Il Sole - Archivi

"L'originale miscellanea di Schott"
di Matisse (e altri)

(Pssst) (arancia) (te la do io l'indicazione per-fet-ta per il libro da regalare a natale) ("l'originale miscellanea di schott) (ben schott) (edizioni sonzogno) (shhhht)
matisse

Arancia, non ascolterai Matisse, spero?
:-))) Devo confessare di non aver mai nemmeno sentito nominare Ben Schott. Mi documenterò Matisse!
Giorgio

BEN SCHOTT ventottenne londinese, è un fotografo, un designer e un fanatico collezionista di notizie di varia umanità.
L'idea della Miscellanea è nata per caso: volendo mandare dei biglietti d'auguri natalizi un po' più originali ha cominciato a impaginare artigianalmente un piccolo libretto con informazioni curiose. Inutile dire che si è fatto prendere la mano, e - 160 pagine e 2.000.000 di copie dopo - oggi può confessare a cuor leggero di aver definitivamente vinto la sua ancestrale paura di morire in miseria.
http://miscellanea.rcslibri.corriere.it/autore.htm

"Leggerlo tutto in una volta è impossibile, eppure non si riesce a staccarsene. L'Originale Miscellanea di Schott è una straordinaria raccolta di fantastici trivia. Quale altro libro può vantare un indice che comprenda lunghezza delle stringhe e linguaggio dei segni, i sette peccati capitali, regole dei duelli e nani, dimensioni delle uova, risultati elettorali, le figure della Smorfia napoletana e i film di Fantozzi? In quale altro libro si possono trovare, racchiusi nella medesima pagina, la nomenclatura golfistica, una storia della tassa sui cappelli, i nomi collettivi, la linea di successione inglese e la bandiera del Guadalupa? In quale altro libro se non ne L'Originale Miscellanea di Schott, ci si può imbattere nel gatto di John Lennon, nel fornitore di cornamuse della Regina, nelle dodici fatiche di Ercole e nei brutali metodi di omicidio scoperti da Miss Marple? Un libro senza eguali. Attenzione: L'Originale Miscellanea di Schott è divertente, imprevedibile, e può indurre dipendenza".

http://rcslibri.corriere.it/sonzogno/popup/novembre04/4541199.htm

Uhmph, credo di aver capito il genere di Ben Schott. Paccottiglia intellettualoide con giochi di parole? Grazie, preferisco le solide e belle trame di una volta. Regala, Arancia, un bell'intramontabile come "L'uomo senza qualità" di Musil. E' un libro obbligatorio. E così legato all'oggi. O sei vuoi per forza correre sul moderno "Una notte al Club" di Christian Gailly. Jazz, ombre e amore.
Giorgio-che-non-segue-mai-i-consigli-di-Matisse

Paccottaglia intellettualoide con giochi di parole? Una sorta di Perec contemporaneo? Interessante :) Interessante vedere che i giudizi sui libri, come la pioggia, cadano gratuitamente :) Non è nulla di tutto questo, Arancia (non è nulla di tutto questo, e peccato, Giorgio). Il libro di Schott racchiude innumerevoli raccolte di notizie, compilazioni, infomazioni utili o non utili: come fare un nodo a
farfalla, tutti i film di bond, tutti gli animali in adozione allo zoo di Londra, il nome di tutte le sinfonie di Haydn, le ultime parole di alcuni scrittori prima di morire, l'elenco degli uomini di lettere mancini, gli stili nell'arte, la misura delle uova ecc. ecc., il tutto riportato senza alcun gioco di parole, semplicemente. Ci sono, in questo libro, una di seguito all'altra, tante di quelle cose che son come ciliegie e non riesci a smettere di cibartene, non riesci a chiudere il volume perché la curiosità del sapere diventa più grande di quella cosa curiosa che è il descrivere un libro senza averlo prima letto :-P Però, la mammma... dicevi. Allora non so, per la mamma, non so è curiosa,
intendo, se lo è, è perfetto. Se invece predilige dei noirs/gialli intelligenti, accattivanti, istruttivi, allora c'è Fred Vergas: Io sono il tenebroso, Chi è morto alzi la mano, Parti in fretta e non tornare. Una trilogia che non credo possa non amare.
Matisse

Appunto :-))
E l'utilità? E cosa ti ha dato sapere fare un nodo a farfalla? O gli animali in adozione? Per carità. Non è quello che intendo con letteratura.
Giorgio

Per lo stesso motivo per cui, incontrandoti per caso, ti chiederei: ma tu,
lo sai fare un nodo a una farfalla? Ma tu, lo sai quanti criceti vivono
nello zoo di Londra?
Se non hai interesse a queste piccole cose, quando mai potrai ritrovarti
bambino? E quando mai potrei, incontrandoti, giocare con te?

Mat

Si gioca e basta, per l'appunto. Ma il gioco può essere fine a se stesso. Se non hai interesse alle grandi cose (vivere, ad esempio) come fai ad avere voglia di parlare con qualcuno? A sceglierti qualcuno con cui parlando potrebbero saltare fuori "anche" le piccole cose? Solo di piccole cose non si vive.
Giorgio


Ti sembro agonizzante?
Mat


Claudio Lolli: "Rumore rosa"
Poesia con intermittenze (del cuore)

di Giorgio Maimone

Rumore rosa – si chiama
E’ proprio come il sogno di una cosa
Che non hai.

“Rumore rosa” si chiama anche questo libro di Claudio Lolli. Un libro di poesie. Accompagnato da un disco, 18’ e 23 secondi di poesie lette da Lolli e suonate da Paolo Capodacqua. E diciamo subito, forse perché è Lolli, il disco convince più del libro. Eppure le poesie sono le stesse. Ma la voce di Claudio, le sue pause, le sue inflessioni danno loro uno spessore tridimensionale che altrimenti, sulla pagina, a volte si smarrisce. E allora, dopo una prima lettura piatta, da carta stampata, occorre fare una seconda lettura, a voce alta. D’altra parte in un libro intitolato al “rumore”, per quanto rosa, pensare di escludere l’audio è un errore evidente.

Le poesie di Claudio sono poliedri solidi. Non hanno quindi strettamente bisogno della musica (sempre) anche se con la musica ci guadagnano (spesso). Il pregio, in questo caso, è la sensibilità con cui Paolo Capodacqua lo accompagna. Le poesie di Claudio, quelle riuscite e quelle meno riuscite, hanno bisogno dello spessore della voce che le accompagni, in un lento fluire sospeso in cui incontrino la loro vera dimensione “Corpo e tempo, corpo e tempo” come ripete in una di queste “figlie” spurie. Sempre ammesso che le canzoni siano “figlie” legittime e non un prodotto dello stesso corpo creativo, solo sotto forma diversa.

D'altra parte è da tempo che Claudio ha abbandonato, per alcune canzoni, la forma cantata, scegliendo la versione "recital": "Adriatico" e "Curva Sud" sono due degli esempi più belli in questo senso. E il cd allegato al libro ripercorre un po' climi e atmosfere già assaporate dal duo Paolo/Claudio. Un percorso che si segue con grande piacere.

Così come fa piacere frugare tra le poesie dedicate agli amici e trovare versi come questi: "Mi spiace il tuo precoce incanutire / e quel rigonfiamento a mezzo corpo / come se il mondo dovesse già finire /... / cercando quella pace che non c'è / per uno che ha dita rotte come te" e pensare che possano essere versi dedicati al sodale Paolo Capodacqua che si rompe le dita a furia di perdersi tra "la seta delle tue chitarre". Oppure altri vesi come questi: "Vecchia stella polare m'hai guidato / con la locomotiva dell'ingegno / ... / e corre e corre la malinconia / insieme all'orgoglio / d'aver riempito insieme qualche foglio / che forse non sarà gettato via" e pensare che l'amico numero 8 sia Francesco Guccini (questa sembra facile). Altri amici sono più difficili e cifrati (a proposito, complimenti per essere riuscito ad arrivare a 12 amici! Io non ce la farei). Chi sarà il personaggio a cui scrive "e poi ci assomigliamo / (lo dicono i giornali) / anche se, è vero, ci separa il velo / della mia cialtronaggine puttana"?

Qualcuno di famoso, se ne parlano i giornali. Qualcuno che pure un po' gli rassomiglia, qualcuno che ha "un registro (di voce - ndr) tra il bambino e il cielo". Erri De Luca? Gianni D'Elia? Comunque sia un poeta a cui si può dire "Mi sembra tutto vero quasi santo / in quel tuo canto che non rinuncia al pensiero / nel tuo pensiero / che non rinuncia al canto". E ci resta la curiosità di sapere chi è B. oppure V. o ancora F. oppure Sasà e Vincent. Mentre Tas ("Stefano se tu sapessi quanto / mi ha dato la tua vita e la disarmonia/ che, col gioco di prestigio del'incanto / e la magia delle parole / che ti ostini a pronunciare / in questo porto misero di mare / come se il mondo fosse nei tuoi libri, / cerchi di allontanare") dovrebbe essere Stefano Tassinari, scrittore e figura centrale della cultura bolognese.

Mancano un po' le donne, intese come amiche, ma c'è un ritratto dolcissimo della moglie ("Potessi custodire la tua vita / (lo faccio da trent'anni) / ed evitarti questi spaesamenti / di impegni, orari, di lavori / affanni/ ... / Siamo ingombranti al mondo/ noi fragili carezze di cristallo / non c'è futuro per nessuno quindi / vorrei invitarti ancora / a un altro ballo"). Così come impregnata di una tenerezza assoluta è la poesia dedicata ai due figli: "Il bruno i biondo / l'Ettore e l'Achille /... / E se avessero un senso le parole / quelle parole ormai spezzate e rotte / Svegliatevi domani, e buonanotte".

Molti sono i momenti intensi, gli squarci di cielo che Lolli riesce ad aprirci ("L'esistenza di dio, o la sua assenza,/ non mi è remota /abbiamo appuntamento tutti i giorni / ora di pranzo, lui si materializza / si transustanzia in un / campari soda"), anche se l'ansia del capolavoro sfugge tra queste cento pagine scarse (ogni due pagine, una foto. Il curatore del volume, Enzo Eric Toccaceli, è soprattutto fotografo) in immagini strappate da fogli d'appunti improvvisati ("Sarebbe così facile scambiarsi una carezza / quella promessa che nessuno manterrà / Accendersi nel vuoto di un momento / Con la ridicola certezza / Che l'amore è solo corpo / corpo e tempo").

Dove il discorso non mi quaglia è quando sembra che Lolli "voglia" scrivere poesia. I momenti ossia in cui cede all'uso delle "parole poetiche" come "frale", "atra" (e "atro", triplo uso). Anche se su "frale" ironizza lui stesso in una poesia di poche pagine dopo: "E mi colpiva l'aggettivo "frale" / che non si trova nei versi di John Lennon". Ancora qualche dubbio mi lasciano le frequenti inversioni ritmiche ("Gli occhi tuoi verso l'alto fissi a un cielo", "stanno per fare del loro amore corona", "da te composti nelle notti insonni", "man mano che la scienza in noi si allarga", "verso quel chiosco verde di gelati / correre insieme"). Un po' troppo "poetese", insomma, come mostra anche la ricerca sempre presente della rima, pur mascherata nei versi sciolti. L'impressione è che il cantautore Lolli non li avrebbe mai messi in una sua canzone o, almeno, ne avrebbe fatto un uso un po' più accorto.

Affascinante invece torna ad essere la persistenza del rumore rosa, che attraversa trasversalmente tutte le poesie del libro, a partire dalla terza, dove appare, fino alla penultima in cui, all'alba, "mi sembra che ci sia silenzio / finalmente, alle pareti". Trentanove poesie cosparse di rumore, per quanto rosa (il pink noise che esce dalle casse acustiche). E una quarantesima, silenziosa, che riepiloga e spiega le precedenti: "Dovevo licenziare trentanove/ lettere dedicate al fronte interno / Trentanove parole a visi e affetti / perduti o permanenti / Vivi comunque nella fretta amara / del dunque. / C'è una lettera in più / E a chi mandarla? / Frose a chi mi ha costretto ed aiutato / a ricalcare la mappa organizzata / del mio magico inferno".

Ma le righe passano e si affastellanno le parole (più sue che mie) e ancora non ho spiegato di questo libro cosa mi piace e se mi piace. Mi piace. E mi piace particolarmente rileggerlo e dal grande mare dell'affresco del "magico inferno lolliano" mi garba stare a estirpare perle dal fondo o cogliere le more nascoste che affiorano improvvise tra i cespugli delle frasi. Frammenti di discorso: "è l'alba che mi stringe un po' la gola / (lo sai piango per niente)", "elogio alla mitezza, amore mio / che forse è insufficiente /a rintracciare brave baby sitter", "Forse mi fa paura / il tuo sguardo affettuoso che mi fruga", "un corpo che si annega nella sua stessa voce", "Fare l'amore noi, da pari a pari / e questo è il mio bisogno orizzontale", "E poi mi sfiora, come una carezza, / la tua bellezza che non trova pace", "Lo sai o non lo sai, nè mai ci crederai / chi hai sputato alla vita dal profondo / Piccolo artista senza documenti", "Lo spiedo capriccioso del dolore", "E noi che amiamo tanto la ferita", "leccati questa morte / che è compagna della mia solitudine / borghese", "E' tutto chiaro, manca solo il mondo", "cucciolo da battaglia senza fionda". "E' l'indotto che ci toglie trasparenza / quella meravigliosa gioventù". "Poi so che hai un figlio. E non è figlio mio". "Ed ha incartato tutta la vergogna / del suo grigio non-essere incivile". "C'è del cielo dovunque, e su Baghdad / sopra la Palestina e i campi / dei Disuniti Stati a Sud del mondo, / ultima stella a destra". "Io sarei qua, però se vi dispiace..." "Rumore rosa, ancora, come il mare / un'arpa eolica / del mio dimenticare". E tante tante altre.

Nostalgia, malinconia leggera, pudore delle virgole, le virgole e le parentesi di Lolli. Più significative di una frase, di uno slogan o di un punto fermo. Forse non si legge così un libro di poesie. Forse neanche un libro. E nemmeno un disco. Ma nelle frasi vive e palpita e si sente e ti scalda la poesia.


In cerca di Garcia Marquez sulla neve della Carnia
di Giorgio Maimone


"Le lacrime scesero presto a raccontare alla neve quello che non avrebbe potuto spiegare a parole. Raccontavano il suo dolore infinito, lo smarrimento per essere rimasta sola. Raccontavano di loro due, ormai tanto divisi; di un’emigrazione che aveva fatto a brandelli il loro amore. La neve ascoltava e le suggeriva di dormire”. Fosse tutto a questo livello dovremmo gridare al miracolo, alla nascita del nuovo grande scrittore. Non è tutto così, ma c’è ancora tanto da scoprire. “Non sapevo spiegare perché soffrivo, ma spiegavo la sofferenza. Prima di nascere un bambino percepisce traumi e carezze e la sua formazione avanza in un misterioso equilibrio di amore e paura. Avevo una miriade di tic nella giovinezza e facevo lunghe “discussioni” con il mio carattere per farlo ragionare e desistere dal suo smisurato bisogno di spazio, dalla sua incapacità a stare fermo. Spiegavo un’anima strappata”.

Luigi Maieron non è solo un poeta, non è solo “una quercia che canta” come lo definì Gianni Mura ai tempi di “Si Vif”, non è solo quella “forza della natura - come l’ha definito Massimo Bubola - che canta solo dei grandi temi della vita: vita, morte, il tempo che passa. Le grandi questioni di cui nessuno più si occupa. Siamo in un ‘epoca di minimalismo culturale, dove si parla solo di “quella tequila”, la “lampada sul comodino”, piccole e piccolissime cose. Maieron invece ha la forza di parlare di quello che costituisce il nocciolo della nostra vita”. Gigi Maieron ora è anche scrittore. Il suo primo libro (non di poesie) si intitola “La neve di Anna” (vedi inizio dell’articolo), edito dalla Biblioteca dell’Immagine e uscito in primavera sul territorio nazionale.

In precedenza Gigi aveva scritto “Ore prisint”, una deliziosa raccolta di poesie in friulano e almeno due racconti: “La vous” (la voce) e “Il sentiero”, oltre a uno spettacolo "Il Troi e la ruvîs" (Il sentiero e la frana) che è presentato come “un diario di parole e canzoni che racconta il quotidiano, inarrestabile confabulare di ciascuno con se stesso”. Ora arriva al balzo lungo, il salto triplo del romanzo. Che è organizzato un po’ come una sommatoria di racconti, ma che, nell’insieme, narrano la storia in musica della famiglia Boschetti, i nonni e la mamma di Gigi.

Maieron ha un’anima lirica (femina direbbe lui, ricordandosi del suo primo disco) e spesso prende il volo e vola alta come un falco che scruta dall’alto i boschi, per cercarvi sentieri e movimenti di vita. Spesso li trova, sulla punta di una sensibilità esulcerata, di una dolcezza e di un candore che fanno fede della sua assoluta onestà. E leggere pensieri come: “La nostra arma era ed è l’arco. Un’”arma di minoranza” per piccole guerre, che si arrende alla forza dei fucili, senza però smettere di gridare che non basta avere potere o forza per essere giusti” a me allarga il cuore. E che dire di una descrizione come questa? "Era una sorta di Don Chisciotte che al posto della lancia aveva il violino ed il suo cavallo era un motorino che spingeva a mano".

Così come mi affascina leggere le ricette di erbe contro “le presenze”: “La felce, appesa in solaio, ci proteggeva dai fulmini, la spirea e l’iperico dagli spiriti, il comino dalle streghe, la ruta dal malocchio”. Perché le streghe esistono e “bastava uno sguardo perché un raccolto marcisse, bastava toccassero una persona per farla ammalare”. Il suo paese prende vita poco a poco col procedere del racconto, i personaggi emergono sbozzati, prima a grana grossa e poi sempre più fina. Una piccola Spoon River tra i monti della Carnia, così lontana eppur così simile alla Spoon River lariana raccontata da Davide Van De Sfroos nel suo "Il mondo spiegato dai pesci".

Una comunità dove man mano impariamo a conoscere il carattere del nonno e della mamma-bambina, del bisnonno e della nonna; suocero e nuora non si amavano (“fra loro c’era freddo e neve”) perché lei addossava al suocero le responsabilità per la morte di Anna (la bisnonna) nel bosco, in mezzo alla neve.

Anna era andata a cercare il suo uomo, che lavorava da emigrante stagionale in Austria, perché aveva saputo che stava con un’altra donna. Ma l’uomo, vedendola arrivare, dopo una camminata di 8 ore nei boschi, e sentendosi in colpa, l’apostrofò duramente:”Ce fastu achi, file a cjase!” (che fai qui? Fila a casa!). E Anna s’era girata ed era tornata indietro, morendo di notte, sotto la neve, nel bosco.

Il procedere della narrazione di Maieron ha qualcosa di marqueziano, la stessa fantasia, gli stessi squarci attraverso i quali la poesia si affaccia sulla vita, ma, essendo in fin dei conti un “giovane” della scrittura (ha 50 anni, ma è al suo primo romanzo) non riesce a padroneggiare la materia narrativa allo stesso modo del premio Nobel colombiano. E il racconto, che avrebbe le carte in regola per volare alto, si appesantisce o meglio, si disperde, in filoni marginali, degradando da epico a semplice bozzetto di carattere. Forse l’errore di Gigi è di restare troppo legato alla verità vera. Di “sparagnare” sulla fantasia (che pure non gli fa difetto), perché i carnici hanno sempre risparmiato su tutto (“Era l’eredità della miseria, della guerra, dell’emigrazione”, di mani “allenate a stringere attrezzi e non a fare gesti d’affetto”) e non permettere alla storia di prendere forma e levitare. La verità storica ne guadagna, il ritmo romanzesco ne perde.

Ma “La neve di Anna” resta comunque un libro prezioso, un libro pieno di musica e di canzoni e di frasi che sarebbero, ognuna, il bell’inizio di un‘altra canzone. Lo scopo di Gigi era di raccontare una famiglia attraverso la musica e questo obiettivo mi sembra del tutto raggiunto. Osando di più, forse, si sarebbe ottenuto un grande romanzo. Osando di più, di certo, si sarebbe smarrito qualche ricordo caro.


Un flauto (quasi) magico

di Enrica Paresce (e Walter Veltroni)

Lo ammetto, sono stata seduta sui san pietrini di Piazza del Popolo per un totale di 4 ore e mezza... insieme a circa … non so... diciamo che sembrava di essere una fetta di spiaggia riminese il 15 d'agosto.... solo che c'erano le stelle e l'obelisco. Scopo? Il flauto magico di Mozart: direttore Gelmetti, voce narrante Claudio Bisio. Allora... premettendo che due anni fa io ero seduta lì sui san pietrini sempre per Mozart... Don Giovanni... ho avuto subito delle critiche da fare...

Hanno costruito un palco enorme, stile concerto di Renato Zero allo Stadio Flaminio... tre teloni per trasmettere lo zoom dei cantanti (perché a nessuno delle teste tonde passa in mente che i cantanti all'opera devono apparire esseri dai volti indistinti, che un Tamino chiaramente attempato e bruttino o una Pamina vestita in peplo da Madame Talien e con i capelli ritti in testa di gel stile “me stanno a ghigliottinà fra cinque minuti”, creano problemi all'immaginazione del pubblico ben più del serpente di mimi o alla Regina della notte con tanto di vertigini avvinghiata ai tubi innocenti. d'altra parte immagino che l'avranno fatto con la scusa dei sottotitoli in italiano visto che si canta in tedesco...).


L'altra volta con ben maggiore sensibilità avevano reso visibile la dorsale del Pincio rendendola fondale con poche attente e intelligenti aggiunte e i teloni delle ripresi erano relegati solo ai lati permettendo a chi poteva di godersi l'incanto senza distrarsi per un ritratto ravvicinato delle tonsille di un soprano. Insomma... neppure avevo messo i piedi in piazza e già storcevo il naso... incontentabile? Forse... e quest'anno a tanti tubi e a due enormi gru sorreggenti un paio di vermoni segmentati per l'amplificazione sopra le nostre teste non facevano compagnia neppure le sedie...

N e avevano messe solo una cinquantina strenuamente difese da un gruppo di ragazzi incravattati e ufficialmente dedicate agli anziani e ai disabili (a quale delle due categorie appartengono il sindaco e gli altri tipi che si son fatti applaudire alla fine delle spettacolo proprio da lì? mmmmmmm.....).

D'altra parte è vero che gli anziani che ho visto erano arrivati tutti ben armati di sediole e sgabelli pieghevoli! Insomma tutto il resto era per terra... (e non vi dico cosa c'è rimasto per terra dopo)
una woodstok classica... Io accanto avevo un gruppetto di stranieri assisi su una imponente coperta anglofoni e giapponesi tedeschi ecc…dotati di ogni tipo di cellulare macchina digitale o telecamera computerizzata esistente sulla terra che facevano ding ding dong dong controtempo all'orchesta...

e vabbèèèè. Insomma dopo aver fatto sedere a forza gli irriducibili che volevano stare in piedi alle transenne impedendo la vista a tutti gli altri si inizia... almeno... se le autobulanze non autombulanzassero in si bemolle (come dice Bisio) e se finissero i ruggiti all'inizio di via del Corso (ma che cavolo avevano da ruggì quelli poi?)

L'orchestra ci porta via...

Poi entra Tamino inseguito dal serpente a salciccia dei mimi e alle tre grazie in arme e rosso vestite si affrettano ad affettare il mostro... e iniziano le prime risatine perché una delle tre damigelle è di taglia XXXLLL però le voci sono piacevoli soprattutto quelle delle damigelle, Tamino Jimenez che ricordo anche nel Don Giovanni non è eccessivamente brillante, o forse lo zoom della telecamera che ne evidenzia il volto sciupato e la mancanza di un abito di scena rovina tutto... fra l'altro tutti i cantanti hanno una sorta di doppio microfono che spunta da sotto alle orecchie con un effetto alieno

Seconda scena illustrata da Bisio che riesce pure a parlare di Vieri, o era del Piero? bohhhh. Insomma entra Papageno (non ho il libretto appena recupero il nome ve lo dico. è italiano comunque e piuttosto bravo soprattutto nella mimica). Poi dopo che la macchina rinascimentale di una decina di energumeni in maniche di camicia evocata da Bisio elimina il cadavere sezionato del serpente (Proietti se l'era cavata molto meglio con il cadavere del padre nel Don Giovanni).

Andiamo avanti, a pezzi e bocconi e con un Claudio Bisio che non riesce molto a porgere la storia, continua a dire immaginatevi questo, immaginatevi quest'altro, usate l'immaginazione...
beh noi lo facciamo... la regina della notte si aggrappa alle tubature innocenti, e anche la sua bellissima voce (sarà l'unica ad entusiasmare la piazza poco quando canterà ad altezza terra) si indurisce un po' e taglia un acuto...mannaggiiiiiiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.....
Arriva il momento della consegna del flauto magico e dei campanelli e la liberazione di Papageno e compaiono i tre genietti, tre bambini cecoslovacchi dalle voci angeliche e anche molto in gamba sul palcoscenico.

Papageno a quel punto ha una meravigliosa idea, liberato dal lucchetto che gli era stato imposto per aver mentito (dicendo a Tamino che era stato lui a far fuori il serpente) lo infila destramente in bocca a Bisio... ma poi lo libera alla fine del pezzo in cambio di una bella lucidata alla pelata.
Arriva Pamina inseguita dal Moro che è bravo e da proprio l'idea di uno che le vuol saltare addosso... (in questo caso i corti capelli dritti in testa non erano errati...) e poi il moro e Papageno si spaventano a vicenda. Continua la storia con le prove nei templi: la regina della notte viene per costringere Pamina ad uccidere Sarastro e se ne va sulle ali di una piazza impazzita che applaude fischia e urla di gioia. Persino i mocciosi stranger smettono per cinque minuti di manipolare teconologia hi tech e si spellano le mani.

Arriva Sarastro subito dopo e avendo gli stessi abiti bianchi di Tamino e essendosi Bisio distratto a pensare alla partita non tutti capiscono chi piffero o flauto sia... sino a che non apre la bocca dimostrando di essere un basso molto basso e caldo e chiaramente non il tenore. Saltelliamo ancora per l'opera perdendo scene, colpi e filo della storia ma perlomeno il duetto Papageno e Papagena in corner (accidenti al calcio ha inquinato anche me!!!) arriva regalandoci un sorriso. Poi gran finale con il coro e tutti i protagonisti..(e che non si poteva far cantare il coro e far godere a quei poveri cantanti il loro giusto compenso di applausi? no nooooo bisogna andare tutti a casa che è tardi. Mentre iniziano gli slecchinamenti politici e altro tentiamo di recuperare l'uso degli arti inferiori aggranchiti e lentamente guadagniamo l'uscita...

O ltre gli archi di Piazzale Flaminio scopriamo che non ci sono vigili ad evitare che la marea di gente venga fatta a polpetta da chi transita a razzo provenendo dal muro torto e quindi osservati i grappoli in attesa di un autobus ci facciamo a piedi tutta Villa Borghese per tornare a casa. Un’ora di cammino e una vescica da sotto il tallone sino al lato di dieci centimetri di lunghezza per 6 di larghezza....
ueeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeHHHHHHHHHHHHHHHHHHH

Enrica distrutta


James Joyce, Ulysses: 16/06/1904 - 16/06/2004

di Arancia (Joyce)

Festeggeremo il buon Joyce con le ultime pagine del monologo di Molly Bloom ... e così finisce l'Ulysses

[…] due e un quarto che ora bestiale mi dà l’idea che in Cina si stanno alzando a quest’ora e si pettinano i codini per la giornata tra poco le monache suoneranno l’angelus non c’è nessuno che vada a disturbare i loro sonni se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di quelli accanto al primo chicchirichì si fa uscire il cervello a forza di far fracasso guardiamo un po’ se riesco a addormentarmi 1 2 3 4 5 che razza di fiori sono quelli che hanno inventato come le stelle la carta da parati di Lombard street era molto più carina quel grembiale che mi hanno dato assomigliava un po’ solo che l’ho portato solo due volte meglio abbassare la lampada e provare ancora in modo da alzarsi presto voglio andare da Angel là vicino a Findlater e farmi mandare dei fiori da mettere per casa nel caso lo portasse qui domani cioè no oggi o il venerdì porta male prima voglio fare un po’ di pulizie la polvere sembra che si ammucchi mentre dormo poi un po’ di musica e qualche sigaretta posso accompagnarlo prima devo pulire i tasti del piano col latte cosa mi devo mettere porterò una rosa bianca o quelle brioscine di Lipton mi piace l’odore di un bel negozio di lusso a 7 penny e ½ la libbra o quelle altre con le ciliegine e lo zucchero rosa 11 pence un paio di libbre e poi una bella piantina in mezzo alla tavola si trova a un minor prezzo da un momento dove le ho viste non è mica molto i fiori mi piacciono vorrei che la casa traboccasse di rose Dio del cielo non c’è niente come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde galoppanti poi la bella campagna con campi d’avena e di grano e ogni specie di cose e tutti quei begli animali in giro ti farebbe bene al cuore veder fiumi laghi e fiori ogni specie di forme e odori e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette è questa la natura e quelli che dicono che non c’è un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza perché non provano loro a creare qualcosa gliel’ho chiesto spesso gli atei o come diavolo si chiamano vadano e si lavino un po’ prima e poi strillano per avere il prete quando stanno per morire e perché perché perché han paura dell’inferno per via della loro cattiva coscienza ah sì li conosco bene chi è stato il primo nell’universo prima che ci fosse qualcun altro che ha fatto tutto chi ah non lo sanno e nemmeno io eccoci tanto vale che cerchino di impedire che domani sorga il sole il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotto all’anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finché non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e Mr Stanthope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa e Duke street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharon e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello e vecchio di mill’anni sì e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l’inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e geranii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio Sì.

James Joyce


The Day After Tomorrow - Americanata pazzesca

di Arancia

"No, dai, sarà un’americanata terribile!"
Ma il mio amico sostiene che quel film bisogna vederlo, se ne discute! Così mi lascio trascinare a vedere The day after tomorrow… va beh, sono mesi che non vado al cinema, crisi di astinenza, potrei sopportare anche Boldi e De Sica!
Il film inizia con un volo della telecamera, da mozzare il fiato, sulla calotta polare, subito seguita da una improbabile scena alla Indiana Jones.
E prosegue a colpi di scene improbabili e già viste!
La stupidità del vicepresidente e il nobile scienziato che cerca di convincerlo.
Il tutto all’insegna della banalità più totale!
E andrebbe anche bene. Un film di evasione sul filone catastrofico tanto caro agli americani, godibile, rilassante.
Andrebbe anche bene se non fosse che il clima della terra sta cambiando davvero.
Se non fosse davvero ora di affrontare il problema seriamente.
E invece questo film fa il contrario!
Le argomentazioni scientifiche vengono messe assolutamente in secondo piano, incomprensibili perfino al mio amico laureato in geologia!
Gli effetti speciali spettacolari, il fiato sospeso per la sorte dei protagonisti e l’immancabile, sebbene parziale, lieto fine, fanno sembrare il tutto una costruzione, appunto, "fantastico-catastrofica".
E poi l'orgia di buoni sentimenti, eroi che spuntano di qua e di là. Nessuna, nessunissima considerazione per lo sterminio di massa che il cambiamento climatico provoca mentre il grande eroe attraversa a piedi l'America congelata.
Tralasciando il fatto che forse è impossibile sopravvivere a 100 gradi sotto zero in una stanza riscaldata solo da un caminetto alimentato a libri. E che, nonostante la seconda glaciazione, il presidente americano annuncia la fine dell'emergenza da un paradiso tropicale dove si sta in maniche di camicia... un cappottino non avrebbe stonato!
Un film tutto sommato tranquillizzante su quanto di più inquietante sta accadendo.
Risultato? Rabbia, solo rabbia.


Sui libri bisognerebbe apporre una data di scadenza.

di Arancia

Non so bene perché, ma i viaggi, anche piccolissimi, sono per me i tempi dedicati al pensiero. Tram, autobus, treni, e scarpe i miei luoghi di riflessione.
Bene, stamattina mi lasciavo portare al lavoro dalla filovia. Intanto leggevo. Intanto pensavo.
Gravissimo, perché mi toccherà rileggere tutto il capitolo. Avrò pure installato la nuova release di intelligenza naturale ma il mio cervello non è così multitasking da capire pienamente un testo mentre è impegnato a seguire il flusso dei suoi pensieri.

Pure c’era una relazione molto stretta tra il mio leggere e il mio pensare.
Stavo rileggendo un libro che ho amato tantissimo quando avevo vent’anni, un libro che consiglio sempre di leggere.
Ma l’ultima volta che l’ho fatto, il mio amico mi ha chiesto di parlargliene. Non ne sono stata capace. Eppure non è stato questo il motivo che mi ha spinto a rileggerlo. Ho ripreso in mano il libro semplicemente per cercare una frase molto famosa da mettere, come un bel cappellino, in cima a un mio racconto.
L’ho trovata in pochi secondi ma una sorta di stupore mi ha trattenuto fra quelle pagine.
Ho letto quel libro a vent’anni. Mi è piaciuto così tanto che, ricordo, l’ho riletto per due volte consecutive. Ricordo un immenso godimento estetico nel leggerlo. Ricordo perfettamente alcune pagine. Ricordo la traccia della trama che lo percorre. Eppure, solamente scorrendo le pagine alla ricerca della citazione, mi sono resa conto che non ne ricordavo affatto il significato profondo.
Così ho ripreso la lettura credendo che avrei scoperto che a vent’anni ero troppo immatura per capire, per cogliere il messaggio che oggi mi pare tanto evidente.
Ho scoperto ben altro.
Ho scoperto che lo avevo assorbito. Fatto mio. Che quel libro ha plasmato il mio modo di pensare così profondamente che ciò che avevo letto era diventato parte di me, non poteva più essere “un ricordo”, non ero in grado di sentirlo come dato acquisito dall’esterno.
Ma ho scoperto anche che questo modo di pensare, cui per molti aspetti aderisco ancora, per altri oggi mi sta stretto.
Rileggere quel libro mi permesso di posare una sguardo critico sulla mia personale visione del mondo.
Sui libri, soprattutto sui libri molto amati, dovremo imprimere a caratteri ben chiari: RILEGGERE PREFERIBILMENTE ENTRO IL … .


 

Masmoudi al Kabir - Dum dum ta. Dum tata tata. Dum dum ta. (*)

di Arancia

Ritmo solenne. Musica larga e dolce. Mi dilata.
Respiro, muscoli, occhi, cuore, braccia.
Mi accende di una luce calda che avvolge, come il movimento a spirale del mio corpo, il mondo.
Incedere di passi. Ritmicamente sostenuto dalle vibrazioni della pelle tesa, percossa da dita sapienti.
L’inizio del tacasim celebra le nozze intime tra il mio corpo, il mio pensiero e la musica.
Non sono più. Il movimento che mi attraversa è generato dal suono. Aspro. Dolce. Ricco. Fragile. Esitante e sicuro. Che nel lieve ritardo, nel restare sospeso, arriva a scuotere il centro delle mie ossa. Per poi trascinarmi in un avvolgente modularsi in note acute e sicure. E farmi ripiegare, sciogliere, nel profondo vibrare, proprio nel mio ventre, di suoni gravi e pieni.
Perfetta e imprecisa, la musica. Perfetta e imprecisa la danza.
Ed ecco, sono dita.
Ecco, sono flauto.
Ecco, sono solo una lieve aura di vapore scossa dalle vibrazioni che percorrono l’aria.

*) La musica araba è sempre accompagnata da percussioni. Il Dum indica il suono pieno, quando la mano colpisce il centro della pelle tesa del darbuca. Il Ta il suono secco delle dita sul bordo.



In mezzo alle nuvole col Pastore di Nuvole

di Teresa

Lunedì mattina. Milano è avvolta da quella sua aria opaca e biancastra e per di più piove, né forte né piano, in quel modo costante, fastidioso e sottile che in dieci metri ti bagna fino alle ossa. E gocciolante sono salita in macchina, ho messo in moto ed è partita la musica con questa canzone:

Lui è un vecchio pastore di nuvole
un minatore di desideri
un marinaio di lungo corso
che ha navigato sui sette dolori
lo scalatore dei monti di sabbia
il ferroviere senza binari
un vecchio pugile senza più rabbia
ed un pittore senza colori.
E un uomo è quello che mangia
ma anche i sogni che si porta nel cuore
sono tutti i posti dove è già stato
e quelli dove deve ancora andare
ed è la pioggia che lo ha bagnato
e mille facce da ricordare
come le pagine dei libri letti
e il ricordo di un vecchio amore.
E’ un camionista senza volante
che guida un bilico pieno di sogni
un avvoltoio di cento anni
che non ha ancora imparato a volare
esploratore senza viaggi
e architetto senza disegni
ed è un perdono senza peccato
ed un prete senza l’altare.

Una voce maschile, profonda e un po’ roca, scivolando sulle gocce di pioggia che avevo addosso come un surfista sulle onde dell’oceano, è arrivata a fior della mia pelle, è entrata per i pori e si è espansa tiepidamente. Si, lo so che è un po’ retorica, ma che importa, in una giornata così, nata nostalgica per clima, non può far male lasciarsi trascinare via e struggersi un po’.

E poi le parole finiscono, aspetto il brano successivo sperando che non contrasti troppo con il mio vecchio pastore di nuvole, ma la musica va avanti avanti e ancora avanti, solo strumentale, più ricca di prima, si aggiungono strumenti, diventa un trionfo di note. E’ come un invito da parte di chi ha cantato finora : “Io ho detto la mia, le mie parole, i miei pensieri, ora tocca a te che ascolti, io ti regalo questa musica, la mia musica, tu se vuoi falla tua, mettici le parole che vuoi, i tuoi mari, le tue praterie, i tuoi vecchi amori, fatti accompagnare.” Un po’ come se al cinema il protagonista ti regalasse il secondo tempo per viverlo come ti pare, come ti piace di più che vada avanti…

Non so come ho fatto ma alla fine sono arrivata in ufficio.

Ho scoperto poi che la voce del mio compagno di stamattina è quella di Luigi Grechi nonché fratello di De Gregori e che il brano dura circa 6 minuti e mezzo di cui due e mezzo cantati e 4 solo musica. Lo consiglio vivamente in giornate come questa.


Vinicio Capossela: la letteratura è una cosa seria

di Giorgio Maimone

La letteratura è una cosa seria. E andrebbe lasciata fare alle persone serie. Nel primo libro di Vinicio Capossela, cantante, la cosa più rilevante è il peso e la cosa più divertente è la nota di copertina., al posto del prezzo: “Peso netto gr 400, prezzo al Kg euro 40). Per il resto Capossela, musicista, allinea una serie di storie che definire senza capo né coda è già fare un complimento al capo e alla coda che fanno parte di quella serie di scritture automatiche con cui i ragazzini riempiono i propri diari. Fa specie che Feltrinelli pubblichi libri simili solo perché con l’abbaglio del nome, indubbiamente venderà. E’ lo stesso tipo di operazione che Mondadori ha fatto con Cristina Donà, opere che non sarebbero arrivate sugli scaffali se non ci fosse stato il viatico del nome. Inviterei le teste d’uovo della Feltrinelli a guardare cosa si scrive quotidianamente in rete, nelle decine di siti di scrittura, per capire che di meglio si può senz’altro fare.

“La gente ride troppo, la gente non è buona. C’è ancora in mezzi perché non si governa. Piena di paura e percentuale e compenso. La paura ammazza il topo”. Cosa vuol dire? E’ una frase tratta a casa dal secondo miniraccontino di Vinicio. Qualcuno sa spiegarmi il senso di questa frase? E di altro disseminate per le interminabili 333 pagine del tomo? Non so, ma di fronte a operazioni come questa mi viene sempre più da pensare “ofelèe fa ‘l to mestée” come si dice a Milanoi (pasticcere fai il tuo lavoro). Che motivo c’è di invadere altri campi? In particolare quando non si ha niente da dire?

Oramai i cantautori scrittori sono una pletora. Manca solo De Gregori (che, fortunatamente, in un’intervista recente ha smentito qualsiasi volontà di fare un passo simile): hanno scritto libri Claudio Lolli, Fabrizio De André, Francesco Guccini, Davide Van De Sfroos, Cristina Donà, Roberto Vecchioni, Giorgio Conte, Sergio Endrigo, Ligabue e tanti altri che ancora mi sfuggono, per arrivare ora a Capossela, band leader.

Non tutti con la penna hanno dimostrato la stessa maestria che con la … penna della chitarra, ma alcuni hanno lasciato il segno (Ligabue, Guccini). Alcuni come Davide Van De Sfroos e Giorgio Conte hanno utilizzato il veicolo cartaceo come possibile estensione dei temi già cantati nelle loro canzoni e qui meglio esplicitati. Guccini, De André e Lolli hanno invece scelto di staccarsi nettamente e di parlare di tutt’altro. Vicinio Capossela, uomo di spettacolo, sceglie una terza strada. Il mondo delle sue canzoni va e viene dal corpo dei racconti.

Ma, mentre nelle canzoni, si toccano vette di poesia o di divertimento o comunque di indagine accurata, sulla pagina scritta di prosa tutto ciò si diluisce in un girovagare indolente che non porta quasi mai da nessuna parte. Paradossalmente i risultati migliori Vinicio li ottiene quando riesce ad uscire del tutto da sé e raccontare storie altre: “La balera di Maldonado”, “La contessa Waleska””Sun motel”. In quelle storie si intravede qualcosa della possibile stoffa di scrittore.

Ma perché penalizzarci con le storie della solitudine della rockstar nella camera d’albergo? E perché raccontare cosa trasmetteva la televisione e cosa c’era nel frigo? Quale male abbiamo fatto? E quale interesse si pensa possa avere per un lettore?

L'unico cognome bisdrucciolo della musica italiana (e uno dei pochissimi in assoluto, dopo Lollobrigida) ci offre però una chicca sulla sua arte principale: la musica. "Non ci si ferma ad ascoltare le canzoni, mica si parla di canzoni. Quelle ci rubano pezzi di cuore, pezzi di altrove. E' ben pericoloso fermarsi ad ascoltarle. Non ce n'è abbastanza di mondo, oltre le canzoni". Bellissimo, ma purtroppo è l'unica riflessione sul suo ambiente. Almeno il libro fosse stata una malinconica riflessione sul mestiere di cantore! C'è molta malinconia tra queste pagine, ma pochissima musica e niente aria di festa.

L’esordio, insomma, è del tutto immodesto. Van De Sfroos, che pure offriva una trama da romanzo, ci ha propinato solo 91 paginette. Qui, dove la sostanza è fatta di racconti, si allineano 53(!) mini-storie di dubbio interesse. L’ufficio stampa Feltrinelli ci tiene a fare sapere che Capossela ha letto molto e che in questa opera si ispira a John Fante, Tondelli, Kerouac e Celati (come dire: il tono e la mostarda!) e qualche critico impigrito di fronte alla mole della disagevole lettura e intimidito dal disagio di parlar male di un mito giovanile ci casca pure, dicendo che si nota (Marco Belpoliti su Tuttolibri, salvo scavarsi il dubbio che “questo libro a tratti sembra essere scritto solo per sé. Per essere letto da un unico lettore, Capossela stesso”).

Non “a tratti”, ma quasi sempre, purtroppo. No, non segnala la nascita di un nuovo scrittore. Segnala la povertà dell’editoria in Italia (all’estero quando i cantautori scrivono sono veri scrittori: Leonard Cohen, Nick Cave, Kinky Friedman). E di Capossela ci piace di più stare ad attendere il prossimo disco, sperando possa uscirne un nuovo capolavoro come “Canzoni a Manovella”, di cui ogni tanto, qui dentro, si percepisce qualche bagliore. Ho avuto la speranza che alcune delle storie puntassero a ricreare lo stesso clima, ma erano solo falsi segnali. Sedici euro risparmiabili.

Vinicio Capossela
Non si muore tutte le mattine
Feltrinelli pag 333 – 16,00 €


Massimo Carlotto: "L'oscura immensità della morte"
Un noir sempre più cattivo

di Giorgio Maimone

Massimo Carlotto diventa sempre più cattivo. Il suo umore si fa acido, il fiato pesante, la camminata grottesca. Mister Hyde, a poco a poco, sembra sotterrare quella parte di Dottor Jeckyll che ancora si celava in lui. “L’oscura immensità della morte” è un libro tetro e oppressivo, un libro “nero” sia nell’anima che nelle situazione narrate. E nonostante ciò, o forse proprio per questo, è un libro di grande valore.

Non c’è un solo personaggio positivo, in tutto il libro. Perfino il Commissario di polizia potrebbe essere corrotto. Gli unici innocenti sono i morti. Gli altri tutti mostri. A vario livello. Mostri della porta accanto, in buona parte. O mostri da prigione. Mostri borghesi e mostri malavitosi. Tutto fa schifo nella realtà raccontata da Carlotto e forse è una fotografia del reale. Ma proprio come una fotografia (anzi di più, perché non si può certo dire che le foto di Salgado siano indifferenti) Carlotto vuole presentare un quadro asettico della situazione.

Così è. Non stiamo a chiederci: cosi è diventata, ma perché? Questi sono i fatti, questi sono i personaggi che abitano le prigioni ora, questi sono i mostri che abitano condomini o villette residenziali. L’unico valore che viene reso nel libro è dato dalla possibilità di non fare l’infame. Di non tradire un altro malvivente. Non c’è amore, non c’è riscatto, non c’è pietà.

La storia è truce da far paura: una coppia di tossici rapina un orefice. L’orefice non è uno stinco di santo a sua volta. Praticamente svolge funzione di banco dei pegni a strozzo e quindi non può nemmeno denunciare tutto il furto. Però arriva la polizia: i due scappano prendendo in ostaggio un auto sulla quale c’è una giovane madre col figlio di otto anni. Il primo tossico li ammazza tutti e due, aiuta il secondo a scappare, però viene catturato dalla polizia. Resterà in prigione 15 anni senza parlare, senza fare il nome del complice. Uscirà poi per malattia (un cancro allo stadio terminale) e incontrerà la vendetta del padre del bambino.

E’ lui, la vittima, che ha sentito la moglie parlare dell’Oscura immensità della morte, un attimo prima di sfumare nel buio senza ritorno. E il suo unico scopo è rimasto sopravvivere per vendicarsi. Condotto magistralmente come il solito, ma Carlotto non può più andare avanti in questa strada di nichilismo assoluto. Il problema che si riflette sulle pagine sembra sempre di più essere il suo.

Per chi non conoscesse la storia di Carlotto, brevemente, come racconta lo stesso autore: " Tutto è iniziato il 20 gennaio 1976 quando ho scoperto in uno stanzino di un appartamento in cui sono entrato, la porta era aperta, attratto da grandi urla, una ragazza morente, Margherita Magello, trafitta da 59 coltellate. A quell'epoca avevo 19 anni, ero molto giovane. Preso dal panico sono fuggito. Dopo aver cercato degli amici, mi sono rivolto a un avvocato e con lui sono andato dai carabinieri. Il tempo di raccontare la vicissitudine e sono diventato imputato. Da allora si è messo in moto il meccanismo perverso del processo, che è dventato il più lungo nella storia della giustiszia del nostro Paese. Io sono il cittadino italiano che ha subito più processi".

"La mia militanza è stato uno degli elementi fondanti dell'accusa. Ero un extraparlamentare di sinistra. Nel mio caso la relazione tra tipo di delitto e tipo di autore è stata proprio costituita sulla mia militanza iin Lotta Continua". Carlotto in totale trascorrerà più di quattro anni in carcere, in diverse tappe, tre di latitanza, 17 anni di vicenda giudiziaria (ma ancora adesso c'è pendente un ricorso di Carlotto presso la Corte Europea di Strasburgo per l'annullamento dell'ultima condanna). Nel momento in cui è arrivata la grazia di Scalfaro, Carlotto si stava preparando per una seconda latitanza, questa definitiva. Era in libertà per motivi di salute: La grazia arriverà anche per la non opposizione dei parenti di Margherita Magello.

Chi ha già letto il libro riconoscerà in questi fatti quasi tutti questi passaggi nel libro. A quasi trent'anni dall'accaduto Carlotto non riesce a fare a meno di ripercorrere il suo caso personale, sollecitato dai dibattitti in corso sulla giustizia e sulla grazia in questi tempi, col "caso Sofri", ma non solo. Anche Carlotto è stato a lungo "Il caso Carlotto" e un po' lo è rimasto. Traducendo tutto quanto in grande letteratura, letteratura senza redenzione e senza etica, senza via d'uscita, non nel senso di lieto fine, ma di una qualsiasi speranza.

"L'oscura immensità della morte" è un romanzo narrato in prima persona a due voci da Raffaello Beggiato, il balordo, e Silvano Contin, il parente delle vittime: e fa impressione quanto riesca e essere forte e crudele in tutti i passaggi, una crudeltà che in Carlotto s fa più forte volume dopo volume. Già "Arrivederci amore ciao", nonostante la dolcezza del titolo, metteva in scena la vicenda di un bastardo senza limiti né pudori ed era completamente assente qualsiasi presa di distanza da parte dell'autore. "Il maestro di nodi", per quanto tetro la sua parte, riproponeva ipersonaggi dell'Alligatore e di Rossini che una qualche loro morale seguono e, civicamente, si occupava dei fatti di Genova.

Ma quando non è di scena l'Alligatore si dispiega la vera vena noir di Carlotto, più cattivo di Derek Raymond, più crudele e disseccato di Leo Malet, più cupo delle "Murder ballads" di Nick Cave. impegnato a vomitarci addosso il male assorbito in anni di galera e rimasticato in quelli successivi. Il risultato è alto, altissimo, ma la miscela questa volta dò l'impressione di essere all'ultimo stadio di cottura. Ancora una fiamma, ancora 5 minuti sul fuoco e il sentore di bruciato potrebbe prevalere. E sarebbe un peccato, perché la pietanza è formidabile.


"L'oscura immensità della morte""
di Massimo Carlotto
E/O Edizioni Noir 2004– Pag 177 – 13,00 €
In tutte le libreria


 

Andrea Kerbaker: "Trentatré e 1/3"
Ricordi di vinile di un disco dei '70

di Giorgio Maimone

E’ un libretto. Ma piccolo piccolo. Sono 111 pagine scritte grandi: 672 caratteri per pagina o, se preferite 74.592 caratteri totali, spazi inclusi. Si legge in un paio d’ore, volendo essere larghi, ma sono un paio d’ore ben spese. Andrea Kerbaker, 44enne scrittore milanese, a me sconosciuto fino a qualche giorno fa, ha costruito un piccolo gioiello a orologeria a partire dal titolo “Trentatré e un terzo”. Titolo che dovrebbe già metterci in sospetto, ma il sottotitolo ci toglie dalle ambasce: “autobiografia di un disco”.

“Che sonno. Devo aver dormito molto a lungo: fatico tremendamente a tenere aperto anche un solo occhio. Eppure sono così incuriosito: intorno a me c’è un intero mondo … vedo in giro numerosi oggetti a cui non ero abituato”. Eh già, perché la voce narrante è un vecchio long playing: avete presente quei padelloni di vinile che giravano sul giradischi a 33 giri e 1/3 al minuto? Ma non un LP qualunque. Un Lp d’autore che ha dormito in un armadio in cui è stato frettolosamente ficcato circa 15 anni prima e che viene riesumato per essere esposto in una mostra sui dischi famosi degli anni ’70.

Il gioco nel libro è cercare di capire di che disco si tratti. Di indicazioni ne vengono date, seppure col contagocce. Sappiamo, ad esempio che è stato pubblicato nel 1970 e sappiamo anche che non è nessuno dei suoi colleghi famosi di cui si parla nelle altre pagine e che negli anni “caldi” è stato considerato un disco di easy listening e sappiamo anche che “in un loro disco precedente (è un complesso dunque – ndr) c’erano le canzoni di un film con un attore giovane”.

Caccia al tesoro, ma con premio finale o no? Questo non ve lo dico. Che farà Kerbaker? Ci dirà che disco è o terrà l’anonimato? O è un gioco solo nostro? Il gioco comunque è piacevolissimo per chiunque abbia avuto tra i 15 i 25 anni a inizio anni ’70. Nelle finestre della mente si aprono cento e cento copertine colorate dei colori più vari: da Sergent Pepper’s ai Cream, da Cosmo’s factory a Deja vu, da Made in Japan a Bryter Layter, da Beggar’s banquet a Aqualung.

Il gioco funziona anche di più perché il 33 giri risvegliato si è perso 15 anni di storia: i cd, i telefonini, le e-mail, la tv a colori … e ora deve ricostruirsi 15 di vita mancante. Verrebbe da dirgli, con i Gang, “non ti sei perso niente!” Ma dovevano essere gli anni migliori della nostra vita. Quelli di prima e quelli di ora forse. In mezzo, come il vinile in questione, forse abbiamo dormito anche noi.

Ordunque, mettetevi su una compilation anni ’70 e leggetevi questo libro. Se il cd è carico dei suoi potenziali 80 minuti di musica, il sottofondo basterà per leggere tutto il libro. Fosse stato un trentatré giri avreste dovuto girarlo 4 volte!


"Trentatrè e 1/3"
di Andrea Kerbaker
Edizioni Frassinelli 2003 – Pag 111 – 6,50 €
In tutte le libreria


Buone "Notizie" da Carlo Fava

di Giorgio Maimone

MILANO -- “Le notizie” di Carlo Fava (e Gianluca Martinelli) è il miglior spettacolo di teatro-canzone che ho visto negli ultimi 4 anni. Il precedente? “Personaggi criminali”. Autori e interprete? I medesimi. Le notizie quindi sono due: a) Carlo Fava è il migliore nel suo campo; b) nel suo campo c’è solo lui.
Scomparso Giorgio Gaber e non ancora emerso nessun altro che voglia agire sulla stessa lunghezza d’onda, la bandiera del teatro-canzone posa tutta sulle spalle del “magico duo” Fava-Martinelli, con il supporto musicale di Beppe Quirici e Vittorio Marinoni (rispettivamente basso e batteria). Fatto il punto, bisogna dire che la navigazione entro l’ora e un quarto di spettacolo è quanto di più gradevole, con alcuni momenti emozionanti.

Carlo Fava padroneggia con sicurezza un campo difficile, offrendosi come meraviglioso cantante, bravissimo fine dicitore, buon attore, buon musicista e, per finire, eccellente autore assieme a Martinelli di uno spettacolo intelligente, divertente e importante. Il peso più grosso viene affidato alle canzoni, una decina di brani dalle ritmiche molto differenti, in grado di vivere vita autonoma anche fuori dallo spettacolo (un disco con il contenuto de “Le notizie” è in programma con la Emi, ma non prima del mese di settembre).

Più che altro si tratta di una lunga suite musicale, perché anche sotto i monologhi scorre il pianismo raffinato di Fava, di accompagnamento, di intrattenimento, di fusione tra un momento e l’altro della serata. Un flusso sonoro e di parole unico, senza pause, se non per gli inevitabili applausi che però Fava e gli stacchi al nero tendono a limitare all’essenziale. Il tema affrontato sono le notizie, vere e presunte, le notizie pubbliche e private: un po’ “fammi avere tue notizie” e un po’ telegiornale. Ma molto, e soprattutto, analisi di costume.

Fava e Martinelli, come molti altri, non si trovano a loro agio in questa epoca, in questi tempi, sotto questi cieli più sociali che politici e lo dicono a chiare lettere, a volte con l’arma della satira, altre con quelle del paradosso indignato e altre ancora proponendo modelli alternativi. Vertici dello spettacolo la delicatissima canzone iniziale che introduce al monologo “Ping Pong”. Monologo ascoltato in silenzio e con la pelle d’oca. Coinvolgimento personale senz’altro, ma il ping pong come metafora dell’evoluzione (e involuzione) di una storia d’amore mi è decisamente piaciuta. “La palude” è “la canzone più politica di tutto lo spettacolo dice Martinelli – e nasce da una considerazione sullo stato della giustizia. Un luogo immobile, ma sotto questa apparente immobilità succedono molte cose. E tutte pericolose, perché la palude non è uno dei luoghi più rassicuranti della terra”. E si parla di “uomini che stanno in galera/ e mezzi uomini che stanno fuori” (e chi ha orecchie per intendere …

“L’uomo flessibile” è un’altra delle stazioni più significative dello spettacolo. In puro stile gaberiano, anche nella gestione della fisicità del personaggio (qui in una delle rare occasioni in cui si allontana dal piano e recita in piedi), Carlo Fava racconta dubbi e percorsi mentali di un certo signor C. (possiamo osare?) che scopre quanto la tanto sbandierata flessibilità attuale possa portarci nel giro di poco tempo a una vita in cui prima mancava “mezzo centimetro di felicità” e che poi, a furia di flessibilità si sprofonda fino a “mezzo chilometro”. Satira importante e notazione di costume non marginale e affatto banale.

Se proprio vogliamo azzardare critiche a “Le notizie” punterei su due temi: lo spazio dei monologhi è ridotto rispetto a quello delle canzoni ed è un vero peccato, perché, come si conferma all’inizio con il “Ping pong” Fava è benissimo in grado di reggere come attore. E il secondo tema ancora al lavoro di attore torna: il piano e l’utilizzo continuo del piano, suonato dallo stesso Fava, per quanto suggestivo nel creare una cornice sonora continua, è troppo vincolante per la sua fisicità. Come Gaber, Carlo sceglie una forma di spettacolo scarno, nudo, sincero, dove tutto è ridotto alla mimica dell’attore e alla sua voce, ma il vincolo al movimento, maggiore che in “Personaggi criminali” dove c’era più azione, risulta limitante.

Altro consiglio (non richiesto, come il solito) ai due autori è quello di osare un poco di più. Puntare sì sul punto di forza che è la musicalità, la voce e la presenza di Carlo Fava, ma rischiare qualcosa in più traducendo in realtà quello che era uno dei progetti iniziali dello spettacolo, di cui la sera della prima non si è vista traccia. La capacità di mischiare al canovaccio fisso (anzi al copione) elementi di estrema attualità. Si chiama o non si chiama “Le notizie”? E allora dateci anche le notizie, ma quelle di giornata, quelle che pochi minuti prima ha dato il telegiornale. Poi, di questi tempi, le notizie non serve neanche commentarle. Fanno già ridere (amaro) o meditare da sole..

Toulouse-Lautrec: occhi di bambino sul demi-monde

di Enrica Paresce

ROMA -- Occhio di bambino. Ingenuo, implacabile, curioso, uso a grandezze diverse, a proporzioni e a punti di vista anomali. Un bambino cresciuto. Dolorosamente cresciuto con la certezza che mai gli sarà possibile avvicinarsi all'erede desiderato dai suoi genitori, all'aristocratico dotato di nobile aspetto così come di ricchezze e titoli che era lecito attendersi da un virgulto della stirpe dei Toulouse Lautrec.

Forse questo è il segreto per dirimere i sottili segni graffianti delle guaches, dei bozzetti per i cartelloni, dei ritratti dei personaggi più in vista del demi-monde di fin de siecle in mostra sino all'8 febbraio al Vittoriano.

I volti noti della Ville Lumiere appaiono distorti in quello sguardo, seppure affascinanti nei colori nei movimenti nella vita che trasuda dalle linee eleganti che li immortalano, grotteschi ma senza malizia.

L'occhio di Lautrec come quello dei bambini, segue propri privati concetti estetici, estrapola la bellezza dalla mostruosità, gioca e si stupisce, ritornando all'armonia codificata dai concetti di armonia classica solo nelle prime opere o quando vi è costretto dalla necessità.

Le grand horizzontelles, come allora venivano chiamate con sprezzo le attrici e le mantenute più famose, o le ignote ospiti di qualche casa di tolleranza, che popolano i disegni di Lautrec sono le uniche donne di cui ammetta l'esistenza, senza preferenze per le une o per le altre. Icone dell'ossessione che la "donna" rappresenta per lui, tanto strettamente legato a sua madre e ai suoi parenti e ad un tempo perfettamente conscio di non aver alcuna possibilità di poter costruire una propria famiglia.

Che siano i lunghi guanti neri (serpenti, rami d'albero secchi, tentacoli) di una delle sue muse preferite, la cantanteYvette Guilbert, o le gambe roteanti della sue amate ballerine di can can, che sia il tratto rapido con cui coglie, sempre con gentile e aristocratico divertimento, i tratti volgari o armoniosi, corrosi ed orridi di uomini e di donne incontrati per un attimo, o l'abilità con cui ritrae i cavalli, antico e mai sopito amore in lui non vi è mai disprezzo per i soggetti della sua arte, solo l'incantato e disarmante sguardo di un fanciullo.


Uno sguardo insopportabilmente profondo che vede e ci fa vedere ben più in profondo, scoprendo sotto i lucidi satin e le tube una crudeltà latente, una sensazione di angoscioso vuoto al di là del volto del pagliaccio, che fa intuire la caducità di quel mondo dorato che Henry Toulouse Lautrec ha attraversato senza sentirsene parte.

fino all'8 febbraio 2004

L'altro Toulouse Lautrec