
e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle
stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti
e i gelsomini e geranii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero
un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli
come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa
sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo
be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi
di chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì
dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi
le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che
mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo
cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio
Sì.
James Joyce
The
Day After Tomorrow - Americanata pazzesca
di
Arancia
"No,
dai, sarà un’americanata terribile!"
Ma il mio amico sostiene che quel film bisogna vederlo, se ne
discute! Così mi lascio trascinare a vedere The day after
tomorrow… va beh, sono mesi che non vado al cinema, crisi
di astinenza, potrei sopportare anche Boldi e De Sica!
Il film inizia con un volo della telecamera, da mozzare il fiato,
sulla calotta polare, subito seguita da una improbabile scena
alla Indiana Jones.
E prosegue a colpi di scene improbabili e già viste!
La stupidità del vicepresidente e il nobile scienziato
che cerca di convincerlo.
Il tutto all’insegna della banalità più totale!
E
andrebbe anche bene. Un film di evasione sul filone catastrofico
tanto caro agli americani, godibile, rilassante.
Andrebbe anche bene se non fosse che il clima della terra sta
cambiando davvero.
Se non fosse davvero ora di affrontare il problema seriamente.
E invece questo film fa il contrario!
Le argomentazioni scientifiche vengono messe assolutamente in
secondo piano, incomprensibili perfino al mio amico laureato in
geologia!
Gli effetti speciali spettacolari, il fiato sospeso per la sorte
dei protagonisti e l’immancabile, sebbene parziale, lieto
fine, fanno sembrare il tutto una costruzione, appunto, "fantastico-catastrofica".
E poi l'orgia di buoni sentimenti, eroi che spuntano di qua e
di là. Nessuna, nessunissima considerazione per lo sterminio
di massa che il cambiamento climatico provoca mentre il grande
eroe attraversa a piedi l'America congelata.
Tralasciando il fatto che forse è impossibile sopravvivere
a 100 gradi sotto zero in una stanza riscaldata solo da un caminetto
alimentato a libri. E che, nonostante la seconda glaciazione,
il presidente americano annuncia la fine dell'emergenza da un
paradiso tropicale dove si sta in maniche di camicia... un cappottino
non avrebbe stonato!
Un film tutto sommato tranquillizzante su quanto di più
inquietante sta accadendo.
Risultato? Rabbia, solo rabbia.
Sui
libri bisognerebbe apporre una data di scadenza.
di
Arancia
Non
so bene perché, ma i viaggi, anche piccolissimi, sono per
me i tempi dedicati al pensiero. Tram, autobus, treni, e scarpe
i miei luoghi di riflessione.
Bene, stamattina mi lasciavo portare al lavoro dalla filovia.
Intanto leggevo. Intanto pensavo.
Gravissimo, perché mi toccherà rileggere tutto il
capitolo. Avrò pure installato la nuova release di intelligenza
naturale ma il mio cervello non è così multitasking
da capire pienamente un testo mentre è impegnato a seguire
il flusso dei suoi pensieri.
Pure
c’era una relazione molto stretta tra il mio leggere e il
mio pensare.
Stavo rileggendo un libro che ho amato tantissimo quando avevo
vent’anni, un libro che consiglio sempre di leggere.
Ma l’ultima volta che l’ho fatto, il mio amico mi
ha chiesto di parlargliene. Non ne sono stata capace. Eppure non
è stato questo il motivo che mi ha spinto a rileggerlo.
Ho ripreso in mano il libro semplicemente per cercare una frase
molto famosa da mettere, come un bel cappellino, in cima a un
mio racconto.
L’ho trovata in pochi secondi ma una sorta di stupore mi
ha trattenuto fra quelle pagine.
Ho letto quel libro a vent’anni. Mi è piaciuto così
tanto che, ricordo, l’ho riletto per due volte consecutive.
Ricordo un immenso godimento estetico nel leggerlo. Ricordo perfettamente
alcune pagine. Ricordo la traccia della trama che lo percorre.
Eppure, solamente scorrendo le pagine alla ricerca della citazione,
mi sono resa conto che non ne ricordavo affatto il significato
profondo.
Così ho ripreso la lettura credendo che avrei scoperto
che a vent’anni ero troppo immatura per capire, per cogliere
il messaggio che oggi mi pare tanto evidente.
Ho scoperto ben altro.
Ho scoperto che lo avevo assorbito. Fatto mio. Che quel libro
ha plasmato il mio modo di pensare così profondamente che
ciò che avevo letto era diventato parte di me, non poteva
più essere “un ricordo”, non ero in grado di
sentirlo come dato acquisito dall’esterno.
Ma ho scoperto anche che questo modo di pensare, cui per molti
aspetti aderisco ancora, per altri oggi mi sta stretto.
Rileggere quel libro mi permesso di posare una sguardo critico
sulla mia personale visione del mondo.
Sui libri, soprattutto sui libri molto amati, dovremo imprimere
a caratteri ben chiari: RILEGGERE PREFERIBILMENTE ENTRO IL …
.
Masmoudi
al Kabir - Dum dum ta. Dum tata tata. Dum dum ta. (*)
di
Arancia
Ritmo
solenne. Musica larga e dolce. Mi dilata.
Respiro, muscoli, occhi, cuore, braccia.
Mi accende di una luce calda che avvolge, come il movimento a
spirale del mio corpo, il mondo.
Incedere di passi. Ritmicamente sostenuto dalle vibrazioni della
pelle tesa, percossa da dita sapienti.
L’inizio del tacasim celebra le nozze intime tra il mio
corpo, il mio pensiero e la musica.
Non sono più. Il movimento che mi attraversa è generato
dal suono. Aspro. Dolce. Ricco. Fragile. Esitante e sicuro. Che
nel lieve ritardo, nel restare sospeso, arriva a scuotere il centro
delle mie ossa. Per poi trascinarmi in un avvolgente modularsi
in note acute e sicure. E farmi ripiegare, sciogliere, nel profondo
vibrare, proprio nel mio ventre, di suoni gravi e pieni.
Perfetta e imprecisa, la musica. Perfetta e imprecisa la danza.
Ed ecco, sono dita.
Ecco, sono flauto.
Ecco, sono solo una lieve aura di vapore scossa dalle vibrazioni
che percorrono l’aria.
*)
La musica araba è sempre accompagnata da percussioni. Il
Dum indica il suono pieno, quando la mano colpisce il centro della
pelle tesa del darbuca. Il Ta il suono secco delle dita sul bordo.
In mezzo alle nuvole col Pastore di Nuvole
di
Teresa
Lunedì
mattina. Milano è avvolta da quella sua aria opaca e biancastra
e per di più piove, né forte né piano, in
quel modo costante, fastidioso e sottile che in dieci metri ti
bagna fino alle ossa. E gocciolante sono salita in macchina, ho
messo in moto ed è partita la musica con questa canzone:
Lui
è un vecchio pastore di nuvole
un minatore di desideri
un marinaio di lungo corso
che ha navigato sui sette dolori
lo scalatore dei monti di sabbia
il ferroviere senza binari
un vecchio pugile senza più rabbia
ed un pittore senza colori.
E un uomo è quello che mangia
ma anche i sogni che si porta nel cuore
sono tutti i posti dove è già stato
e quelli dove deve ancora andare
ed è la pioggia che lo ha bagnato
e mille facce da ricordare
come le pagine dei libri letti
e il ricordo di un vecchio amore.
E’ un camionista senza volante
che guida un bilico pieno di sogni
un avvoltoio di cento anni
che non ha ancora imparato a volare
esploratore senza viaggi
e architetto senza disegni
ed è un perdono senza peccato
ed un prete senza l’altare.
Una voce maschile, profonda e un po’ roca, scivolando sulle
gocce di pioggia che avevo addosso come un surfista sulle onde
dell’oceano, è arrivata a fior della mia pelle, è
entrata per i pori e si è espansa tiepidamente. Si, lo
so che è un po’ retorica, ma che importa, in una
giornata così, nata nostalgica per clima, non può
far male lasciarsi trascinare via e struggersi un po’.
E
poi le parole finiscono, aspetto il brano successivo sperando
che non contrasti troppo con il mio vecchio pastore di nuvole,
ma la musica va avanti avanti e ancora avanti, solo strumentale,
più ricca di prima, si aggiungono strumenti, diventa un
trionfo di note. E’ come un invito da parte di chi ha cantato
finora : “Io ho detto la mia, le mie parole, i miei pensieri,
ora tocca a te che ascolti, io ti regalo questa musica, la mia
musica, tu se vuoi falla tua, mettici le parole che vuoi, i tuoi
mari, le tue praterie, i tuoi vecchi amori, fatti accompagnare.”
Un po’ come se al cinema il protagonista ti regalasse il
secondo tempo per viverlo come ti pare, come ti piace di più
che vada avanti…
Non
so come ho fatto ma alla fine sono arrivata in ufficio.
Ho
scoperto poi che la voce del mio compagno di stamattina è
quella di Luigi Grechi nonché fratello di De Gregori e
che il brano dura circa 6 minuti e mezzo di cui due e mezzo cantati
e 4 solo musica. Lo consiglio vivamente in giornate come questa.
Vinicio
Capossela: la letteratura è una cosa seria
di
Giorgio Maimone
La
letteratura è una cosa seria. E andrebbe lasciata fare
alle persone serie. Nel primo libro di Vinicio Capossela, cantante,
la cosa più rilevante è il peso e la cosa più
divertente è la nota di copertina., al posto del prezzo:
“Peso netto gr 400, prezzo al Kg euro 40). Per il resto
Capossela, musicista, allinea una serie di storie che definire
senza capo né coda è già fare un complimento
al capo e alla coda che fanno parte di quella serie di scritture
automatiche con cui i ragazzini riempiono i propri diari. Fa specie
che Feltrinelli pubblichi libri simili solo perché con
l’abbaglio del nome, indubbiamente venderà. E’
lo stesso tipo di operazione che Mondadori ha fatto con Cristina
Donà, opere che non sarebbero arrivate sugli scaffali se
non ci fosse stato il viatico del nome. Inviterei le teste d’uovo
della Feltrinelli a guardare cosa si scrive quotidianamente in
rete, nelle decine di siti di scrittura, per capire che di meglio
si può senz’altro fare.
“La
gente ride troppo, la gente non è buona. C’è
ancora in mezzi perché non si governa. Piena di paura e
percentuale e compenso. La paura ammazza il topo”. Cosa
vuol dire? E’ una frase tratta a casa dal secondo miniraccontino
di Vinicio. Qualcuno sa spiegarmi il senso di questa frase? E
di altro disseminate per le interminabili 333 pagine del tomo?
Non so, ma di fronte a operazioni come questa mi viene sempre
più da pensare “ofelèe fa ‘l to mestée”
come si dice a Milanoi (pasticcere fai il tuo lavoro). Che motivo
c’è di invadere altri campi? In particolare quando
non si ha niente da dire?
Oramai
i cantautori scrittori sono una pletora. Manca solo De Gregori
(che, fortunatamente, in un’intervista recente ha smentito
qualsiasi volontà di fare un passo simile): hanno scritto
libri Claudio Lolli, Fabrizio De André, Francesco Guccini,
Davide Van De Sfroos, Cristina Donà, Roberto Vecchioni,
Giorgio Conte, Sergio Endrigo, Ligabue e tanti altri che ancora
mi sfuggono, per arrivare ora a Capossela, band leader.
Non
tutti con la penna hanno dimostrato la stessa maestria che con
la … penna della chitarra, ma alcuni hanno lasciato il segno
(Ligabue, Guccini). Alcuni come Davide Van De Sfroos e Giorgio
Conte hanno utilizzato il veicolo cartaceo come possibile estensione
dei temi già cantati nelle loro canzoni e qui meglio esplicitati.
Guccini, De André e Lolli hanno invece scelto di staccarsi
nettamente e di parlare di tutt’altro. Vicinio Capossela,
uomo di spettacolo, sceglie una terza strada. Il mondo delle sue
canzoni va e viene dal corpo dei racconti.
Ma,
mentre nelle canzoni, si toccano vette di poesia o di divertimento
o comunque di indagine accurata, sulla pagina scritta di prosa
tutto ciò si diluisce in un girovagare indolente che non
porta quasi mai da nessuna parte. Paradossalmente i risultati
migliori Vinicio li ottiene quando riesce ad uscire del tutto
da sé e raccontare storie altre: “La balera di Maldonado”,
“La contessa Waleska””Sun motel”. In quelle
storie si intravede qualcosa della possibile stoffa di scrittore.
Ma
perché penalizzarci con le storie della solitudine della
rockstar nella camera d’albergo? E perché raccontare
cosa trasmetteva la televisione e cosa c’era nel frigo?
Quale male abbiamo fatto? E quale interesse si pensa possa avere
per un lettore?
L'unico
cognome bisdrucciolo della musica italiana (e uno dei pochissimi
in assoluto, dopo Lollobrigida) ci offre però una chicca
sulla sua arte principale: la musica. "Non ci si ferma ad
ascoltare le canzoni, mica si parla di canzoni. Quelle ci rubano
pezzi di cuore, pezzi di altrove. E' ben pericoloso fermarsi ad
ascoltarle. Non ce n'è abbastanza di mondo, oltre le canzoni".
Bellissimo, ma purtroppo è l'unica riflessione sul suo
ambiente. Almeno il libro fosse stata una malinconica riflessione
sul mestiere di cantore! C'è molta malinconia tra queste
pagine, ma pochissima musica e niente aria di festa.
L’esordio,
insomma, è del tutto immodesto. Van De Sfroos, che pure
offriva una trama da romanzo, ci ha propinato solo 91 paginette.
Qui, dove la sostanza è fatta di racconti, si allineano
53(!) mini-storie di dubbio interesse. L’ufficio stampa
Feltrinelli ci tiene a fare sapere che Capossela ha letto molto
e che in questa opera si ispira a John Fante, Tondelli, Kerouac
e Celati (come dire: il tono e la mostarda!) e qualche critico
impigrito di fronte alla mole della disagevole lettura e intimidito
dal disagio di parlar male di un mito giovanile ci casca pure,
dicendo che si nota (Marco Belpoliti su Tuttolibri, salvo scavarsi
il dubbio che “questo libro a tratti sembra essere scritto
solo per sé. Per essere letto da un unico lettore, Capossela
stesso”).
Non
“a tratti”, ma quasi sempre, purtroppo. No, non segnala
la nascita di un nuovo scrittore. Segnala la povertà dell’editoria
in Italia (all’estero quando i cantautori scrivono sono
veri scrittori: Leonard Cohen, Nick Cave, Kinky Friedman). E di
Capossela ci piace di più stare ad attendere il prossimo
disco, sperando possa uscirne un nuovo capolavoro come “Canzoni
a Manovella”, di cui ogni tanto, qui dentro, si percepisce
qualche bagliore. Ho avuto la speranza che alcune delle storie
puntassero a ricreare lo stesso clima, ma erano solo falsi segnali.
Sedici euro risparmiabili.
Vinicio
Capossela
Non si muore tutte le mattine
Feltrinelli pag 333 – 16,00 €
Massimo
Carlotto: "L'oscura immensità della morte"
Un noir sempre più cattivo
di Giorgio Maimone
Massimo
Carlotto diventa sempre più cattivo. Il suo umore si fa
acido, il fiato pesante, la camminata grottesca. Mister Hyde,
a poco a poco, sembra sotterrare quella parte di Dottor Jeckyll
che ancora si celava in lui. “L’oscura immensità
della morte” è un libro tetro e oppressivo, un libro
“nero” sia nell’anima che nelle situazione narrate.
E nonostante ciò, o forse proprio per questo, è
un libro di grande valore.
Non
c’è un solo personaggio positivo, in tutto il libro.
Perfino il Commissario di polizia potrebbe essere corrotto. Gli
unici innocenti sono i morti. Gli altri tutti mostri. A vario
livello. Mostri della porta accanto, in buona parte. O mostri
da prigione. Mostri borghesi e mostri malavitosi. Tutto fa schifo
nella realtà raccontata da Carlotto e forse è una
fotografia del reale. Ma proprio come una fotografia (anzi di
più, perché non si può certo dire che le
foto di Salgado siano indifferenti) Carlotto vuole presentare
un quadro asettico della situazione.
Così
è. Non stiamo a chiederci: cosi è diventata, ma
perché? Questi sono i fatti, questi sono i personaggi che
abitano le prigioni ora, questi sono i mostri che abitano condomini
o villette residenziali. L’unico valore che viene reso nel
libro è dato dalla possibilità di non fare l’infame.
Di non tradire un altro malvivente. Non c’è amore,
non c’è riscatto, non c’è pietà.
La
storia è truce da far paura: una coppia di tossici rapina
un orefice. L’orefice non è uno stinco di santo a
sua volta. Praticamente svolge funzione di banco dei pegni a strozzo
e quindi non può nemmeno denunciare tutto il furto. Però
arriva la polizia: i due scappano prendendo in ostaggio un auto
sulla quale c’è una giovane madre col figlio di otto
anni. Il primo tossico li ammazza tutti e due, aiuta il secondo
a scappare, però viene catturato dalla polizia. Resterà
in prigione 15 anni senza parlare, senza fare il nome del complice.
Uscirà poi per malattia (un cancro allo stadio terminale)
e incontrerà la vendetta del padre del bambino.
E’
lui, la vittima, che ha sentito la moglie parlare dell’Oscura
immensità della morte, un attimo prima di sfumare nel buio
senza ritorno. E il suo unico scopo è rimasto sopravvivere
per vendicarsi. Condotto magistralmente come il solito, ma Carlotto
non può più andare avanti in questa strada di nichilismo
assoluto. Il problema che si riflette sulle pagine sembra sempre
di più essere il suo.
Per
chi non conoscesse la storia di Carlotto, brevemente, come racconta
lo stesso autore: " Tutto è iniziato il 20 gennaio
1976 quando ho scoperto in uno stanzino di un appartamento in
cui sono entrato, la porta era aperta, attratto da grandi urla,
una ragazza morente, Margherita Magello, trafitta da 59 coltellate.
A quell'epoca avevo 19 anni, ero molto giovane. Preso dal panico
sono fuggito. Dopo aver cercato degli amici, mi sono rivolto a
un avvocato e con lui sono andato dai carabinieri. Il tempo di
raccontare la vicissitudine e sono diventato imputato. Da allora
si è messo in moto il meccanismo perverso del processo,
che è dventato il più lungo nella storia della giustiszia
del nostro Paese. Io sono il cittadino italiano che ha subito
più processi".
"La
mia militanza è stato uno degli elementi fondanti dell'accusa.
Ero un extraparlamentare di sinistra. Nel mio caso la relazione
tra tipo di delitto e tipo di autore è stata proprio costituita
sulla mia militanza iin Lotta Continua". Carlotto in totale
trascorrerà più di quattro anni in carcere, in diverse
tappe, tre di latitanza, 17 anni di vicenda giudiziaria (ma ancora
adesso c'è pendente un ricorso di Carlotto presso la Corte
Europea di Strasburgo per l'annullamento dell'ultima condanna).
Nel momento in cui è arrivata la grazia di Scalfaro, Carlotto
si stava preparando per una seconda latitanza, questa definitiva.
Era in libertà per motivi di salute: La grazia arriverà
anche per la non opposizione dei parenti di Margherita Magello.
Chi
ha già letto il libro riconoscerà in questi fatti
quasi tutti questi passaggi nel libro. A quasi trent'anni dall'accaduto
Carlotto non riesce a fare a meno di ripercorrere il suo caso
personale, sollecitato dai dibattitti in corso sulla giustizia
e sulla grazia in questi tempi, col "caso Sofri", ma
non solo. Anche Carlotto è stato a lungo "Il caso
Carlotto" e un po' lo è rimasto. Traducendo tutto
quanto in grande letteratura, letteratura senza redenzione e senza
etica, senza via d'uscita, non nel senso di lieto fine, ma di
una qualsiasi speranza.
"L'oscura
immensità della morte" è un romanzo narrato
in prima persona a due voci da Raffaello Beggiato, il balordo,
e Silvano Contin, il parente delle vittime: e fa impressione quanto
riesca e essere forte e crudele in tutti i passaggi, una crudeltà
che in Carlotto s fa più forte volume dopo volume. Già
"Arrivederci amore ciao", nonostante la dolcezza del
titolo, metteva in scena la vicenda di un bastardo senza limiti
né pudori ed era completamente assente qualsiasi presa
di distanza da parte dell'autore. "Il maestro di nodi",
per quanto tetro la sua parte, riproponeva ipersonaggi dell'Alligatore
e di Rossini che una qualche loro morale seguono e, civicamente,
si occupava dei fatti di Genova.
Ma
quando non è di scena l'Alligatore si dispiega la vera
vena noir di Carlotto, più cattivo di Derek Raymond, più
crudele e disseccato di Leo Malet, più cupo delle "Murder
ballads" di Nick Cave. impegnato a vomitarci addosso il male
assorbito in anni di galera e rimasticato in quelli successivi.
Il risultato è alto, altissimo, ma la miscela questa volta
dò l'impressione di essere all'ultimo stadio di cottura.
Ancora una fiamma, ancora 5 minuti sul fuoco e il sentore di bruciato
potrebbe prevalere. E sarebbe un peccato, perché la pietanza
è formidabile.
"L'oscura immensità della morte""
di Massimo Carlotto
E/O Edizioni Noir 2004– Pag 177 – 13,00 €
In tutte le libreria
Andrea
Kerbaker: "Trentatré e 1/3"
Ricordi di vinile di un disco dei '70
di Giorgio Maimone
E’
un libretto. Ma piccolo piccolo. Sono 111 pagine scritte grandi:
672 caratteri per pagina o, se preferite 74.592 caratteri totali,
spazi inclusi. Si legge in un paio d’ore, volendo essere
larghi, ma sono un paio d’ore ben spese. Andrea Kerbaker,
44enne scrittore milanese, a me sconosciuto fino a qualche giorno
fa, ha costruito un piccolo gioiello a orologeria a partire dal
titolo “Trentatré e un terzo”. Titolo che dovrebbe
già metterci in sospetto, ma il sottotitolo ci toglie dalle
ambasce: “autobiografia di un disco”.
“Che
sonno. Devo aver dormito molto a lungo: fatico tremendamente a
tenere aperto anche un solo occhio. Eppure sono così incuriosito:
intorno a me c’è un intero mondo … vedo in
giro numerosi oggetti a cui non ero abituato”. Eh già,
perché la voce narrante è un vecchio long playing:
avete presente quei padelloni di vinile che giravano sul giradischi
a 33 giri e 1/3 al minuto? Ma non un LP qualunque. Un Lp d’autore
che ha dormito in un armadio in cui è stato frettolosamente
ficcato circa 15 anni prima e che viene riesumato per essere esposto
in una mostra sui dischi famosi degli anni ’70.
Il
gioco nel libro è cercare di capire di che disco si tratti.
Di indicazioni ne vengono date, seppure col contagocce. Sappiamo,
ad esempio che è stato pubblicato nel 1970 e sappiamo anche
che non è nessuno dei suoi colleghi famosi di cui si parla
nelle altre pagine e che negli anni “caldi” è
stato considerato un disco di easy listening e sappiamo anche
che “in un loro disco precedente (è un complesso
dunque – ndr) c’erano le canzoni di un film con un
attore giovane”.
Caccia
al tesoro, ma con premio finale o no? Questo non ve lo dico. Che
farà Kerbaker? Ci dirà che disco è o terrà
l’anonimato? O è un gioco solo nostro? Il gioco comunque
è piacevolissimo per chiunque abbia avuto tra i 15 i 25
anni a inizio anni ’70. Nelle finestre della mente si aprono
cento e cento copertine colorate dei colori più vari: da
Sergent Pepper’s ai Cream, da Cosmo’s factory a Deja
vu, da Made in Japan a Bryter Layter, da Beggar’s banquet
a Aqualung.
Il
gioco funziona anche di più perché il 33 giri risvegliato
si è perso 15 anni di storia: i cd, i telefonini, le e-mail,
la tv a colori … e ora deve ricostruirsi 15 di vita mancante.
Verrebbe da dirgli, con i Gang, “non ti sei perso niente!”
Ma dovevano essere gli anni migliori della nostra vita. Quelli
di prima e quelli di ora forse. In mezzo, come il vinile in questione,
forse abbiamo dormito anche noi.
Ordunque,
mettetevi su una compilation anni ’70 e leggetevi questo
libro. Se il cd è carico dei suoi potenziali 80 minuti
di musica, il sottofondo basterà per leggere tutto il libro.
Fosse stato un trentatré giri avreste dovuto girarlo 4
volte!
"Trentatrè e 1/3"
di Andrea Kerbaker
Edizioni Frassinelli 2003 – Pag 111 – 6,50 €
In tutte le libreria
Buone
"Notizie" da Carlo Fava
di Giorgio Maimone
MILANO
-- “Le notizie” di Carlo Fava (e Gianluca Martinelli)
è il miglior spettacolo di teatro-canzone che ho visto
negli ultimi 4 anni. Il precedente? “Personaggi criminali”.
Autori e interprete? I medesimi. Le notizie quindi sono due: a)
Carlo Fava è il migliore nel suo campo; b) nel suo campo
c’è solo lui.
Scomparso Giorgio Gaber e non ancora emerso nessun altro che voglia
agire sulla stessa lunghezza d’onda, la bandiera del teatro-canzone
posa tutta sulle spalle del “magico duo” Fava-Martinelli,
con il supporto musicale di Beppe Quirici e Vittorio Marinoni
(rispettivamente basso e batteria). Fatto il punto, bisogna dire
che la navigazione entro l’ora e un quarto di spettacolo
è quanto di più gradevole, con alcuni momenti emozionanti.
Carlo
Fava padroneggia con sicurezza un campo difficile, offrendosi
come meraviglioso cantante, bravissimo fine dicitore, buon attore,
buon musicista e, per finire, eccellente autore assieme a Martinelli
di uno spettacolo intelligente, divertente e importante. Il peso
più grosso viene affidato alle canzoni, una decina di brani
dalle ritmiche molto differenti, in grado di vivere vita autonoma
anche fuori dallo spettacolo (un disco con il contenuto de “Le
notizie” è in programma con la Emi, ma non prima
del mese di settembre).
Più
che altro si tratta di una lunga suite musicale, perché
anche sotto i monologhi scorre il pianismo raffinato di Fava,
di accompagnamento, di intrattenimento, di fusione tra un momento
e l’altro della serata. Un flusso sonoro e di parole unico,
senza pause, se non per gli inevitabili applausi che però
Fava e gli stacchi al nero tendono a limitare all’essenziale.
Il tema affrontato sono le notizie, vere e presunte, le notizie
pubbliche e private: un po’ “fammi avere tue notizie”
e un po’ telegiornale. Ma molto, e soprattutto, analisi
di costume.
Fava e Martinelli, come molti
altri, non si trovano a loro agio in questa epoca, in questi tempi,
sotto questi cieli più sociali che politici e lo dicono
a chiare lettere, a volte con l’arma della satira, altre
con quelle del paradosso indignato e altre ancora proponendo modelli
alternativi. Vertici dello spettacolo la delicatissima canzone
iniziale che introduce al monologo “Ping Pong”. Monologo
ascoltato in silenzio e con la pelle d’oca. Coinvolgimento
personale senz’altro, ma il ping pong come metafora dell’evoluzione
(e involuzione) di una storia d’amore mi è decisamente
piaciuta. “La palude” è “la canzone più
politica di tutto lo spettacolo dice Martinelli – e nasce
da una considerazione sullo stato della giustizia. Un luogo immobile,
ma sotto questa apparente immobilità succedono molte cose.
E tutte pericolose, perché la palude non è uno dei
luoghi più rassicuranti della terra”. E si parla
di “uomini che stanno in galera/ e mezzi uomini che stanno
fuori” (e chi ha orecchie per intendere …
“L’uomo flessibile”
è un’altra delle stazioni più significative
dello spettacolo. In puro stile gaberiano, anche nella gestione
della fisicità del personaggio (qui in una delle rare occasioni
in cui si allontana dal piano e recita in piedi), Carlo Fava racconta
dubbi e percorsi mentali di un certo signor C. (possiamo osare?)
che scopre quanto la tanto sbandierata flessibilità attuale
possa portarci nel giro di poco tempo a una vita in cui prima
mancava “mezzo centimetro di felicità” e che
poi, a furia di flessibilità si sprofonda fino a “mezzo
chilometro”. Satira importante e notazione di costume non
marginale e affatto banale.
Se proprio vogliamo azzardare
critiche a “Le notizie” punterei su due temi: lo spazio
dei monologhi è ridotto rispetto a quello delle canzoni
ed è un vero peccato, perché, come si conferma all’inizio
con il “Ping pong” Fava è benissimo in grado
di reggere come attore. E il secondo tema ancora al lavoro di
attore torna: il piano e l’utilizzo continuo del piano,
suonato dallo stesso Fava, per quanto suggestivo nel creare una
cornice sonora continua, è troppo vincolante per la sua
fisicità. Come Gaber, Carlo sceglie una forma di spettacolo
scarno, nudo, sincero, dove tutto è ridotto alla mimica
dell’attore e alla sua voce, ma il vincolo al movimento,
maggiore che in “Personaggi criminali” dove c’era
più azione, risulta limitante.
Altro consiglio (non richiesto,
come il solito) ai due autori è quello di osare un poco
di più. Puntare sì sul punto di forza che è
la musicalità, la voce e la presenza di Carlo Fava, ma
rischiare qualcosa in più traducendo in realtà quello
che era uno dei progetti iniziali dello spettacolo, di cui la
sera della prima non si è vista traccia. La capacità
di mischiare al canovaccio fisso (anzi al copione) elementi di
estrema attualità. Si chiama o non si chiama “Le
notizie”? E allora dateci anche le notizie, ma quelle di
giornata, quelle che pochi minuti prima ha dato il telegiornale.
Poi, di questi tempi, le notizie non serve neanche commentarle.
Fanno già ridere (amaro) o meditare da sole..